Segnalo una riflessione di Luca Ricolfi su La Stampa a proposito delle ragioni della sconfitta del Pd alle ultime elezioni regionali. Può lasciare perplessi quanto poco si lasci toccare dai temi della legalità, del conflitto d’interessi, dello strapotere economico e mediatico, dallo stravoglimento delle regole della comunicazione, dell’etica e della politica cui assistiamo ogni giorno. E tuttavia è un’analisi che sarebbe rischioso sottovalutare. Molto rischioso.
«Ci sono voluti alcuni giorni, ma alla fine anche nel Partito democratico la verità comincia a farsi strada. La sinistra è andata come era prevedibile (un po’ meglio che un anno fa, perché anche Berlusconi comincia a stancare), ma il Pd è andato decisamente male. Nonostante le difficoltà del centro-destra, nonostante le elezioni intermedie siano un’occasione d’oro per le opposizioni, il Pd non è stato in grado di approfittarne. Qualcuno dà la colpa a Bersani, ma molti dirigenti e militanti del partito si rendono conto che il vero problema non è il segretario, ma la mancanza di idee, e che senza idee non si andrà da nessuna parte (continua su La Stampa.it) ».
Da anni la mia opinione, a dire il vero, è che il principale problema della sinistra italiana non sia la mancanza, ma l’eccesso di idee e come questa profusione senza limiti di pensieri e parole sia uno dei fattori che impedisce la nascita di una leadership forte. Ma questo è un problema culturale generale e chiedere al PD di avere un progetto chiaro di riforma della società italiana mi sembra che sia davvero pretendere troppo. Vorrei sapere chi ce l’ha questo progetto? Con chiunque parli nel mondo, tutti si lamentano della inadeguatezza della propria classe politica. Comunque sia, secondo me una drastica riduzione della complessità ideologica nella sinistra italiana sarebbe un bel progresso. (Possibile che della nostra tradizione politica non si butti via nulla – non dico Togliatti e Berlinguer, che comunque hanno stufato parecchio – ma persino le subculture politiche più infinitesimali degli anni Settanta?)
Se poi passiamo dalla testa alla pancia, le cose non si fanno meno complicate. Interpretare gli umori attuali del paese è un compito improbo e non ha torto Ricolfi a rimarcare le oscillazioni del gruppo dirigente del PD. Ma chi di noi ha le idee veramente chiare? Oggi, mentre leggevo l’editoriale di Dario Di Vico sul “Corriere”, ho avuto l’impressione che mi girasse la testa (e che girasse anche a Di Vico, per altro). La diagnosi era un calderone in cui c’era posto per tutto: identità e globalizzazione, de-regulation e iperregolazione, identità cristiana e celodurismo. D’altro canto – direte voi – la pancia è proprio il posto dove si mischia tutto, si trasformano gli elementi complessi in semplici e si produce… una schifezza (per così dire)! Ma in questo caso, converrete con me, l’essenziale è non avercelo un progetto chiaro o, se ce l’hai, tenerlo ben nascosto. Possiamo ben dircelo: la pancia del paese (fatta eccezione per la milza!) non è di sinistra.
Sono solo io a pensare che l’ultima fallimentare esperienza di governo del centrosinistra sia stata una catastrofe cubica proprio perché nel nostro paese la sinistra deve remare contro corrente e ha un onere supplementare di prova: deve cioè “convincere” una pancia che la trova terribilmente indigesta? Scusate, ma chi di voi è cresciuto nella provincia italiana? E ve lo ricordate o no com’era (e com’è) essere un pensoso giovanotto di sinistra in quei posti? Gulp, a me vengono ancora i brividi solo a pensarci…
Colgo solo qualche spunto dall’articolo di Dario Di Vico.
“La sinistra in Italia è uno spazio culturale, non un’offerta politica.”
“Ma questo dibattito post-elettorale non ci parla solo della capacità politica della Lega e della paradossale debolezza programmatica, ci racconta anche dei ritardi delle nostre élite, forse le più spocchiose del G8 e le più disancorate dalla realtà.”
“Visto che il voto ha smentito le loro tesi, ora hanno preso a sostenere che la società del Nord «è incivile» o addirittura assistita grazie alla Cassa integrazione in deroga.”
E’ ovvio che si può guardare la strategia della Lega solo a patto di non impressionarsi di fronte (e di non lasciarsi accecare da) al linguaggio truce, ai modi violenti e plebei, alle guasconate degli esponenti politici verde padano. Occorre una certa freddezza per intravedere un disegno lucido che si compie, una strategia mobile, adattiva e vincente.
Ma è il lavoro necessario per fare una analisi e tentare una risposta. Di Vico dice alcune cose interessanti: che il famoso territorio è molto più mobile, rapido e dinamico di quanto non lo pensi il PD (o la sinistra in generale). Che organizzare interessi, e in particolare gli interessi vitali di un territorio (sempre lui) è indispensabile e non solo per avere consenso.
Per fare questo occorrono proposte politiche. Gli slogan non bastano, ci ricorda Luca Ricolfi. A patto di sapersi decidere fra le “troppe” idee e di saper semplificare.
Ma qui non credo che siano i richiami alle radici (Togliatti, peraltro, non lo cita più nessuno) o i vari -ismi da cancellare. C’è sicuramente una selezione da fare.
Se posso raccontare un episodio.
Stamattina ho scoperto in via Rovello a Milano, proprio accanto al Piccolo Teatro, il Palazzo Carmagnola – oggetto di un recente restauro.
Mentre mi addentravo nel chiostro mi son tornate alla mente le parole del sovrintendente Escobar a proposito del complesso e contrastato restauro.
Se viene ingessata, la memoria è un difficile ingombro. Se si accetta di porvi mano, può accadere che si riscopra un’identità più profonda. È così che accanto al Piccolo, oggi si può ammirare un chiostro bramantesco.
Differenza prima facie tra destra e sinistra nell’Italia odierna:
un politico di destra va in televisione e grida, con la schiuma alla bocca e lo sdegno nel cuore (vero sdegno) che bisogna smetterla di mettere la mani nelle tasche dei cittadini, che bisogna smetterla di dare gli asili agli immigrati, o, ancora, che bisogna smetterla di non consentire a ciascuno di fare gli affari che gli competono senza dover temere gli ostacoli della burocrazia e della giustizia.
Un politico di sinistra va in televisione e, pacatamente ed in modo lievemente annoiato, inizia concedendo che, si, è vero le tasse in Italia sono troppo alte, che si, è vero, gli immigrati sono talvolta un problema, che si, è vero, vi sono residui di dirigismo e giustizialismo nel nostro paese, e, tuttavia, bisogna rispettare le regole (lo dicono anche in Europa), non bisogna violare i diritti umani (lo dice anche il papa) e non bisogna fare di tutta l’erba un fascio (lo dice anche Fini). Sorride con condiscendenza e ritorna soddisfatto a casa.
Per Paolo: la sinistra oggi non HA idee, ma CONTIENE idee. Come in un dizionario filosofico puoi trovare il dualismo accanto al monismo, la fenomenologia accanto al neopositivismo ed il neotomismo a braccetto dell’ateismo materialista. Ci sono tutte le idee che vuoi, ma il dizionario non ne ha alcuna.
Esercizio per eventuali politici in ascolto: provate a selezionare una decina di questioni cruciali per il paese e provate ad esprimere in una frase principale di massimo venti parole quale è la posizione della sinistra. Chi ce la fa vince una vacanza premio alla Bolognina.
Mi trovo d’accordo con quanto sostiene Ricolfi, uno studioso di sinistra (come spiega anche nel suo ultimo libro Il sacco del nord) che non ha perso i contatti con una realtà che evolve. La classe politica di sinistra invece sembra ancorata ancora ai vecchi schemi del “politichese” (del resto le persone sono sempre le stesse!) e ha finito per perdere terreno. Lo mantiene solo come forma di opposizione al centro-destra, ma la sensazione è che la si voti sempre turandosi il naso. L’unica cosa che non condivido con il sociologo è quel “Berlusconi incomincia a stancare”… incomincia?????
Vorrei soffermarmi un attimo sulla pertinente (e divertente) osservazione di Andrea. Dal mio punto di vista non è poi così sconvolgente che la sinistra italiana non abbia, ma contenga idee o, per dirla con le parole di Di Vico, sia “uno spazio culturale, non un’offerta politica”. Quello che mi chiedo è, anzitutto, come faccia a contenerne così tante e così contraddittorie (al punto da ricordare il proverbiale manuale di zoologia borgesiano)? E, poi, perché sia incapace di produrre una leadership che faccia periodicamente selezione tra queste idee? La mia ipotesi è che, tenuto conto dell’ambiente circostante, la semplificazione non sia un comportamento adattivo. Perché se la “sinistra” non ha idee, gli elettori di sinistra ne hanno persino troppe, e alla fine si finisce sempre per scontentare qualcuno che, immancabilmente, ti chiederà a gran voce di dire qualcosa di sinistra. Da cosa dipende questa sterilità politica? Sarà un effetto collaterale dell’insofferenza cattolica verso gli aut aut? Sarà che in un paese sfortunato il radicalismo non è un optional? Sarà colpa del nostro incurabile individualismo mediterraneo? Francamente non lo so. Però anch’io, come Andrea, avrei tanta tanta tanta voglia di una sinistra un po’ meno pletorica e un po’ più concisa.
Le metafore naturalistiche di Paolo sono perfette. Ne aggiungo altre. Si discute molto del problema se la crisi della sinistra (intesa molto latamente come fronte dell’attuale opposizione) sia di idee o di credibilità della leadership. Non vedo come non possa essere di entrambe. Si tratta solamente di decidere da quale corno è più conveniente e rapido prendere il dilemma, per scioglierlo. Ma bisogna essere onesti. Come è già stato detto, bisogna partire dall’idea che questa leadership, pur perdente, è adattata piuttosto bene alla sua econicchia elettorale (peraltro in chiaro declino). S’è fatta molta (e giusta) ironia sui “ma anche…” veltroniani, con i quali ha celebrato i suoi esordi il Partito Democratico. Eppure erano lo specchio perfetto in cui la sua ipotetica, ondivaga e pletorica base era incline a rimirarsi. A sinistra siamo suscettibili. Molto. Non ci stiamo a essere vicari, gregari o subalterni al prossimo (e quanto più è prossimo, paradossalmente!). Ognuno si sente e vuol essere riconosciuto sempre in quanto portatore di istanze irrinunciabili, valori non negoziabili, ragioni ultime, scelte indifferibili, protagonista assoluto e primo di battaglie (sempre campali, naturalmente) in difesa e per la promozione dei principi più alti, siano essi quelli della legalità, del lavoro salariato, dell’autodeterminazione, della laicità, dell’ambiente, ecc. Ci piace pensare in grande, e per questo amiamo le ampie sintesi, possibilmente complesse. La realtà minuta, quindi, anche quella storica, di norma e non a caso ci lascia insoddisfatti: non ci merita più, tanto è prosaica e volgare; e così, se possibile, la evitiamo, ritagliandone con cura solo il volto a noi più congeniale. Meglio restare nel cerchio ottimale della propria Umwelt, per dirla con von Uexküll, che arrischiarsi in direzione del suo margine pessimale. Il risultato è che, nelle nostre risposte reticenti e oblique ai problemi, risultiamo sempre vaghi, prevedibili, frusti, in definitiva poco credibili: gente “che non la conta giusta”, insomma, che “non la conta tutta”. Ma che c’importa? Ci sarà sempre una sottonicchia in cui, tra un “ma anche” e l’altro, ci potremo rifugiare per continuare a coltivare la nostra purezza residuale. E dunque avanti a rinserrare e poi di nuovo sciogliere i ranghi elettorali, con l’alibi della perenne emergenza democratica e il mito ingiallito della Liberazione in tasca. Ma se davvero di emergenza, come si sostiene e credo, si tratta, non dovrebbe già di per sé essere motivo sufficiente a spingerci a definire quello che l’azione, di qualunque genere sia, sempre richiede: un’ordine minimo e condiviso di priorità? Questo fece, tra le altre cose, il Cln.
P.S. Sulla querelle circa civilità o inciviltà dei “piccoli” tra Dario Di Vico (vicedirettore del Corriere della Sera, citato da Gabriele) e Tito Boeri (economista ed editorialista di Repubblica, che nei giorni scorsi segnalava le regalìe del governo alle amministrazioni nordiste del Nord), vale la pena di leggere questo articolo uscito su Europa. Ai tempi della direzione di Piero Ottone, primi anni 70, qualcuno chiese sdegnato: “Ma il Corriere è comunista?”. Oggi bisognerebbe cominciare a chiedersi: “Ma il Corriere è leghista?”. Tra qualche giusta stigmatizzazione, c’è infatti anche parecchia retorica nell’articolo di Dario Di Vico, sulla quale è bene riflettere. I giornali come il Corriere della Sera, in qualunque Paese paragonabile all’Italia, assumono una posizione che senza essere antigovernativa non è mai in asse con il governo, tanto meno con le sue componenti più oltranziste: rappresentano un punto di equilibrio, come si dice. Se così non è, o non è più, un motivo ci deve essere e le conseguenze possono essere incalcolabili in un Paese con una tv messa come la nostra. Detto questo, anche se la celebrazione delle virtù dei “piccoli, pancia d’Italia” di Di Vico ci lascia perplessi, sarebbe interessante capire che cosa ne pensa la sinistra di questo corpo sociale di 4 milioni di persone. Esiste davvero e ha interessi e cultura omogenei o è un’invenzione di propaganda? Può essere (almeno in parte) conquistato da sinistra o no? Esistono corpi sociali da opporgli oppure no? Perché se il Corriere si è spinto fin lì, dato che Dario Di Vico non è Nicola Porro, vuol dire che non c’è molto tempo per la controffensiva. In poche parole: il centrosinistra si gioca tutto al Nord sulla piazza più dura, ormai: la poltrona di sindaco di Milano, probabilmente contro Bossi. Poi la partita si chiude e si entra in una nuova era geologica della politica italiana (o padana?). Pd, Idv, Sinistra e Libertà, grillini e compagnia bella, ne sono consapevoli? I grillini, dicono, non sono né di destra né di sinistra: sono “avanti”… Speriamo non troppo.
Notizie dal territorio (ancora??)
Oggi circa 500 sindaci hanno manifestato a Milano contro il patto di stabilità. Repubblica.it dedica alla notizia un articoletto di cronaca, il corriere.it una cronaca più dettagliata e un interessante riflessione di Sergio Romano. Cos’è il patto di stabilità? E’ un meccanismo infernale (per contenere la spesa pubblica e far rispettare i vincoli di bilancio dei paesi europei) che fa si che il mio comune (20.000 anime alle porte di Milano) abbia in cassa quest’anno 9 milioni ma ne possa spendere solo uno e l’anno prossimo 12 ma possa spenderne ancora solo 1. Il meccanismo penalizza in particolare i comuni virtuosi – cioè quelli che escono normalmente con bilanci in avanzo. Con riflessi evidenti sulla capacità dell’amministrazione a far fronte a impegni di spesa urgenti e necessari a mantenere un buon livello di servizi e a intervenire sulle emergenze create dalla crisi, specie in campo sociale.
A guidare la protesta il sindaco leghista di Varese , presidente dell’Anci Lombardia: beneficiato da un intervento del Governo per ripianare i disavanzi.
In piazza moltissimi sindaci di tutti i colori: indice di come l’iniziativa colga nel segno.
Quale partito si fa interprete di questo problema?
La tendenza, tipicamente ‘intellettuale’, al purismo ideologico di cui parla Stefano è un fatto acclarato nel territorio della sinistra italiana, ma non credo debba essere sopravvalutato: l’odierno attaccamento alle proprie idee (o ideuzze) tra gli alfabetizzati italioti è proporzionale alla loro fragilità. Le si cura e preserva sperando che diventino grandi.
Il punto vero non riguarda solo l’Italia, anche se, come al solito, qui il problema è un po’ più grave che altrove in Europa: il punto è che, mentre la Destra (in senso ampio) può da sempre permettersi di riposare sullo status quo, la Sinistra (sempre in senso ampio) non può per natura farlo, ma ha bisogno di elaborare una visione unitaria alternativa. Questa asimmetria deriva direttamente dalla storia della politica democratica: si dice Sinistra, a partire dalla Rivoluzione francese, quella componente dell’assemblea rappresentativa che proponeva cambiamenti radicali. Dalla Restaurazione in poi diviene sinonimo di Repubblica (il nuovo) contro Monarchia (l’Establishment). Dopo il 1848 si aggiunge la pretesa della Democrazia non ristretta (rivoluzionaria) contro le varie forme monarchiche, anche costituzionali; ecc., ecc..
Mentre la Destra odierna può sempre affidarsi alla corrente consolidata delle pratiche lavorative del mercato e alla tradizione cristiana istituzionale per giustificare le proprie posizioni (con l’unico problema, talvolta, di conciliare punti discordanti tra cristianesimo e mercato), la Sinistra deve proporre una visione unitaria alternativa, ovvero, più o meno ciò che una volta in filosofia si osava chiamare un SISTEMA.
Sul fatto che il sistema proposto dal comunismo sovietico abbia fallito nessuno ha oramai più dubbi, ma questo non significa che una proposta alternativa possa sottrarsi all’esigenza di proporre qualcosa di analogo quanto a portata, anche se diverso nei contenuti. La Sinistra italiana (ma non solo) si è limitata a brandeggiare lo slogan di una Ricostruzione o Rifondazione (RC), senza neppure iniziare a porsi, a partire almeno dal 1989, la prima domanda: in cosa abbiamo creduto fino ad oggi? Quali erano le credenze e quali i valori motivanti che supportavano la nostra visione? E a seguire, posto che talune credenze specifiche (ad esempio la teoria del valore-lavoro) sono venute meno, ciò rende le nostre MOTIVAZIONI precedenti insensate, oppure dobbiamo reinterpretarne l’applicazione?
In sintesi, la Sinistra non può permettersi di essere un contenitore e, peraltro, è illusorio credere che abbia bisogno di esserlo pena la perdita dei suoi supporters geneticamente individualisti. Le persone difendono accanitamente i propri boccioli di idea soprattutto quando vedono che intorno non c’è di meglio: non è che un leader decisionista, ma senza idee, potrebbe convincere a mollare i propri orticcioli gli alfabetizzati di sinistra (intellettuali mi pare francamente un’esagerazione: come quando Totò chiamava Commendatore il portinaio.) Ma un politico con delle idee (insisto, con un sistema coerente di idee) potrebbe divenire un leader senza battere i pugni sul tavolo.
Tra l’altro, non è che nessuno se ne sia accorto tra i politici: Vendola se ne è accorto, solo non ha capito quali conseguenze trarne; il Nicky nazionale continua a recitare in televisione, al pubblico un po’ divertito ed un po’ sconcertato, che abbiamo bisogno di una nuova grande NARRAZIONE (che è il modo in cui i postmoderni declinano ciò che una volta era il sistema). Confesso che ogni volta che lo sento ho un moto di angoscia supplementare, perché intravedo come anche questa intuizione andrà una volta di più sprecata. Primo, mi chiedo fino a che punto si sia spinta l’autoreferenzialità sinistrorsa per non comprendere che riferimenti di meta-politica non sono pertinenti quando ci si rivolge al pubblico voto-dotato: se credi in ciò che mi hai appena detto, mi devi FORNIRE una narrazione, non mi devi dire che dovremmo averne una. Secondo, il riferimento alla narrazione, invece che al sistema, mostra già i limiti intrinseci che porteranno al finale “come non detto, stavamo scherzando”: una narrazione è una storia di cui si assume che essa sia una tra le molte possibili organizzazioni diacroniche dei dati, dunque non ha pretesa di verità o validità universale. Per quanto conosca bene ottime ragioni per ragionare in questi termini sul piano filosofico, vedo solo l’autolesionismo come ragione per ragionare così sul piano politico: quando si fa una proposta politica non si sta discettando sotto Epoché, si fa una proposta che deve pretendere di dar conto di come le cose stanno e di come devono e possono andare. Se una storia mi devi proporre, che sia La Storia (ovvero, qualcosa che pretende di essere un resoconto vero della realtà nel tempo).
So che in mancanza di un esempio positivo di tale visione, tutto ciò sembra poco costruttivo. Nei limiti di un blog posso solo limitarmi ad assicurare in buona coscienza che una tale visione potrebbe essere facilmente approntata.
Ringrazio Stefano Cardini per aver proposto l’interessante articolo di Luca Ricolfi. Esso contiene due livelli di diagnosi. La meta-diagnosi è sull’apparente (almeno) paralisi del Pd: non sarebbe in grado di scegliere tra le due possibili diagnosi del malessere della società italiana che Luca Ricolfi propone di chiamare (1) emergenza democratica e (2) modernizzazione mancata. Solo la (1) comporta un’opposizione totale, pregiudiziale, al governo Berlusconi. Se la Sinistra accettasse la (2), il governo Berlusconi andrebbe invece incalzato e sollecitato a realizzare le riforme liberali originariamente promesse nel 1994.
Il dibattito interno del Pd essendomi impenetrabile, non so se la meta-diagnosi sia giusta. Ricolfi potrebbe addirittura essere stato molto ottimita nel concepirla. Ma la diagnosi (1) non è una diagnosi della società italiana, è un’ipotesi sulle intenzioni del Berlusconi e dei suoi seguaci. Molti episodi lasciano pensare che sia giusta, che ci sia una componente eversiva del Capo del Pdl e del governo. Su di essa Ricolfi non si pronuncia. Ma a mio avviso ogni cittadino, e non solo ognuno che si dichiari di sinistra, dovrebbe preoccuparsene: o spiegarci perché la (1) sia errata! Ricolfi propende per (2), ma (2), che sia pur in modo molto generico è una diagnosi della società, non è in alcun modo in alternativa con (1). Potrebbero essere entrambe vere. E’ un peccato che Ricolfi non discuta veramente (2). Forse lo ha fatto in altre occasioni. Ad esempio, ricordo che non era molto d’accordo con Sacconi e Brunetta quando sostennero, senza suscitare molta opposizione nel Pd, e ancor meno nei sindacati (circa 6 mesi fa) che l’Italia ha “il miglior mercato del lavoro al mondo” (cito a memoria). Siccome non approfondisce (2), il suo discorso passa ad occuparsi delle intenzioni del Berlusconi e la sua maggioranza su se realizzare le tanto sognate riforme (mai ben specificate). Ricolfi ammette che, se non sono state realizzate dal 1994 ad oggi, è improbabile che lo siano nei prossimi anni. Con il ché parrebbe cadere l’oggetto di un possibile dialogo con il Pd. A mio avviso del resto le sue riforme il Sig. Berlusconi le ha fatte, e sono i ripetuti condoni e gli scudi fiscali, i condoni e le sanatorie urbanistiche, la depenalizzazione del falso in bilancio, l’abolizione delle flebili forme residue di tassazione ereditaria, ecc.
Tutte cose che rientrano nella diagnosi (1), ahimé!
Questo non toglie che il Pd dovrebbe adottare una qualche diagnosi dei mali della società italiana, in particolare l’allarmante ristagno produttivo, che dura ormai da un decennio e dunque precede la crisi mondiale, e presentarsi al pubblico con un programma di governo di pochi ma incisivi punti. Su questo non si può non essere d’accordo con Ricolfi.
Prima di suggerire ciò che la sinistra dovrebbe fare, sarebbe importante definire che cosa si intende per sinistra oggi, e non so chi – su questo punto – ha le idee chiare. Certo non quegli esponenti del PD che, leggo oggi su l’ Unità, hanno pensato di inserire Guazzaloca tra i candidati alle primarie di Bologna per la scelta del sindaco. Né chi con troppo entusiasmo guarda a Fini come a un “compagno”, mentre è un politico che ha scelto, grazie a Dio, di dar voce anche in Italia ad una destra costituzionale, dalla quale andrà pur sempre distinta una sinistra altrettanto costituzionale. Purtroppo per ora c’è al potere una destra populista con frange eversive (cfr. programma P2), e all’opposizione una sinistra in stato confusionale, di cui fa parte, soi disant, lo studioso Ricolfi, del quale non ho mai letto alcun serio attacco alla destra, ma che in compenso è sempre soavemente velenoso quando parla di sinistra. Giusto essere autocritici, ma se lo sei con voluttà quando la sinistra governa con Prodi, e continui a lanciare i tuoi strali nella stessa direzione, cioè a sinistra, quando governa, malissimo, la destra, c’è qualcosa a livello psicologico più che logico che mi inquieta.
Torniamo al punto: che significa oggi essere di sinistra? Può valere ancora una distinzione, che ha radici storico-filosofiche, tra un progetto che pone al centro l’individuo (destra) ed un altro che privilegia la comunità (sinistra)? Molta acqua è passata sotto i ponti dai tempi di A. Smith o di K. Marx. Le socialdemocrazie nord-europee hanno mostrato la possibilità di conciliare libertà e giustizia sociale. Ma la storia d’Italia ha avuto un percorso assai più breve e meno lineare rispetto a paesi come la Svezia o la Danimarca, ed è con la “nostra” storia che dobbiamo fare i conti. Una storia che oltre ad un’unità necessaria ma raggiunta in modo fortunoso, senza avere il tempo di costruire delle solide “barbe” (radici) come lamenterebbe Machiavelli, ha “inventato” il fascismo e ne è stata governata per vent’anni, senza procedere peraltro, nei decenni successivi, ad una analisi critica su quanto fascismo preesistesse all’affermarsi del regime vero e proprio, e su quanto ne sia rimasto appiccicato alle nostre istituzioni ed abbia continuato a vivere nella mentalità dei più, anche dopo il crollo politico del fascismo. In sostanza, la definizione gobettiana del fascismo come “autobiografia della nazione” siamo certi non valga più oggi?
Mi è sembrata buona cosa, dovendo cercare una definizione di “sinistra”, fare riferimento ad un classico del pensiero politico italiano del ‘900, Norberto Bobbio, che in un famoso libretto uscito nel ’94, dopo il cosiddetto crollo della Prima Repubblica, si interroga sulle ragioni e i significati dei termini Destra e Sinistra. Bobbio fa riferimento ad una vastissima bibliografia, non solo italiana, a partire quantomeno dagli anni ottanta del secolo scorso, argomenta ed esemplifica da par suo, per poi concludere, in modo disarmante direi per semplicità (una semplicità che è punto d’arrivo di complessi ragionamenti, non punto di partenza) che se dovesse spiegare perché egli si sente ancora di sinistra, ebbene crede ciò dipenda dallo “stato di disagio di fronte allo spettacolo delle enormi diseguagliaze” tra ricchi e poveri, dalla mancanza di valide giustificazioni al profondo divario “tra chi sta in alto e chi sta in basso nella scala sociale” , tra chi è potente e chi non lo è. Troppo semplice, e poco “scientifico” parlare in questo modo? È chiaro che Bobbio dice ben altro, prima e dopo queste affermazioni, ma in questo esplicito andare alla “prima radice” della sua scelta, mette in luce il fondamento kantiano o cristiano, o socratico, di questo suo porsi immediatamente dalla parte di chi subisce ingiustizia e contro chi orgogliosamente in quegli anni aveva ripreso a gridare “abbasso l’uguaglianza”, come fece un esponente della destra “sdoganata” (R. Gervaso) nel 1992, che intitolò così un suo intervento giornalistico.
Torniamo al PD, oggi: la smettessero di discutere di organigrammi, partito debole o forte, “radicamento nel territorio modello Lega”, nomenclatura. Sarebbe ora di indignarsi davvero, non ad uso delle comparsate in TV, per il brigantesco furto di ricchezza ai molti in favore dei pochi, per la riduzione dei margini di libertà d’espressione, per l’assenza di vero liberismo economico a vantaggio dei molteplici monopoli, per la sospensione o riduzione dei diritti di uguaglianza a partire dalla scuola, dalla sanità, dalle opportunità di lavoro. E invece di essere terrorizzati dalle elezioni che sicuramente nessuno della vecchia nomenclatura potrebbe vincere, perché non opporre ad un Berlusconi potente ma decrepito un quarantenne di valore? Non credo esistano solo in Inghilterra i Cameron o i Clegg in grado, col solo mostrarsi “visivamente” accanto a Berlusconi, di farci capire quanto “vecchio” – non solo fisicamente – sia l’amato leader.
Siamo o no la società dell’immagine?
Rubo un po’ di spazio per riportare l’articolo pubblicato oggi su Il sole 24 ore dal titolo:
Sul pendolo costante del Pd
• da Il Sole 24 Ore del 25 maggio 2010
di Miguel Gotor
Due fili tanto sottili da sembrare invisibili uniscono la trama bipolare italiana: il primo va da Berlusconi a Vendola passando per Veltroni, il secondo da Fini a D’Alema passando per Casini. Tali personalità, seppur divise in destra, sinistra e centro, sono accomunate da una medesima cultura politica La prima ha un impianto populistico-plebiscitario che prevede partiti illanguiditi intorno al corpo del capo e un linguaggio biopolitico post e premoderno che ruota intorno alla gente, al territorio, al genere, all’antipolitica.
La seconda ha caratteri costituzionali-rappresentativi che implicano partiti con una funzione autonoma e un linguaggio normativo moderno imperniato sui temi della sovranità come separazione dei poteri, dei diritti, della cittadinanza, della politica.
Ora che le polveri della propaganda si sono depositate, possiamo osservare meglio come nelle regionali del Lazio e della Puglia si siano giocate in realtà due rilevanti partite nazionali. Nel Lazio la Polverini era nata come candidata di Fini, ma ha vinto le elezioni in quanto protetta di Berlusconi al quale è stata costretta ad affidarsi dopo avere subito lo scherzetto della mancata presentazione delle liste, organizzato da un vecchio militante di Forza Italia che nessuno pensa abbia agito da solo. La Polverini dunque non ha prevalso grazie a Fini, e Berlusconi ha così raggiunto il suo obiettivo. La rottura intervenuta nei giorni successivi fra le due personalità è stata la logica conseguenza di quello schiaffo,
In Puglia ha vinto Vendola, ma anche in questo caso Berlusconi ha svolto un ruolo significativo, scegliendo di opporgli un candidato debole e rifiutando l’alleanza con la Poli Bortone. D’altra parte nessuno oggi ricorda la verità consegnata dai risultati elettorali, ossia che il centro-sinistra, se avesse candidato Boccia accordandosi con l’Udc, avrebbe vinto ugualmente. Ma era proprio questo che si voleva impedire, ossia l’affermazione del disegno di D’Alema che pensava fosse preferibile saggiare in periferia un asse tra riformisti e moderati da riproporre poi su scala nazionale per sconfiggere Berlusconi. Vendola si è battuto come un leone mostrando qualità di vero politico: convinzione ideale, tempismo, scaltrezza, determinazione. Chi lo conosce bene non è rimasto sorpreso perché sa che è una vecchia volpe della foresta politica italiana, essendo stato candidato la prima volta in Parlamento nel 1987. Avendo perduto nel 2008 il congresso di Rifondazione comunista che lo avrebbe dovuto acclamare segretario, ha fondato il movimento Sinistra, ecologia e libertà, e ha iniziato, del tutto coerentemente, a dichiarare che «i partiti sono morti»: in modo un po’ spregiudicato, ma comprensibile. Ma ora Vendola come intende gestire il potenziale che gli viene riconosciuto dopo la battaglia pugliese? Ha davanti a sé due strade, l’una saggia, l’altra ambiziosa: la prima è quella di diventare la guida di uno schieramento post-comunista, libertario, ecologico, movimentista, laico, alla sinistra del Pd, come esiste in Francia, in Spagna, in Germania, in grado di superare il 4% e di coalizzarsi con lo schieramento alternativo a quello guidato da Berlusconi. Il bacino elettorale a cui attingere ci sarebbe: a sinistra i voti congelati dall’astensione o politicamente contendibili sono almeno un paio di milioni.
L’altra strada è quella di allearsi con l’attuale minoranza del Pd per provare a costruire un ticket in occasione delle primarie che sceglieranno il candidato premier dei progressisti. Le primarie sono un meccanismo che richiede strutture leggere e fideizzate, fabbriche di partecipazione e propaganda come quelle create da Vendola in Puglia, una narrazione affabulatrice, il sostegno e la capacità di utilizzare mezzi di comunicazione vecchi e nuovi, tutte doti chel’Obama di Terlizzi” ha mostrato di possedere a iosa.
Oggi tutti parlano bene di lui e ciò dovrebbe insospettirlo: non sorprende che anche la stampa più vicina a Berlusconi lo lanci come possibile leader del centro-sinistra, ovviamente da scegliersi con le primarie, ben sapendo che loro da opporgli avrebbero qualcuno di meglio che Palese. La dichiarata indisponibilità dell’Udc a scegliere con questo metodo un candidato premier riproporrebbe a livello nazionale lo schema pugliese: da un lato, si ridurrebbe il potere di coalizione del Pd, che nonpuò essere limitato all’Italia dei valori e ai Radicali come ai tempi di Veltroni, dall’altro la candidatura di Vendola alle primarie chiamerebbe in campo quella di Bersani, dando vita a un lacerante scontro dentro il partito dagli esiti imprevedibili. In un caso come nell’altro favorendo Berlusconi. Per questa ragione il premier dichiara di apprezzarlo moltissimo e ha fatto di tutto per tenerlo in vita. Del resto, come dargli torto? Certe mine
vaganti possono tornare utili, a patto che siano collocate nel campo avversario. Per questa ragione il Pd deve cambiare passo per provare a disinnescarla il prima possibile con una robusta iniezione riformista.
Del resto, il prossimo presidente del Consiglio sarà colui che avrà la capacità di sparigliare le carte, riuscendo a tenere in una sola mano la parte migliore di entrambi i fili: il populismo democratico dell’uno e l’equilibrio costituzionale dell’altro. Facile a dirsi, difficile a farsi, ma è certo che finché i fili resteranno separati vincerà Berlusconi, mentre al Pd rimarranno in dote, come premio di consolazione, il valore di questo bipolarismo e la gara identitaria delle primarie per la soddisfazione dei politologi e la gioia dei suoi tanti avversari.
Analisi originale e interessante. Forse troppo sofisticata (politique politicienne, come si usa dire). Fuori dal quadro rimane infatti la questione decisiva: che cosa faremo quando governeremo? Lo so, lo so, che molti pensano che non sia su questo terreno che si decidono le elezioni. Ma il punto è che molti dei cortocircuiti esistenti tra la leadership e l’elettorato di sinistra dipendono dalle reticenze su questi nodi: che cosa significa governare una società moderna? Quali sono gli obiettivi (ragionevoli) che dovremmo prefiggerci? Temo che in questo campo le divisioni non siano solo tattiche, ma strategiche. Non esiste, infatti, una cultura politica egemone a sinistra e la polverizzazione delle opinioni non è un terreno favorevole per nessuna forza politica. Per tenere insieme il populismo democratico e l’equilibrio costituzionale, come sta cercando di fare Obama negli USA, serve almeno un’idea chiara delle nostre priorità. Quali sono le vostre?
Non ho risposte, almeno per il momento. Mi piaceva condividere l’articolo di Gotor (che ha anche un blog personale) perchè fornisce una lettura meno superficiale di quello che è avvenuto nelle ultime elezioni. Poi perchè mi è piaciuta (in quanto chiarificatoria) l’immagine dei fili che tracciano due diagonali nel campo della politica italiana. Non credo sia solo una questione tattica: c’è un modo differente di intendere la democrazia e il rapporto eletti-elettori. Ciò attiene anche al “che fare” quando si è al governo; al “che farsene” di una maggioranza parlamentare…