Cara Roberta,
ho letto con interesse il tuo intervento sul Fatto di sabato scorso sui concorsi universitari.
Con parole efficaci sei riuscita a trasmettere i pensieri che vengono ad ogni persona di buon senso che si trovi, magari per la prima volta, in una commissione di concorso a cattedra e che non faccia parte di un accordo che predetermini gli esiti del concorso. Considerazioni e domande che però raramente hanno raggiunto l’interesse della cronaca, probabilmente perché solo con il meccanismo del sorteggio delle commissioni, introdotto dall’attuale ministro Gelmini come indiscutibile segno di sfiducia nei confronti del corpo accademico, un numero significativo di docenti si sono trovati per la prima volta membri di commissioni di concorso senza fare parte delle combine che hanno caratterizzato la totalità dei concorsi universitari svolti con il meccanismo delle idoneità (prima tre ed ora due). Sottolineo, la totalità dei concorsi svolti dalla metà degli anni ’90, e sarei felice nel caso in cui fossi smentito da qualcuno delle decine di migliaia di membri delle migliaia di commissioni che si sono succedute in questi 15 anni di “selezioni comparative”.
Ciò detto vorrei commentare le tue proposte per migliorare il sistema. Sono tutte cose ragionevoli e condivisibili ma, in quanto tali, già proposte e discusse in passato.
Iniziamo dalla questione delle idoneità. Questo tipo di concorsi possono essere considerati come il frutto avvelenato donato all’ accademia dall’allora ministro Berlinguer (primo governo Prodi). Un ministro dell’ Università, specie se di centro sinistra, deve fare i conti con le pressioni del mondo accademico e dei sindacati di categoria. Al tempo di Berlinguer si era formato un tappo che bloccava i passaggi di ruolo, da ricercatore ad associato e da associato a ordinario. Siamo a metà degli anni ‘90, guarda caso 15 anni dopo la madre di tutti i concorsi (mancati) l’ope legis della fine degli anni ’80, quando migliaia di persone sono entrate in ruolo senza una valutazione concorsuale. Ci si trova di fronte il problema di garantire una progressione di carriera ad un gran numero di persone, in pratica indipendentemente dal merito. Abilmente Berlinguer scaricò il problema sulle università proponendo un sistema che, data la loro autonomia, avrebbe potuto essere utilizzato in modo virtuoso, selezionando gli idonei secondo le reali necessità scientifiche e didattiche degli atenei. In pratica il sistema delle idoneità ha permesso l’organizzazione di una serie di cupole accademiche, tipicamente una per settore scientifico (spero di essere sommerso da una valanga di lettere ed email di smentita) in cui i vincitori delle idoneità, tranne casi rarissimi, erano definiti prima delle votazioni dei commissari.
Qualcuno dirà che in questo modo hanno potuto fare carriera anche persone meritevoli. Certamente , ma quante mogli, figli, nipoti e amici di amici, magari incapaci, il sistema universitario ha dovuto in questo modo assorbire con tutti i conseguenti nefasti effetti secondari?
Eliminiamo subito le idoneità multiple. D’accordo al 100%. Peccato che questi siano gli ultimi concorsi con queste regole e ormai le stalle si siano svuotate e brocchi e cavalli di razza pascolino insieme nella prateria dell’accademia.
Passiamo alla questione del cambio della sede dopo la laurea. Per chiunque come te abbia studiato alla Normale e insegnato all’ estero la cosa e’ ovvia ed evidente.
Però già Salvini nel ‘95 (Governo Dini) cercò di inserire questa norma che gli fu fatta rimangiare dai sindacati di categoria. Inoltre nel programma dell’ Unione (2007) questo punto fu specificamente previsto ma si perse poi nei meandri della politica. Insomma non ci siamo riusciti in piu’ di 15 anni ma possiamo sempre riprovarci.
E’ però forse opportuno fare un passo indietro e cercare di capire che cosa stia succedendo all’ università e quali siano i motivi della crisi attuale.
In cinquant’anni siamo passati da una università pubblica di elite ad una di massa, con decine di migliaia di docenti e milioni di studenti. Ciò ha fornito un contributo importantissimo al progresso del nostro paese, alla crescita tecnica e culturale di intere generazioni, riducendo la distanza tra l’Italia ed il resto dell’ Europa.
Ma tutto questo è accaduto senza essere accompagnato nel tempo da una adeguata riflessione politica. Ad esempio, il tentativo di garantire la necessaria decentralizzazione organizzativa, prevista nella legge 382 è riuscito solo in parte. Infatti dietro l’affermazione ideologica dell’ autonomia universitaria non c’è stata la conseguente azione politica, per cui l’autonomia è rimasta solo di facciata mentre è mancata l’autonomia sostanziale, quella economica. A causa di un’altro elemento ideologico egualitaristico non si è nemmeno riusciti a differenziare il salario dei docenti sulla base dei loro risultati, ne’ a differenziare gli atenei tra quelli dedicati alla formazione (college) e quelli che comprendono anche la ricerca (research university) oppure a prevedere borse di studio basate principalmente sul merito.
La mancata realizzazione dell’autonomia fa sì che ancora oggi tutte le università, inclusa buona parte di quelle private (sic!), siano dipendenti dal contributo ministeriale (FFO), suddiviso secondo parametri bizantini solo vagamente riferibili a comportamenti virtuosi.
In questo senso l’autonomia non è stata realizzata e ha fallito. Di conseguenza si sono sviluppati dei comportamenti interni all’ accademia che hanno invece realizzato l’autonomia delle lobby e delle consorterie in grado di sfruttare con diabolica efficienza le debolezze di un sistema autonomo solo quando risulta conveniente, per il resto completamente dipendente dallo stato.
Che cosa ne facciamo di questa università? Pongo la domanda con tutta la forza possibile perché in questo momento la risposta la sta dando solo il centro destra, con una determinazione ed un metodo che devono far riflettere.
La risposta di Tremonti e del centro destra è brutalmente chiara: di questa università non ce ne facciamo nulla, occorre demolirla fino alle fondamenta e metterla in mano ai privati.
Non è una esagerazione, basta leggere i numeri delle finanziarie triennali, quella approvata in 9 minuti nel giugno 2008 e quella in corso di approvazione ora. Non ci sono investimenti, solo tagli indifferenziati, il turn over è praticamente inesistente, i concorsi sono bloccati. Si prevede altresì un ingresso pesante del mondo privato nella gestione degli Atenei, imponendolo con la riduzione sostanziale nel bilancio assegnato dallo stato.
La riforma Gelmini in discussione al parlamento, al di là di slogan su merito ed eccellenza, è coerente con le direttive delle finanziarie: la proposta del centro destra contiene una infinita serie di vincoli burocratici tesi ad imporre comportamenti virtuosi nel corpo accademico, di fatto limitandone in modo sostanziale l’azione e l’autonomia.
Chiunque abbia esperienza dell’ università sa benissimo che così non può funzionare. Nei paesi in cui l’università funziona ed è un elemento trainante per la società gli atenei stessi sono il primo motore di competizione, e questo non certamente a causa di imposizioni legislative.
Se si vuole affrontare seriamente un discorso sull’ università pubblica del nostro paese occorre mettere mano, senza preconcetti ideologici, ai suoi elementi fondanti, per attualizzare, correggere e migliorare ciò che deve essere cambiato. In questo senso i tuoi suggerimenti sono sicuramente utili ma rappresentano solo una parte del problema che riguarda nel suo complesso il mix di pubblico e privato, i rapporti tra accademia e società, la diversificazione dei tipi di atenei, del riconoscimento salariale dei docenti, il ruolo di formazione e ricerca, i meccanismi di responsabilizzazione di un sistema universitario finanziato con risorse pubbliche.
Su questi temi il centro destra sta ora svolgendo una chiara azione di pars destruens, come mai era successo in passato. La sfida futura, una sfida bipartisan, sarà su chi dovrà svolgere il ruolo di pars construens. C’è assoluto bisogno di ricominciare ad investire nell’ università ma in una università diversa. Casualmente, lo stesso giorno del tuo intervento, la prima pagina dell’ Adige, un quotidiano trentino, titolava “Rivoluzione all’ Università” e discuteva le radicali modifiche che saranno attivate a partire dal prossimo anno accademico a seguito della delega che prevede il passaggio dal MIUR alla gestione provinciale dell’ Università trentina. Un progetto innovativo e complesso, su cui hanno lavorato per quasi un anno gruppi di esperti provenienti da tutta Italia. Questa è oggi la sfida, sfida che non riguarda solo il Trentino ma l’intero sistema universitario italiano. Sarà meglio che il centro sinistra raccolga questa sfida con determinazione e passione altrimenti rischiamo che il modello di università italiana del futuro sia quello dell’ormai famosa università telematica di Noverate, fondata da Francesco Polidori, per capirci quello della Cepu.
Cari saluti
Roberto Battiston
Università di Perugia
www.robertobattiston.it
Un paio di osservazioni a complemento del (peraltro ben informato) contributo di Roberto Battiston.
1) Non sono affatto certo che una distinzione tra università dedite alla ricerca ed università dedite all’insegnamento sia una soluzione opportuna sciaguratamente ostacolata da pregiudizi ‘egalitari’: in verità questa distinzione, peculiare del sistema americano, è contestata all’interno di quel sistema stesso; al contrario in Europa, dove non mancano certo università di eccellenza, tale divaricazione è sostanzialmente assente (con poche eccezioni in UK).
2) Il caso dell’Università di Trento non può essere generalizzato sul territorio italiano, per vari motivi, ma innanzitutto perché presuppone le peculiari condizioni di autonomia e finanziamento delle province del Trentino Alto Adige. Si richiede una previa modifica costituzionale.
3) Il ddl 1905, noto come ‘riforma Gelmini’, fortunatamente non è stato concepito né seguito dalla ministra medesima, e ciò ha consentito in commissione ed in parte in Senato di modificare ampiamente l’impianto originario, con il contributo delle opposizioni. Pur permanendo vincoli burocratici e goffaggini di vario genere, è stata presa la strada del modello britannico, vincolando scatti stipendiali, partecipazioni a commissioni e fondi dei dipartimenti (in percentuale sul FFO) a valutazioni della produttività scientifica.
Pur non essendo il sottoscritto sospettabile di simpatie per il governo in carica, bisogna ammettere che siamo di fronte per la prima volta alla possibilità (ancorché fioca e condizionata) di una riforma positiva del sistema universitario. Ora, invece che continuare a lamentarci dell’irredimibile passato (in cui nessuno contesta l’esistenza di ottime ragioni per lamentarsi), sarebbe forse meglio spendere un poco di energie ed ingegno a seguire ciò che sta accadendo proprio sotto il nostro naso e che condizionerà l’esistenza futura dell’intero sistema di educazione terziaria.
Il passaggio del ddl alla Camera non è stato ancora calendarizzato, ma dovrebbe avvenire tra settembre ed ottobre. Allo stato ci sono svariati punti pendenti, ma mi permetto di segnalare alcune questioni capitali, concernenti il sistema delle valutazioni ed i finanziamenti. Dal sistema delle valutazioni dovrebbe dipendere a cascata sia la questione del reclutamento e degli avanzamenti di carriera, che la più generale questione della qualità della docenza. Nel modello britannico/scandinavo di riferimento non esistono concorsi in senso proprio e dunque il problema stesso della composizione delle commissioni non sussiste. In tale modello l’università è incentivata ad assumere docenti validi dal fatto che le valutazioni post hoc dei docenti determinano l’entità dei finanziamenti (retroazione premiale). E l’entità dei finanziamenti, ovviamente, consente (o meno) ulteriori assunzioni o avanzamenti di carriera, oltre che la gestione infrastrutturale. Questo modello non può essere direttamente trapiantato in Italia innanzitutto per motivi costituzionali, in quanto in Italia ogni dipendente pubblico deve essere assunto tramite concorso. Nel modello che si profila, il concorso in questione sarà un concorso di abilitazione nazionale, da cui poi le università dovrebbero scegliere i ‘migliori’, motivate dalla prospettiva che migliori candidati produrranno in prospettiva migliori valutazioni e maggiori fondi. Questo meccanismo è potenzialmente molto positivo, tuttavia esso può anche fallire malamente e ciò per i seguenti motivi. (Continua la lettura delle osservazioni di Andrea Zhok al commento di Roberto Battiston all’articolo di Roberta De Monticelli Scene di ordinaria università. Qualche appunto sul reclutamento universitario).