«Se riusciva a essere utile alla gente o con un consiglio, o perché sapeva leggere e scrivere, o perché ricomponeva una lite, non vedeva la gratitudine di coloro per i quali l’aveva fatto, giacché se ne andava subito. E pian piano Dio cominciò a manifestarsi in lui». Questo passo è tratto dalle ultime pagine di una novella di Lev Tolstoj, Padre Sergij, scritta tra il 1890 e il 1898 e mai pubblicata dall’autore. È la storia di un nobile dapprima avviato a una brillante carriera militare, quindi fattosi monaco ed eremita, e infine viandante e “nulla”. Nietszche, ricorda Jevolella, scrisse ne L’Anticristo: «Già la parola “cristianesimo” è un equivoco – in fondo è esistito un solo cristiano, e questi morì sulla croce». M’è sempre parsa un’analisi onesta di come erano andate le cose. Un po’ troppo pessimistica, tuttavia. Gli uomini e le donne spirituali esistono. Sono sempre esistiti e certo non solamente nell’alveo del cristianesimo (qualunque cosa s’intenda con questo termine). E ha ragione Roberta De Monticelli quando, richiamando Kierkegaard, sospetta che le norme che paiono (ma paiono soltanto!) governare la loro vita non rispondano a un corpo di doveri cui ci si assoggetta in forza (e non in grazia) di un’esercitata autodisciplina. Non è quella la via che può liberare Padre Sergij (e quel grandissimo, sublime e sontuoso peccatore di Tolstoj) dalla hybris che lo divora (da monaco ed eremita più ancora che da soldato). Ed è la hybris, per l’uomo spirituale, il solo peccato mortale. La via è un’altra.
Franco Cardini (qui la sua lettera) – mi si perdoni l’azzardo di formulare ipotesi – forse allude a questo quando s’astiene, in ultima analisi, dal pronunciare giudizi tondi sulla Chiesa Cattolica Apostolica Romana, di cui pure riconosce la lordura in fondo al bicchiere. Solo Dio può scrutare il fondo dell’esistenza, pare affermare in modo efficace e persuasivo. Come potrei io, quindi, pretendere di sapere di chi sia o non sia infine il Regno dei cieli: come potrei io – io che sono nulla, io che credo in Gesù Cristo ma in fondo senza capirlo davvero – ambire a tanto?
Diversamente da Padre Sergij, tuttavia, Egli non pare spogliarsi di alcunché, tanto meno di quel nulla che Egli per primo si sente e dichiara di essere. Al contrario, quando si tratta di render conto della propria fede nella Chiesa, è alle proprie radici biografiche che si volge: alla famiglia, alla terra, alla memoria, individuale e collettiva: «sono cattolico perché sono un fiorentino nato nel 1940 e battezzato nel giorno di San Lorenzo. Sono cattolico esattamente come civis Romanus sum».
È l’uomo che crede nella tradizione, qui, a parlare. E anche il fine conoscitore del passato; che ne sa le smisurate inerzie, i rovesciamenti, i travestimenti, il perenne transcolorare nel futuro.
Il paesaggio spirituale del povero e mite viandante Sergij, allora, che pure era parso per un attimo affacciarsi, si tramuta nel limes imperiale da difendere. L’orizzonte aperto e immemore del misero errante nel confine soverchio d’anni e di battaglie del soldato. E nessun commiato da sé e dal mondo ha luogo; piuttosto, del mondo ci si fa carico per intero, nell’intreccio di bene e male, nella contraddizione, ambiguità e misteriosa erranza. Dirsi un nulla e sentirsi miles christianus, obbedendo a un destino che non si è scelto perché non si può scegliere. E perché, scrive, «La disciplina, quella cosa che collega la Chiesa all’impero romano e ne fa l’ultima e definitiva erede legittima, è consustanziale alla fede, che è anche fedeltà, fiducia e obbedienza».
La domanda, però, che a questo punto si potrebbe formulare è: chi quel limes divide da chi.
E giacché il tema da cui si era partiti è l’assassinio di Ipazia, vorrei ricordare due ben note vicende storiche che hanno preceduto quei fatti, e che forse ci aiutano a tentare una risposta.
Nel 388, a Callinicum (Mesopotamia), una folla di cristiani incitata dal vescovo locale brucia una sinagoga. Il governatore romano condanna l’accaduto e, per ristabilire l’ordine pubblico, decide che il tempio sia ricostruito a spese del vescovo. L’imperatore Teodosio, il definitivo “cristianizzatore” dell’Impero – e detto per questo il Grande – avalla la decisione del funzionario. Ambrogio, però, influente vescovo di Milano, gli scrive una lettera nella quale rivendica moralmente il fatto. Tutelando le sinagoghe, infatti, l’imperatore, secondo il Santo, si comporterebbe da cattivo cristiano, garantendo il perdurare degli “errori teologici” ebraici. Se la sinagoga di Milano fosse stata ancora in piedi, di conseguenza, egli non avrebbe esitato a farle fare la stessa fine di quella di Callinico, perché essa «è luogo di perfidia, casa dell’empietà, ricettacolo della stoltezza condannato da Dio (…) Come può il Cristo aiutarci se noi vendichiamo i Giudei? (…) Vuol forse l’imperatore far celebrare questo trionfo ai Giudei?» (Ambrogio, Epistola 40, 12, 18 20, cit. in Maurizio Ghiretti, Storia dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo, Bruno Mondadori, 2007). Ed è in questi termini, infine, che il vescovo si rivolge a Teodosio: «ti muove la ragione della disciplina. Che cosa dunque è più importante, l’idea di disciplina [mantenimento dell’ordine pubblico] o il motivo della religione?».
Teodosio dapprima non ascolta. Ma quando Ambrogio, in una chiesa di Milano colma di fedeli, denuncia apertamente la sua condotta sospendendo la funzione in segno di protesta, cede. Negli anni successivi, nell’impero bruciarono altre sinagoghe; tra queste, alla vigilia dell’uccisione di Ipazia, quella di Alessandria. Altre furono invece confiscate. E nel 423 una legge stabilì la non obbligatorietà del risarcimento per le sinagoghe distrutte o illegalmente sequestrate. Un’altra legge, d’altronde, poco prima, aveva già stabilito il divieto di edificarne di nuove. La dottrina sull’inferiorità teologica degli ebrei di Agostino (quasi coetaneo di Ipazia), che ne subordinava la libertà di culto alla minorità civile (cfr. La città di Dio), sarebbe arrivata a coronamento di un fatto.
Due anni dopo i fatti di Callinico, nel 390, avviene un altro scambio epistolare tra Teodosio e Ambrogio, ma di segno almeno in apparenza diametralmente opposto al precedente.
La popolazione di Tessalonica (Salonicco) s’è ribellata e ha impiccato il magister militum dell’Illiria e governatore della città, che aveva arrestato un famoso auriga e vietato il permesso per i giochi annuali. Teodosio, per rappresaglia, organizza una gara di bighe e, chiusi gli accessi al circo, massacra migliaia di persone. Giunta la notizia, Ambrogio scrive nuovamente all’imperatore, costringendolo a mesi di penitenza e a chiedere pubblico perdono per la violenza sproporzionata con cui aveva ristabilito la sua autorità (cfr. Epistola 51, qui in una traduzione in inglese). Teodosio, di nuovo, fece pubblica ammenda, questa volta per avere abusato del suo potere. L’anno seguente l’imperatore avrebbe iniziato a emanare i decreti di divieto d’accesso ai templi pagani, proibendo (inizialmente soltanto sulla carta, ma soltanto inizialmente) qualsiasi forma di culto, compresa l’adorazione delle statue, i sacrifici agli dèi e la consultazione delle viscere (divenuti reati di lesa maestà, puniti con la morte). È il terreno politico e legale che avrebbe contribuito a innescare i drammatici e sanguinosi scontri di Alessandria.
Ho ricordato questi due episodi perché ci aiutano a capire meglio la vicenda di Ipazia, credo. Ma anche perché ben mostrano l’insanabile paradosso del civis Romanus e miles christianus (soprattutto, ma non esclusivamente, cattolico).
Chi è dunque Ambrogio? Il mitigatore del potere e della violenza statale sui pur colpevoli cittadini di Tessalonica? O l’incendiario di Callinico, che nell’impero introduce la fede come suprema ragion di Stato insieme alla segregazione politica dei giudei? Entrambe le cose, credo. Di qua e di là dal limes, che intero lo lacera. Mentre l’aggettivo “immaginario” (per “cattolico”, ma forse anche per “fascista”), ripreso da Cardini, evoca il tributo, autoironico e urticante insieme, che il pensiero critico – di cui lo Storico è un virtuoso fino al manierismo – paga per sperare in un varco ancora di trascendenza al farsi spada della croce, croce della spada.
Padre Sergij, però, appare sempre più lontano. Né civis né miles, muore in Siberia, carcerato senza un perché, colmo di gratitudine.
P.S. Giacché non paia una disputa in famiglia, preme chiarire che Franco Cardini non è imparentato con gli altri Cardini che compaiono in questo blog. Pur essendo loro conterraneo.
* Leggi la lettera di Franco Cardini a Roberta De Monticelli su Ipazia e dintorni, con i commenti
* Leggi lo speciale su Agora di Amenàbar del Phenomenology Lab, con i commenti
* Altri spunti di riflessione sollecitati dal film sul Phenomenology Lab:
Tempo di libertà. Note sul film Agora di Amenàbar e sul libero volere di Carlo Conni, con i commenti.
Il dono della vergine giusta di Gemma Beretta, autrice di Ipazia d’Alessandria, Editori Riuniti 1993; scarica il cap. VI
Su Ipazia e la sua gemella cristiana di Giacomo Costa, con i commenti
Bellissimo commento di Stefano. La lettera di Franco Cardini era talmente accattivante con il suo oscillare tra critica e rivendicazione, adesione e distanziamento, il tutto condito dalle virtù retoriche di un grande intellettuale, che invitava a leggerla ed accettarla come un’espressione personale e finanche poetica di cosa può significare essere cristiano (e cattolico).
E tuttavia.
E tuttavia, c’era qualcosa che chi guarda alla storia della chiesa e dei cristiani con occhio estraneo ed esterno non può non notare con un certo fastidio. Questo qualcosa di fastidioso ha due lati, il primo strettamente teorico, il secondo più umano e contingente.
Sul piano teorico non è banale conciliare un cattolicesimo come fatto biografico, come fa Franco Cardini, ricordando che “sono cattolico perché sono un fiorentino nato nel 1940, ecc.”, con un cattolicesimo normativo per cui:
“la disciplina, quella cosa che collega la Chiesa all’impero romano e ne fa l’ultima e definitiva erede legittima, è consustanziale alla fede, che è anche fedeltà, fiducia e obbedienza. Quel che credo è che tra la mano del Signore, quel lontano giorno in Palestina, e la mano del povero cristo di vescovo magari pedofilo e maneggione che ha consacrato con un segno di croce fatto col pollice sulle mani del povero prete magari stupido e ignorante che mi somministra la particola consacrata o che quando gli racconto le mie miserie mi assolve nel Nome del padre, del Figlio e dello spirito Santo, corre il filo di una continuità più forte della morte.”
Ecco, se si trattasse di un’argomentazione logica (da cui notoriamente gli uomini di fede sono esentati), si tratterebbe di un non sequitur: dal fatto di essere nato in un contesto cattolico non ne discende affatto di dover accettare quella peculiare dottrina cattolica per cui, a prescindere dalla moralità o dignità degli uomini che incarnano la fede, la verità della fede procede immacolata attraverso i secoli e gli individui. Visto da un non cattolico questa, più che un’implicazione pare tanto una visione suggestiva, forse poetica, forse consolatoria, certo latrice di effetti antropologici altamente discutibili. Ovviamente appartenere ad una tradizione non significa mai essere effetti di una causa storica determinante, ma significa sempre assumerne selettivamente alcune parti e decidere, eventualmente, di farle proprie. L’idea di una tradizione storica che attraversa i singoli soggetti storici e non perde di significato o validità per l’essere implementata in modi magari atroci e da persone magari indegne è un lasciapassare universale per ogni abiezione.
Ma c’è di più. Fin qui il fastidio sarebbe un fastidio formale rispetto ad una tra le tante forme potenzialmente dannose di interpretazione di una tradizione religiosa. Ma nel contesto specificamente italiano e detto da un rappresentante agiato e colto della classe dirigente, questa adesione alla dimensione ‘disciplinare’ della Chiesa cattolica ha anche uno specifico retrogusto poco gradevole. Infatti l’adesione a quella dimensione disciplinare della Chiesa è il pegno fondamentale che la Chiesa cattolica chiede per essere considerati parte del club; e si tratta di un club potente, aderire al quale nel nostro paese garantisce innumerevoli vantaggi, piccoli e grandi (di cui ci si rende conto solo quando non se ne è parte). In questo contesto le critiche all’Istituzione, ancorché nobili e colte, al netto dell’adesione concreta alla visione della Chiesa come entità storica trascendente, appaiono un poco come un lusso che ci si può confortevolmente concedere senza mettere in discussione niente di effettivo. Franco Cardini ci mette di fronte ad un bella concrezione del modello letterario dell’epistula, dove si concedono molte cose alla critica dell’istituzione ecclesiastica, dove si problematizzano in modo alto molte altre cose dell’ispirazione spirituale del cattolicesimo, ma dove l’adesione di fondo alla dimensione sovraindividuale e sovraetica dell’Ecclesia mette al sicuro una volta per sempre tutto ciò che di concreto quell’adesione implica: diversamente da Padre Sergij, non ci si dismette di alcun potere né di alcun privilegio, ma li si mette al sicuro con una professione verbale di umiltà.
In effetti il problema del rapporto tra fede religiosa e appartenenza è molto complesso e assai interessante. Nell’ambito delle nuove teorie della secolarizzazione, autori come Grace Davie e José Casanova stanno sfornando interpretazioni molto interessanti delle dinamiche secolarizzanti in paesi (come il nostro) che non hanno conosciuto una pluralizzazione denominazionale dell’“offerta” religiosa e hanno perciò dovuto fare i conti con un pericoloso gioco a somma zero, che per molti aspetti è impoverente sia per la fede sia per lo sviluppo di una mentalità secolare non puramente reattiva.
All’interno della questione amplissima dell’appartenenza, c’è poi la sottoquestione più specifica (e più filosofica) della riflessività, su cui si è soffermato Andrea nel suo ultimo post. In questo ambito ha senso chiedersi quale sia l’esercizio più fruttuoso della riflessività: se sia cioè quello in cui il distanziamento si misura in centimetri rispetto ai contenuti assorbiti in maniera inevitabilmente pre-riflessiva a partire dall’infanzia; oppure se la vera riflessività sia quella di chi riesce ad assurgere a una sorta di sguardo da nessun luogo, dismettendo ogni forma di sciovinismo identitario e arrivando a formulare dei giudizi realmente obiettivi.
Personalmente, non mi sembra si possa ragionevolmente negare che questa seconda via sia accessibile agli esseri umani; ma sulle questioni “ultime” ho l’impressione che non ci sia alternativa all’articolazione e riarticolazione dall’interno della forma di vita cui ci è toccato di appartenere. E più tale adesione è stata ricca e densa, più materiale c’è per la riflessione. Da questo punto di vista Franco Cardini non ha tutti i torti a tenersi strette le sue appartenenze. Ma la riflessione è la riflessione. E come ha sostenuto giustamente Andrea non ci si può nascondere davanti alle insidie dell’appartenenza. Tanto più dell’appartenenza a un’istituzione potente. Una qualche forma di sospensione della credenza è una condizione necessaria per un esercizio autentico della riflessività. E per sospensione non intendo negazione o dilazione, soltanto una non perfetta adesione. L’arte del distanziamento praticata con ostinazione da Padre Sergij è davvero qualcosa da cui non è possibile e non è giusto prescindere.
Sono molto stupito dal “Caso Ipazia” (riguardo al quale mi sono fatto una cultura bazzicando per siti, seguendo i preziosi link del blog). Sono molto perplesso da quello che Eco ha chiamato Ipazzimento generale (sulla base dell’uscita di un film mediocre): mi sembra che in Italia siamo ricaduti in un clima preconciliare, da Kulturkampf, dove si confonde cristianesimo con cristianità (peggio ancora con civiltà cattolica!).
Non nego l’interesse fascinoso e tremendo del tema. Una vestale matematica, ultimo baluardo della spiritualizzazione filosofica della religione greca, lapidata con conchiglie, squartata e privata negli occhi da un’orda di sedicenti monaci all’interno di una chiesa che fu tempio di dioniso, matrice nascosta e tremenda del sacrificio. Ma se vogliamo parlarne, parliamone con gli strumenti delle scienze religiose, della storia e della riflessione circostanziata. Non facciamo i Voltaire del 2010: c’è già Odifreddi.
Gli schieramenti l’un contro l’altro armati mi sembrano mancare completamente di senso della storia. Incapacità di affrontare il nervo scoperto del rapporto che lega violenza, religione e potere. Ma anche riflessione e masse.
Oggi mancano completamente i pontieri, i non credenti ed i credenti capaci di dialogo onesto non solo per riconoscere il senso della storia, ma anche per il bene comune, in un paese dilaniato da cricche di farabutti, servizi segreti infiltrati nelle strage di mafia, poliziotti pestatori. In un paese governato dai media che si dota di leggi per imbavagliare gli ultimi baluardi dello stato di diritto, mancano intellettuali con l’ardore della spiritualità, passione civile e scientificità (perchè non ne bastano un paio!).
Ma soprattutto mi stupisce la lontananza, l’abisso tra i problemi di oggi, con le crisi in Europa (non solo Grecia), a Bangkok, il terribile disastro nel golfo (dovuto peraltro allo sfruttamento di giacimenti che si sa da decenni che sono pericolosissimi per condizioni climatiche estreme), gli scandali nostrani, con corrotti indisturbati, dirigenti di polizia condannati per sopprusi incredibili al G8 di Genova, una chiesa che balbetta e si arrocca sui propri errori.
Di fronte a tutto ciò, mi sembra si guardi indietro, si riprendono polemiche antiche con un linguaggio antico, per il gusto di sentirsi paladini di chissachè. Non rincorriamole anche noi.
Perchè non basta un appello al generico e necessario “distanziamento”. L’assenza di coinvolgimento in prima persona è un lusso riservato a pochi. La filosofia deve poter essere radicale anche nel crogiuolo delle passioni, non per allontanarsene, come se fossere sangue infetto, ma per guidarle per renderle aperte alle ragioni dell’evidenza. Correndo il rischio dell’errore, ma non il peccato dell’omissione. Ci vuole il coraggio di fornire ai bisogni ed alle paure, alle brame ed alle passioni, ideali verso i quali sfogarsi: solo così si muove la storia. Creando dalle paure speranza, dai bisogni anelito di diritti.
Caro Emanuele,
temo di aver bisogno di un ausilio ermeneutico circa la tua comunicazione: non ho capito esattamente quale ne sia il bersaglio polemico, né cosa sarebbe giusto fare rispetto a ciò che è invece secondario o erroneo. Se fossi incline ad interpretazioni capziose leggerei tra le righe che scrivi un messaggio del tipo: ‘non se ne può più di questi attacchi laicisti estemporanei, mentre ben altre cose sarebbero le cose importanti di cui occuparsi’. Ora, se il riferimento è a Odifreddi, beh, posso concordare, ma non mi pare che il suo nome sia circolato in questo blog come ‘maître à penser’. Se il riferimento è ad altro, temo di non capire in che misura parlare del ruolo di autorità ben più che morale della Chiesa cattolica in Italia (ed in diverse altre parti del mondo) sia una questione secondaria o da subordinare ad altre, che sarebbero per ciò trascurate (?).
Può darsi che partire da Ipazia per discutere del presente sia un’operazione un po’ macchinosa, ma si sa che i filosofi amano prenderla alla lontana, contestualizzare, mettere in prospettiva. (Forse hanno bisogno di scaldare i motori, perché il viaggio si preannuncia lungo.) La questione, però, non cambia. È ovviamente assurdo chiedere a uno di noi di proporre una soluzione specifica per turare la falla nel Golfo del Messico, sostituire il petrolio con fonti energetiche meno inquinanti o democratizzare l’estremo oriente. Viceversa, penso che sarebbe nostro compito discutere la tesi generale avanzata da Emanuele e che riassumo così: la storia si cambia solo fornendo ai bisogni e alla paure, alle brame e alle passioni, ideali verso i quali sfogarsi.
Penso che concorderemo tutti sul fatto che si tratta di un’affermazione allo stesso tempo ambiziosa e controversa. Chi li “fornisce” a chi? Che cos’è un ideale? Concretamente, che cosa significa “sfogarsi” con un ideale? Non si tratta ovviamente di impiccare nessuno su una parola o un concetto, ma ricordare che stavamo facendo esattamente questo: ragionare pensosamente su ciò che vi è di prezioso e ciò che vi è di pericoloso nella nostra principale tradizione religiosa e nelle sue incarnazioni istituzionali e mondane. Se questo non è fare i “pontieri”, non saprei proprio che cosa possa esserlo…
Sarei molto dispiaciuto dall’apprendere che la discussione che si è tenuta attorno a Ipazia sul blog venisse rubricata sotto il titolo laicisti versus cattolici. Fin dalla prima proposizione del tema, in effetti, avevo stigmatizzato proprio quella lettura riduttiva del film, cercando anche nei commenti successivi di offrire angolature diverse. Può darsi che non sia bastato. Anche se, per la verità, grazie all’iniziativa dei partecipanti, s’è parlato di molte cose: dalla struttura degli atti liberi, alla tipizzazione dell’agire giusto, dalle categorie con cui pensare le transizione storiche, al rapporto che il pensiero critico deve intrattenere con la tradizione, fino alla peculiarità della koinè tardo antica. Naturalmente, il merito e la forma della impegnativa lettera inviataci da Franco Cardini, ha riportato l’attenzione sul rapporto tra valori cristiani e appartenenza alla Chiesa, con qualche coloritura che, più che Voltaire, m’è parsa rievocare – anche negli aspetti consapevolmente più parodistici – gli scambi tra Naphta e Settembrini della Montagna Incantata di Thomas Mann. Nel complesso, però, direi che la discussione ha preso una piega differente rispetto a quella comparsa su giornali e tv, come peraltro ci è stato esplicitamente riconosciuto dagli intellettuali, cattolici e non, di cui abbiamo ripreso gli interventi. Ad ogni modo, qualunque cosa si pensi del film, e qualunque cosa ne pensi Umberto Eco (il cui contributo ad elevare la discussione, a dar retta ai resoconti giornalistici, è stato peraltro alquanto modesto), anche quel dibattito tra opposte tifoserie “laiche” e “cattoliche” credo meriti egualmente rispetto e attenzione: qualcosa del nostro tempo lo dice, credo, dato che prima che nel nostro Paese (certo, per ragioni ben comprensibili, ipersensibile al tema) ha condotto milioni di spettatori al cinema e avuto vasta eco altrove. Ovvio, dal clamore attorno un film non si trae un giudizio di valore. Ma se Eco ha dedicato pagine memorabili a Superman e a Mike Bongiorno, sono certo che anche Agora si sia potuto meritare un po’ dell’attenzione che gli è stata rivolta. Forse, chissà, questa volta il nostro semiologo non era ispirato. O s’è fatto prendere in contropiede… 😉
Mi permetto di intervenire di nuovo per cercare di ricavare alcuni elementi di fondo del dibattito per altro squisitamente pluridisciplinare, e quindi tutt’altro che scontato e/o schematico.
Ipazia è diventata un’icona… una “santa e martire” della resistenza al fanatismo dei cristiani in piena espansione politica ed ideologica.
Massacrata in quanto donna pensante e fuori dai modelli patriarcali della tradizione ebraico-cristiana, massacrata in quanto intellettuale religiosamente non schierata e non disponibile ai compromessi. Ipazia era sola.
Poco importa il valore del film… chiediamoci perché questa figura ha dato origine a tante prese di posizione (non abbastanza, comunque). Forse perchè, si sente, palpabile, un problema che riguarda il clima politico-culturale che sembra avere preso il sopravvento… Forse molti sono coloro che sentono l’aria farsi sempre più rarefatta intorno, forse la follia e l’inconsistenza morale che ci circondano, la corruzione della mente e quello che sembra il conseguente trionfo del “pensiero debole”… fanno paura… E si sente il bisogno di capire da dove arriva il pericolo, dove sono le risposte, quali strade si possano o debbano percorrere per costruire un nuovo sistema di valori, nuove coordinate anche di natura epistemologica. Da dove partire per dare vita all’uomo nuovo? Quale il modello? E qui emerge la figura di Ipazia come drammatica alternativa ai fondamentalismi religiosi, ai dogmatismi pietrificati, alla pseudoconoscenza. Come uomo/donna che resiste fino all’estremo sacrificio sapendo già che sarà sacrificata in quanto rappresenta il diverso, e quindi è motivo di “scandalo” (e chiunque ha avuto esperienze come “diversamente pensante” come ho già detto, sa bene che il concetto di “scandalo ” è un’arma tanto utile quanto letale nelle mani dei difensori dell’ortodossia ad ogni costo). Non c’è solo il Cristianesimo alle origini del pensiero occidentale, anche se chiaramente il pensiero e la cultura cristiani, il potere della chiesa cattolica e delle altre chiese ispirate al cristianesimo, nel bene e nel male sono stati decisivi per determinare ogni dibattito e ogni scontro sociale e politico. Perché dunque stupirsi se c’è un fronte “laicista” (se proprio vogliamo usare questa espressione un po’ fuorviante) che difende con passione e strumenti divulgativi efficaci un pensiero anticattolico? È un problema per qualcuno? Si tratta di affrontare questioni di sostanza e di metodo in merito ai processi della conoscenza e ai modelli etici di riferimento. Ci vuole un dibattito e, se serve, uno scontro. Non voglio tornare sul prof. Cardini. Lui difende le sue certezze dell’infanzia a costo di rinnegare la sua stessa storia di uomo di studio. Lui sa, ma ha deciso di voler restare comodamente là dove lo ha collocato il caso o se si vuole il dato della sua storia personale (contesto sociale, condizioni e tradizioni familiari). Ma non tutti siamo convinti che questo possa servire a dare risposte alle nuove generazioni e alle sfide che la storia ci pone davanti. Chi ha paura di un nuovo umanesimo? Verissimo il fatto che in Italia siamo condizionati dalla mancanza di un pensiero pluralistico, religioso e non. Forte, da sempre, la tentazione del pensiero unico, radicata una concezione dogmatica della conoscenza, conseguenza anche di un forte ritardo nella diffusione della scolarizzazione di massa e dei presupposti per la diffusione del pensiero logico-critico nonché della cultura scientifica… Bene. Forse è questo il momento di uscire da tutto questo.