«L’ape posata su un fiore ha punto il bambino. E il bambino ha paura dell’ape, dice che lo scopo dell’ape è punire la gente. Il poeta ammira l’ape che s’immerge nel calice del fiore e dice che lo scopo dell’ape è quello di assorbire l’aroma dei fiori. Un apicultore, osservando che l’ape raccoglie il polline dei fiori e lo porta nell’alveare, dice che lo scopo dell’ape è quello di raccogliere il miele. Un altro apicoltore, studiando più da vicino la vita dello sciame, dice che l’ape raccoglie il polline per nutrire le giovani api e far nascere la regina, che il suo scopo è quello di continuare la specie. Il botanico osserva che, volando sui pistilli col polline di una pianta dioica, l’ape la feconda, e il botanico vede in ciò lo scopo dell’ape. Un altro osservando la trasmutazione delle piante, vede che l’ape contribuisce a questa trasmutazione, e questo nuovo osservatore può dire che in ciò consiste lo scopo dell’ape. Ma lo scopo finale dell’ape non è né questo, né quello, né un terzo che possono essere scoperti dall’ingegno umano. Quanto più l’ingegno umano si eleva nella scoperta di questi scopi, tanto più è evidente in lui l’inacessibilità dello scopo finale. L’uomo giunge solo ad osservare la concordanza della vita delle api con gli altri fenomeni della vita. E così è per gli scopi dei personaggi storici e dei popoli».
Mentre concludevamo la lettura del discusso libro di Jerry Fodor e Massimo Piattelli-Palmarini, Gli errori di Darwin (recentemente edito da Feltrinelli per la traduzione di Virginio Sala dall’originale inglese What Darwin Got Wrong) ci sono venute alla mente queste parole scritte da Leone Tolstoj nel suo capolavoro Guerra e pace, una decina d’anni dopo la pubblicazione da parte del grande naturalista de L’origine della specie (1859).
Non siamo in possesso di alcuna competenza particolare nell’ambito della biologia, della genetica o di altre hard science in qualche modo chiamate in causa dal volume. Riterremmo fuori luogo, quindi, entrare nel merito della polemica esplosa di qua e di là dell’Oceano, non senza eccessi, sull’adeguatezza della cosiddetta teoria di Darwin nel render conto dell’evoluzione degli organismi viventi così com’è testimoniata dalle più recenti ricerche. Chi fosse interessato ai termini della querelle, troverà in calce all’articolo una rassegna stampa delle posizioni in gioco. Per quanto ci consta, vorremmo piuttosto tentare una lettura obliqua, che lasci in ombra molte grandi – e talvolta grandissime – questioni sollevate dal dibattito, per concentrarsi su aspetti più di dettaglio, che a nostro parere, tuttavia, rendono il volume di Fodor e Piattelli-Palmarini, al di là del destino del darwinismo, un interessante stimolo alla riflessione.
Nel condurre la loro critica, gli Autori muovono da un’analogia tra la teoria della selezione naturale e la teoria dell’apprendimento, per esempio linguistico, edificata sui principi della psicologia comportamentista di matrice skinneriana. Non sempre, nella discussione seguita alla pubblicazione del libro, questo aspetto è stato messo adeguatamente in luce. Nella teoria di Skinner, al netto di un set base di riflessi pavloviani non condizionati (innati), ogni profilo psicologico (come insieme dei tratti comportamentali osservabili in ciascun individuo) è filtrato da un meccanismo associazionistico del tipo stimolo-risposta-rinforzo, nel solco già tracciato dell’empirismo classico. È l’ambiente in tutti i suoi tratti osservabili, di conseguenza, il medium attraverso il quale il profilo psicologico di ognuno di noi, nel procedere dell’esperienza, si sviluppa via via. Sottolineo qui l’aggettivo osservabile, tanto riguardo ai comportamenti dell’individuo, quanto alle determinanti ambientali, perché la psicologia comportamentista ha sempre teso a emanciparsi da qualunque considerazione d’ordine intenzionale, mentalistico, o come spesso si usa dire: “in prima persona”.
Ora, l’idea alla base del libro è che il darwinismo ancora egemone muova dal presupposto che, in modo non esclusivo ma certo prevalente, l’ambiente, al netto di varianti geniche d’ordine casuale, svolga rispetto ai genotipi un analogo “filtro”: la selezione naturale, base e sfondo dell’evoluzione.
È a questo punto che cade la domanda: ma se la teoria di Skinner e dei suoi eredi s’è dimostrata incapace di render conto dell’apprendimento di molti dei nostri tratti comportamentali, perché quella di Darwin resiste nonostante non manchino evidenze sperimentali contrarie? La risposta è che, se la prima è falsificabile, la seconda non lo è essendo vuota: non una teoria, ma una storia.
Il problema, quindi, non è tanto nella quantità o nella qualità dei fatti sperimentali contrari, sui quali una parte consistente della diatriba s’è concentrata. E nemmeno sulla maggiore o minore integrabilità del principio di selezione con altri fattori evolutivi, che per primi gli Autori ribadiscono a più riprese essere ormai prassi corrente della ricerca biologica. Il punto è lo statuto logico-epistemologico della teoria. E se quest’ultima meriti davvero e fino a che punto di essere chiamata tale. Il resto, incluso il fatto di avere o meno un’alternativa migliore, parrebbe pertanto del tutto secondario.
L’argomentazione muove dai famosi archi e pennacchi dell’articolo del 1979 di Stephen Jay Gould e Richard Lewontin: The spandrels of San Marco and the panglossian paradigm: A critique of the adaptationist programme, in Proceedings of the Royal Society London. Nelle cattedrali con cupola, la volta è sostenuta da quattro archi su base quadrata. Ogni coppia d’archi, insieme al profilo della base della cupola, forma un pennacchio, per un totale di quattro. Ora chiediamoci: perché sono lì i pennacchi? La risposta della teoria della selezione naturale è semplice: sono lì perché, accompagnando necessariamente gli archi, senza i quali la volta crollerebbe, si sono rivelati più adatti di altre strutture nel sostenere volte. Prova a costruire una cupola senza i suoi quattro pennacchi, e vedrai che cascherà! Questa è la risposta adattamentista alla domanda perché le cattedrali con cupola hanno pennacchi. Per Gould e Lewontin, però, è sbagliata. E la ragione è che non è una spiegazione, ma una ricostruzione ex post, che potendo in linea di principio spiegare tutto, in realtà non spiega nulla. I pennacchi, a ben vedere, pur accompagnandosi sempre agli archi, al contrario di questi, non sostengono nulla. Sono free rider: elementi architettonici senza scopo alcuno. La loro presenza lì, quindi, non può essere spiegata attraverso il ricorso ad alcuna selezione.
Fodor e Piattelli-Palmarini procedono però oltre Gould e Lewontin. Questi ultimi, come spiegano gli Autori, non mettono in questione alla radice il concetto di selezione; bensì si limitano a porre l’accento su altri decisivi fattori evolutivi: dalla fissazione casuale di alleli, alla produzione di strutture adattive dovute a vincoli della forma (come tra archi e pennacchi) o altro ancora; fattori ormai acquisiti dalla ricerca contemporanea, benché sullo sfondo della selezione naturale. Cade qui il discrimine tra la critica di Gould e Lewontin all’adattamentismo neodarwinista e la denuncia di Fodor e Piattelli-Palmarini circa la debolezza logico-epistemologica del darwinismo in quanto tale. Di fronte a due tratti fenotipici coestensivi, nel senso che occorrono e sono osservabili necessariamente insieme, come può la teoria di Darwin discriminare quello selezionato-per la fitness, ancorché locale, dall’altro? Come fa, in altre parole, a distinguere gli archi dai pennacchi? Avere un criterio per operare questo discrimine, è essenziale per il darwinismo. Diversamente, «non può fare quello che s’intende debba fare una teoria dell’evoluzione: spiegare come i tratti fenotipici si siano distribuiti nelle popolazioni di organismi [ovvero] prevedere/spiegare per quali tratti sono stati selezionati gli individui di una popolazione». Per gli archi o per i pennacchi a essi coestesi?
È alla critica della teoria dell’apprendimento linguistico di marca comportamentista che Fodor e Piattelli-Palmarini si affidano per mostrare i limiti di principio del criterio di selezione-per. L’argomento, benché gli Autori non lo menzionino, evoca a nostro avviso quello che W.V.O. Quine solleva, per esempio in Word and Object (trad. it, Parola e oggetto, Il Saggiatore), in merito all’indeterminabilità del riferimento dei termini che occorrono nei nostri enunciati: nei panni del traduttore radicale, così immaginava Quine, come faccio a capire se il parlante, quando pronuncia la parola Gavagai in presenza di un coniglio, si riferisce al coniglio, a sezioni spaziali di coniglio o temporali di esso? In Skinner e nei suoi prosecutori, il cui intreccio con la filosofia di Quine sarebbe interessante esplorare, il problema si presenta in analoga forma: come faccio a sapere, nella trama stimolo-risposta, quale tratto comportamentale sia stato appreso e in risposta a quale stimolo eventualmente coesteso? Prendete un piccione e calatelo in una scatola di Skinner. Premiatelo con becchime ogniqualvolta offre la risposta R alla vista di un triangolo giallo, non fatelo quando la stessa risposta la offre alla vista, poniamo, di un cartoncino con sopra una X. Alla fine, se opportunamente rinforzato, avrà appreso la risposta R allo stimolo S “cartoncino giallo”. Ma chiedetevi ora: che cosa ha imparato davvero? Può darsi abbia imparato a “scegliere” triangoli gialli invece delle X; o triangoli anziché X; o ad “alzare la zampa destra” ogni qual volta gli vengono mostrate cose gialle rispetto alle X; o a “mettersi in equilibrio sulla zampa sinistra” vedendo figure chiuse rispetto alle X e così via. La soluzione empirista classica al problema, che risale almeno a J. S. Mill, è allora quella di dividere gli stimoli. Ma a parte il fatto che questo non risolve il problema di determinare quale sia la risposta effettiva allo stimolo, la difficoltà resta. Per esempio, dopo aver addestrato il piccione a distinguere triangoli gialli e quadrati blu, posso vedere come reagisce a triangoli blu e quadrati gialli. Se però gli stimoli (o anche le risposte) non sono separabili l’unica strategia esplicativa che resta è quella di formulare ipotesi controfattuali, chiedendosi – per restare al caso di Gould e Lewontin – che cosa accadrebbe se si potessero separare archi e pennacchi. «Non importa [quindi] se a operare la selezione sia un architetto, Madre Natura o uno psicologo; ed è parimenti indipendente dal fatto che ciò per cui si seleziona sia il fenotipo dell’organismo o il suo repertorio comportamentale»: i problemi di selezione-per, in ultimo, conducono sempre alla stesso vicolo cieco logico-epistemologico.
I problemi per la teoria di Darwin, tuttavia, per gli Autori non finiscono qui. Tra teoria dell’apprendimento comportamentista e teoria dell’evoluzione per selezione naturale, infatti, gli Autori segnano una differenza in termini di solidità epistemologica a favore della prima. La teoria dell’evoluzione, infatti, diversamente da quella dell’apprendimento, non può in linea di principio «prevedere gli esiti di competizioni puramente controfattuali» e dunque decidere, fra tratti fenotipici coestensivi, quale spieghi gli effetti sulla fitness. Ma una teoria che non determina i valori di verità di controfattuali pertinenti «non può spiegare la distribuzione dei tratti nel mondo attuale». Detto in un altro modo ancora: per Fodor e Piattelli-Palmarini, dato il carattere semantico/intensionale di “selezione per” e “tratto”, non si può compiere l’inferenza da “gli X hanno il tratto t e gli X sono stati selezionati” a “gli X sono stati selezionati per il tratto t”. Fa certo parte dei tratti fenotipici della rana “catturare mosche” e non c’è dubbio che la specie “rana” sia in qualche modo frutto di selezione. Ma da questa certezza non posso inferire sia stata selezionata proprio perché cattura mosche. Potrebbe darsi lo sia perché “cattura oggetti volanti fastidiosi” – per citare un esempio in cui riecheggia un argomento di Daniel Dennett (L’atteggiamento intenzionale, Il Mulino, Bologna, 1993) -, e non abbiamo modo di dimostrare che questa ipotesi sia falsa e la precedente vera. Se, dunque, la critica di Gould e Lewontin era all’adattamentismo di certe versioni riduttivistiche della teoria di Darwin, quella di Fodor e Piattelli-Palmarini mira al suo selettivismo, che ne investirebbe direttamente le basi. La realtà, secondo gli Autori, è che, ad onta di quanti cercano di eliminare dalla teoria della selezione naturale, e da ogni disciplina che la implichi, la progettualità o intenzionalità degli organismi, l’idea di Darwin sembra funzionare solamente in quanto tacitamente le presuppone. L’analogia tra le prassi di selezione degli allevatori, presa a modello dal grande naturalista, e l’operare della Natura, è quindi tutt’altro che una semplice metafora: se non si assume un qualche senso progettuale/intenzionale connesso all’etologia, alla morfologia e alla fisiologia degli organismi viventi, dirimere tra tratti coestesi quelli selezionati-per dai free rider è impossibile.
Fin qui Fodor e Piattelli-Palmarini. Torniamo ora brevemente a Tolstoj, citato in apertura di questa nostra riflessione. Il grande romanziere, nel corso della sua lunga vita, ebbe modo di dedicarsi più volte a riflessioni morali attorno alle questioni poste dall’allora nuova teoria della selezione naturale di Darwin. La sua riflessione epistemologica in Guerra e pace, uscito tra il 1863 e il 1869, fu però senza dubbio scritta soprattutto sotto l’influenza del provvidenzialismo tradizionale russo e della metafisica di Arthur Schopenhauer, morto in età veneranda l’anno seguente la pubblicazione de L’origine della specie, nel 1860. La ragione per cui abbiamo trascritto quel passo dello scrittore, è che, nonostante non affronti il tema della selezione in quanto tale, presenta alcune affinità con il punto di vista degli Autori de Gli errori di Darwin, allorché evidenzia come certe spiegazioni naturalistiche, da un lato, presuppongano un senso progettuale/intenzionale rispetto al quale gli esseri viventi si sviluppino e comportino nella ontogenesi ed evolvano nella filogenesi; dall’altro, limitino in tal senso la nostra ambizione di pervenire a una vera conoscenza del mondo (ultima in Tolstoj, falsificabile per Fodor e Piattelli-Palmarini). Nel “regno dei fini” dove nascono, si sviluppano, agiscono, muoiono ed evolvono gli esseri viventi, non c’è in fondo spazio per vere teorie, ma soltanto per storie la cui plausibilità è condizionata dal senso progettuale/intenzionale che in via preliminare assegniamo agli agenti che le interpretano. Così ragiona Tolstoj. «Niente è la causa», scrive in uno dei tanti passi di Guerra e pace nei quali s’interroga sulle determinanti della guerra tra Napoleone e l’imperatore Alessandro di Russia, «Tutto questo non è che concomitanza di quelle condizioni in cui si compie ogni fatto vitale, organico, elementare». Ma in modo non troppo dissimile così concludono anche Fodor e Piattelli-Palmarini, quando espungono dal novero delle vere spiegazioni quelle basate sull’idea di selezione naturale.
Nonostante la similarità della diagnosi, però, diametralmente opposte sono per così dire le terapie che Tolstoj e gli Autori de Gli errori di Darwin traggono dalla loro disamina logico-epistemologica delle scienze del vivente. Il romanziere, generalizzando e radicalizzando i limiti trascendentali della nostra conoscenza, si apre un varco verso un altro ordine di “sapere”, solo impropriamente definibile come tale, nel quale riecheggiano sia motivi schopenhaueriani sia motivi spiritualistici. I nostri Autori, invece, richiamano alla necessità di superare la progettualità/intenzionalità tacitamente assunta – a dispetto di ogni tentativo di rinnegarla – dalle spiegazioni basate sull’idea di selezione, proponendo tutt’all’opposto di scavare sotto quei fenomeni in direzione di enti e teorie davvero esplicativi e dunque scientifici. Alla via etico-estetica, e poi mistico-religiosa, di Tolstoj, fa così da contraltare, a onta di quanto ritenuto da molti supporter di un presunto antiscientismo di Fodor e Piattelli-Palmarini, la richiesta alle scienze del vivente, semmai, di un più rigoroso e conseguente materialismo-deterministico, che non si limiti a raccontare al riguardo storie plausibili progettualmente/intenzionalmente pre-orientate, ma ambisca a offrire risposte sull’evoluzione non meno ma più metodologicamente riduttive. Vale qui la pena di citare estesamente, perché il punto è rilevante. Scrivono gli Autori: «Ecco una metafora che preferiamo a quella di Darwin; gli organismi “prendono” i loro fenotipi dalle loro ecologie in modo simile a come prendono i loro raffreddori dalle loro ecologie. Il processo eziologico in virtù del quale i fenotipi rispondono alle ecologie è più simile al contagio che alla selezione. (…) Parte della storia di quel che accade quando ci si prende un raffreddore riguarda la microstruttura dei patogeni e quella del nostro sistema immunitario. Parte della storia sta in quello che l’avere un virus fa alle nostre mucose. E parte ha a che fare con l’età, il sesso, lo stato di salute, il grado di esposizione, e così via, dell’ospite. Ammassi di fatti di questo genere (e senza dubbio di molti altri) contribuiscono alla spiegazione del come e perché prendiamo il raffreddore, quando lo prendiamo».
La via d’uscita, tuttavia, c’è, e diversamente da Tolstoj, è tutta interna al discorso scientifico moderno; a patto, tuttavia, che sia adeguatamente condotto. Dalle ultime pagine: «Quel che sorprende non è che qualche spiegazione scientifica empirica si riveli semplicemente una storia causale; ma che non tutte le spiegazioni lo siano [corsivo nostro] (…) Non c’è fantasma nella nostra macchina; né Dio, né Madre Natura, né Geni egoisti, Né lo Spirito del Mondo, né intenzioni che volano libere; e neanche allevatori fantasma. Quel che nutre i fantasmi nel darwinismo è il suo ricorso nascosto a spiegazioni biologiche intensionali, di cui noi qui proponiamo di fare a meno. Darwin ha indicato la direzione per arrivare a una teoria pienamente naturalistica – in effetti pienamente ateistica – della formazione dei fenotipi; ma non ha visto come arrivarci fino in fondo. Ha eliminato Dio, se volete, ma Madre Natura e altri pseudo-agenti ne sono usciti indenni. Pensiamo che sia ora di liberarci anche di loro».
Anche grazie al raffronto con le posizioni di Tolstoj, speriamo che il nocciolo logico-epistemologico del volume di Fodor e Piattelli-Palmarini sia stato reso abbastanza evidente.
Vogliamo ora svolgere qualche considerazione sulla possibilità e sul senso, prima che di una filosofia, di una fenomenologia del vivente, che muova proprio dalle questioni poste dagli Autori. In breve: la questione di come distinguere, tra tratti coestesi, quelli selezionati-per dai free rider, può essere riformulata anche così: che cosa rende un tratto un tratto saliente ai fini di una descrizione adeguata di un fenomeno e di una buona spiegazione edificata su quella? Perché ci sembra ovvio, insomma, che gli archi, e non i pennacchi, sostengono davvero la volta? Ora, a me pare che Fodor e Piattelli-Palmarini dimostrino che se a questa domanda tentiamo di dare una risposta in terza persona, assumendo archi e pennacchi come null’altro che parti necessariamente coesistenti della realtà, nulla può venirci in soccorso. Assumendo una prospettiva in prima persona, però, la questione potrebbe cambiare, anche se questo potrebbe non soddisfare gli obiettivi teorici degli Autori. Per restare a Gould e Lewontin: ci si chiede, in sostanza, in forza di che, nelle discipline normative (nei manuali, per intenderci, in cui si codifica una regola d’arte) utilizzati nella costruzione di basiliche con cupole, riteniamo che i migliori costruttori debbano trasmettere la regola costruttiva dell’arco anziché quella del pennacchio che pure necessariamente l’accompagna? La domanda suona singolare, e ci pare subito contenga qualcosa che non va; e tuttavia lascia interdetti, non del tutto sicuri di avere una risposta a portata di mano. Si potrebbe obiettare, per esempio, che parliamo di archi, e non di pennacchi, perché sono archi quelli che costruiamo, archi per tenere su volte di cupole di basiliche, che altrimenti cadrebbero. Ovvio: potremmo, per assurdo, impartire ai nostri capomastri anche istruzioni del tipo: “per edificare la cupola a volta, dovete prima costruirvi quattro pennacchi sottostanti”; ma troveremmo questo uno strano modo di esprimersi, giacché tutti sappiamo che sono gli archi e non i pennacchi a reggere davvero la volta. Esatto. Lo sappiamo. Ma come? si può insistere nel chiedere. Forse semplicemente così: perché questa è la funzione degli archi, il loro scopo, il senso in base al quale, in una certa prassi normativa, che s’accompagna alla prassi costruttiva di basiliche, solitamente parliamo di archi. E non di pennacchi. Troppo semplice? Sì, se pretendiamo che la nostra risposta abbia un valore epistemico, quasi dovessimo esprimerci su chi abbia più titolo ad esistere là fuori: gli archi o i pennacchi? Ma se invece, come si conviene a una rigorosa considerazione in prima persona, che si fa carico quindi di tutto il senso progettuale/intenzionale che le è proprio, ci limitiamo a voler dar conto della salienza degli archi rispetto ai pennacchi nella nostra esperienza, potremmo essere sulla strada giusta per chiarire quella differenza. Naturalmente, questo ci porta irrimediabilmente altrove rispetto all’obiettivo di valutare la opportunità di un cambiamento di paradigma nelle scienze del vivente fatto proprio dagli Autori. Può però forse aiutarci a sciogliere un possibile equivoco che aleggia anche tra le pagine di questo interessante libro: quello tra piano epistemico della spiegazione delle determinanti evolutive degli esseri viventi, e piano epistemologico della descrizione dei modi soggettivo-relativi attraverso i quali necessariamente essi si offrono alla nostra esperienza prima di qualsiasi indagine scientifica a essi rivolta.
Nei limiti di questo contributo, non si può offrire che una sommaria indicazione della via per adempiere al compito. Ci proveremo ponendo una semplice domanda: perché, accanto a una fisica ingenua, come quella indagata da Paolo Bozzi nel bel libro omonimo, non dovremmo poter mettere capo a un’altrettanto rigorosa biologia ingenua, che porti a evidenza le regole attraverso cui, nella nostra esperienza, costituiamo corpi viventi e ambienti da essi vissuti e co-vissuti, già sempre attraversati da salienze di vario ordine? A qualunque storia dell’evoluzione degli esseri viventi si miri, infatti, non è forse vero, come ben aveva visto proprio Schopenhauer, che tutti noi nel lungo collo della giraffa troviamo immediatamente espressa la sua inclinazione a cercare il cibo tra le alte chiome degli alberi; nelle zanne affilate e nello sguardo saettante del lupo, la ferocia di cui è capace; e nelle lunghe e mobili orecchie del leprotto, quella natura vigile e paurosa che lo farà scattare al primo segnale di pericolo? O ancora: non è forse la conformità ideale di ogni essere vivente al suo ambiente un senso già sempre incluso nell’esperienza che possiamo avere del suo corpo e del suo stile di vita? Chiediamoci, insomma, se non sia anzitutto qui, tra queste qualità fenomenologiche del regno vivente, a loro volta riconducibili a dinamiche tendenze di sintesi d’ordine percettivo e immaginativo, che dovremmo rivolgerci per dar conto dell’ovvietà altrimenti “misteriosa” di certe salienze. Come hanno mostrato Fodor e Piattelli-Palmarini, liquidare come banalmente figurato questo linguaggio è un alibi dietro al quale molti neodarwinisti nascondono semplicemente la contraddittorietà delle loro pretese riduttive. Ma metterlo completamente fuori dal gioco della scienza, come i nostri Autori sembrano richiedere, toglierebbe a quest’ultima la terra di sotto i piedi. Nessuna di queste e di molte altre salienze può certo vantare di per sé sola un qualche titolo sul piano epistemico: su questo siamo perfettamente d’accordo. Ma nessun processo conoscitivo del mondo vivente e storico che ne prescinda totalmente è in linea di principio pensabile in modo fondato.
Concludiamo con una considerazione dal sapore per un’ultima volta tolstojano. Napoleone non è stato sconfitto, come di recente pure è stato scritto su qualche giornale, per non aver potuto condurre la battaglia di Waterloo sul campo a causa del mal di schiena. Fatti ben più salienti hanno concorso a determinare quegli eventi. Ed è la fenomenologia a poter dar conto della possibilità d’istituire quella come molte altre differenze. Una storia è una storia. Ma c’è storia e storia. E questo deve poter essere mostrato in tutta la sua evidenza indipendentemente dal fatto che la scienza, legittimamente, s’incarichi di trovare spiegazioni più riduttive.
Rassegna stampa (migliorabile) degli interventi seguiti alla pubblicazione, inglese e italiana, del volume di Jerry Fodor e Massimo Piattelli-Palmarini.
Una rassegna stampa italiana:
http://www.lascienzainrete.it/contenuto/articolo/Maiali-alati-e-ornitorinchi-vincolati
Una rassegna stampa inglese:
http://www.complete-review.com/reviews/darwinc/fodorj.htm
I rilievi di Luca Cavalli Sforza su Repubblica:
Colleghi scienziati, non sparate su Darwin
La stroncatura di Massimo Pigliucci su Nature:
http://www.nature.com/nature/journal/v464/n7287/full/464353a.html
L’elogio di Richard Lewontin su The New York Book Review:
http://www.nybooks.com/articles/archives/2010/may/27/not-so-natural-selection/?pagination=false
La critica di Elliott Sober uscita su Mind & Language:
Fodor ’s Bubbe Meise Against Darwinism
Faccia a faccia tra Jerry Fodor ed Elliott Sober:
http://www.cognitionandculture.net/index.php?option=com_content&view=article&id=621:jerry-fodor-vs-elliott-sober-on-who-got-what-wrong&catid=1:events&Itemid=3.
Commenti recenti