Una volta un giornalista chiese a Willie Sutton, celebre rapinatore nell’America degli anni trenta: “Perché lei rapina le banche?” Sutton rispose tranquillo: “Perché è lì che ci sono i soldi”. La risposta è passata alla storia, ma la domanda era stupida. Molti anni dopo, scrivendo la sua autobiografia dal carcere, Sutton chiarì che l’episodio era una leggenda, o almeno lui non lo ricordava, ma aggiunse che niente in vita sua gli era mai piaciuto come rapinare banche, e non si sentiva mai così vivo come quando entrava in una banca per svaligiarla. Sono anni che l’opposizione in Italia, in particolare quella moderata e perbene, continua a chiedere a un signore che entra ed esce da Palazzo Chigi: “Perché lei non rispetta le regole?” E la risposta, detta a chiare lettere o meno, è sempre la stessa: “Perché è nel non rispettare le regole che sta il potere che voglio io. Perché non mi sento mai così bene come quando calpesto le regole”.
Può darsi che, con la vicenda del decreto interpretativo che ha riammesso in campagna elettorale le liste escluse per vizio di forma, gli italiani abbiano finalmente capito che è tempo perso chiedere a Willie Sutton perché rapina le banche, e magari sperare che dopo una bella discussione in televisione o in parlamento ci venga a dire che si è pentito e che non lo farà più.
Naturalmente c’è anche un movimento di opposizione che ha sempre gridato a pieni polmoni che Willie Sutton e i suoi compari vanno mandati in galera e basta, discussione chiusa, ma questo movimento è stato sempre indebolito da una presunzione di superiorità morale che non gli ha creato buona fama né tra l’opposizione moderata né tra i simpatizzanti dei rapinatori di banche, i quali sono tanti. Willie Sutton infatti, come John Dillinger e Jesse James, era popolare; erano in molti a crederlo la reincarnazione di Robin Hood, e anzi erano convinti che se solo fosse stato lasciato in pace i soldi che rubava ai ricchi sarebbero arrivati anche ai poveri, bastava solo avere un po’ di pazienza.
La presunzione di superiorità morale è un’arma a doppio taglio. Abbiamo assistito negli ultimi anni al paradosso grazie al quale per ogni bestseller contro la casta dei politici aumentava il consenso elettorale della suddetta casta. Le stesse persone che compravano i libri dove si diceva che i politici sono tutti dei ladri poi magari votavano per i più ladri di tutti. Beh, se tutti rapinano banche, allora il mio preferito è Willie Sutton, almeno è il più bravo, è il più elegante (vestiva sempre benissimo e aveva modi da vero gentleman) e poi magari un giorno mi sarà grato e troverà un posto a mio figlio.
Nel film di Akira Kurosawa I cattivi dormono bene, una sordida tragedia politico-familiare che si svolge all’ombra del boom economico giapponese dei primi anni sessanta, Toshiro Mifune si insinua in incognito nelle gerarchie di una corrottissima impresa di costruzioni allo scopo di vendicare il padre, suicidatosi cinque anni prima per ordine della cricca al vertice dell’azienda. Mosso da feroce indignazione, elabora un complicatissimo piano di vendetta che però a lui stesso, col passare dei giorni, sembra sempre più difficile da realizzare. Cercando di capire dove sta sbagliando, a un certo punto esclama: “Forse non li odio abbastanza”. Ed è lì dove non capisce. Li odia anche troppo. E l’odio lo rende troppo sicuro di sé e delle sue ragioni. Mentre “loro” non lo odiano affatto. Non appena lui gli mostra il fianco lo eliminano senza una parola e senza sprecare un grammo di sentimento.
Prima che il presidente Napolitano firmasse il cosiddetto decreto interpretativo sulla presentazione delle liste elettorali, sembrava possible che l’opposizione perbene trovasse un element di unità con l’opposizione savonaroliana, la quale non aveva più neanche bisogno di gridare al ladro,visto che la rapina era avvenuta veramente sotto gli occhi di tutti.
Non è andata così, e le conseguenze possono essere gravi. Il presidente della repubblica ha delle responsabilità, che non vanno né minimizzate né esagerate. Uno psicologo direbbe che si è comportato da co-dipendente, autorizzando comportamenti patologici a fin di bene, come la madre che va ad acquistare droga per il figlio tossico, così non sarà lui a frequentare gli spacciatori. Però non è il presidente della repubblica che detiene il potere, e mentre l’opposizione savonaroliana ha ripreso subito a godere di sentirsi moralmente superiore a tutti quanti, Willie Sutton sta già preparando i suoi sostenitori ad accettare il fatto che rapinare una banca è solo una forma di prelievo rapido quando il bancomat non funziona.
E ci riuscirà, se non si capisce che le regole, se non della democrazia almeno della comunicazione della democrazia, sono ormai cambiate. In Italia il TG1 dice palesi falsità, sostenendo che l’avvocato Mills è stato assolto quando invece è stato condannato e prescritto, ma negli Stati Uniti una delle ragioni per cui Obama si sta disperando a far passare anche le riforme più elementari sta nella straordinaria, efficacissima campagna di disinformazione (o di vere e proprie falsità) che i media legati al grande capitale finanziario stanno orchestrando, e con successo, da più di un anno in qua. Le menzogne del TG1 sono più gravi perché vengono da una televisione di stato pagata con le tasse dei contribuenti, ma della calunnia conta l’effetto, non da dove viene.
In America è sotto attacco la verità, in Italia la democrazia, ma non fa differenza, una cosa non sussiste senza l’altra. Bisogna però rendersi conto che i tappi sono saltati, e che non ci possiamo più aspettare che “loro” giochino in modo leale, né da una parte dell’Atlantico né dall’altra. Non si tratta di odiare il nemico o di ribadire la propria superiorità. È tempo di agire con la freddezza del chirurgo che non odia il tumore, ma procede a rimuoverlo. Se in America Obama è costretto a comportarsi come se fosse all’opposizione, l’opposizione in Italia deve cominciare a comportarsi come se fosse il governo. Qualunque divisione, qualunque distinguo, qualunque altezzoso “io sono più santo di te” (I am holier than thou, come dicono gli americani) sarebbe solo un litigio tra poliziotti mentre Willie Sutton gli passa davanti con un cenno di saluto ed entra in banca, felice come una pasqua all’idea di svuotarla.
Alessandro Carrera dirige i programmi di Italian Studies e di World Cultures & Literatures alla University of Houston. L’articolo, gentilmente inviato dall’autore al Phenomenology Lab, è stato pubblicato su Europaquotidiano, il sito del quotidiano Europa, con il titolo Silvio e Sutton gemelli diversi.
Ho sempre pensato che fosse il potere a creare le regole.
Le regole sono un equilibrio tra forze. Se oggi B. non le rispetta o le confeziona a suo piacimento, è perchè non c’è alcun contropotere (cioè un altro potere) che lo possa contenere e dargli forma: la forma delle regole, appunto.
E poi le liste sono state riammesse o non riammesse a prescindere dal decreto.
Detto questo, ritengo interessante il punto di vista proposto: non l’odio, ma il freddo calcolo. Inutile aspettarsi lealtà dall’avversario. Altrettanto inutile ribadire la propria (supposta) superiorità morale.
E’ troppo chiedere “risultati” a chi gronda indignazione?
Giusto per rendermi ancora più antipatico: la vicenda delle liste doveva trovare una soluzione politica.
Se capisco bene il ragionamento (non semplice) di Alessandro, lui ci sta dicendo che l’assenza di scrupoli è un’arma potente, la cui natura è spesso ignorata o fraintesa da chi considera le regole o le norme come una componente essenziale del proprio mondo vissuto. Essendo per educazione e temperamento un moralista, devo confessare che in effetti la completa indifferenza rispetto ai principi e la conseguente assenza delle emozioni corrispondenti (in primis la vergogna) mi è sempre apparsa come uno dei fenomeni umani più stupefacenti. È difficile però dire quanto sia diffusa nelle nostre società. Viviamo infatti in un mondo che, almeno pubblicamente, ha elevato straordinariamente i propri standard etici e in cui la censura morale è sempre dietro l’angolo (pensiamo solo ai codici del politicamente corretto, che hanno esteso il principio del rispetto in ogni ganglio, anche il più nascosto, della nostra vita quotidiana). Un effetto prevedibile di questo (almeno apparente) sovraccarico morale è ovviamente la crescita a livelli inimmaginabili di una risorsa sociale diffusa in ogni epoca: l’ipocrisia. Bisogna essere infatti parecchio scaltri per muoversi con agio nel complicatissimo intrico delle norme implicite ed esplicite della nostra vita sociale, rispettando il delicato equilibrio tra ciò che di noi stessi bisogna velare o rivelare a seconda delle circostanze.
Forse Alessandro vuole ricordarci una cosa che spesso i moralisti trascurano, e cioè che una crescita esponenziale degli standard morali non crea solo un terreno fecondo per la moralità, ma anche per l’amoralità. In fondo, l’assenza di scrupoli e di autentici sentimenti morali è una enorme risorsa per chi deve esercitare la virtù primaria dell’amoralista: l’ipocrisia. Chi non provoca un pizzico d’invidia per quei leader nati che riescono a indignarsi quando la moral failure è del proprio nemico e alzare le spalle dicendo “non sono un santo” quando tocca a loro recitare la parte del reietto? E il tutto senza la minima dissonanza cognitiva o emotiva, anzi con l’ammirazione tacita o strillata di un pubblico di frustrati e/o risentiti.
Siamo tutti ossessionati da Berlusconi, al di là dei suoi meriti e demeriti. Ogni tanto mi viene da pensare che lui non sia altro che l’incarnazione brianzola dell’Übermensch nietzscheano. E un po’ mi viene da piangere, e un po’ mi viene da ridere. Non sono sicuro, però, che ciò che davvero ci serve sia la “freddezza del chirurgo” che rimuove il tumore. Quello che personalmente vorrei sono piuttosto il distacco e la forza d’animo che non ti fa distogliere lo sguardo dalle cose davvero importanti della vita e sottrae ai “superuomini” quell’aura da semidei che spesso è un prodotto delle nostre fantasie, fatiche e frustrazioni.
Leggendo il mio breve commento un amico mi ha accusato di moderatismo e di “avere paura della piazza” specie se “di sinistra”.
In effetti temo la “piazza degli onesti” contrapposta alla “piazza dei disonesti”. Quanto poi questa sia di sinistra lo lascio giudicare a chi legge.
Per inciso: in un’assemblea mi è capitato di essere giudicato “moderato”. Avevo appena finito di invocare la cancellazione del reato di clandestinità e di richiedere la cittadinanza per chiunque nasca sul suolo italiano (contro il vigente ius sanguinis). Pazienza.
Mi sembra che rimanere sul piano buoni Vs cattivi non possa produrre risultati. Sia chiaro: rivendicare correttezza, lealtà, rispetto delle regole, legittimità costituzionale, è cosa che va fatta.
Ma che vale rinfacciare a B. di essere un eversore? In tutta sincerità B. potrebbe tranquillamente rispondere: “Si, e allora?”. “TU non rispetti le regole, la Costituzione!” “no, infatti le voglio cambiare”.
Una volta che riconosciamo come eversiva l’azione di B., come (e perchè) la contrastiamo? Attraverso un inappuntabile e sdegnato richiamo alla morale?
La Costituzione è forse giusta in sè?
Fatta la diagnosi morale a B. e detto di lui tutto il male possibile, l’azione politica di contrasto si dovrebbe basare sul fatto che frequenta escort? Ma soprattutto: è per quello che va sostituito?
Con questo voglio dire che (noi che abbiamo a cuore questa fragile democrazia in perenne transizione) dovremmo smetterla di considerare B. solo come uno che ha preso il potere per regolare meglio gli affari suoi. Su questo potrei anche concordare. Tuttavia, attraverso gli affari suoi, si sta disegnando e realizzando un progetto politico, istituzionale ed economico ben preciso. Non un complotto piduista: un disegno ed un progetto politico.
È quello che un’opposizione dovrebbe contrastare e combattere con tutte le sue forze. Il problema è che l’opposizione non ha un “progetto Paese” alternativo altrettanto chiaro e con una altrettanto chiara maggioranza popolare.
La piazza di sabato da cosa era unita? Qual era il suo progetto politico, istituzionale ecc…? Fortunatamente l’intelligenza di qualche leader ha consentito di aggiungere temi: en passant, la crisi, il lavoro. Ma non son questi temi buoni da farci – non dico un programma, che pretenderei troppo – una campagna elettorale?
Ci siamo incartati invece sulla questione del decreto salvaliste (che, ripeto e mi scuso, non ne ha salvata nemmeno una). Il capolavoro, pensato dai Radicali (“coi bari non si gioca!”), sarebbe stato quello di ritirare le proprie liste…ahi!
L’affaire liste denunciava semmai l’alto grado di instabilità della maggioranza di governo e del suo maggior partito.
Io, modestamente, avrei lavorato su quell’instabilità e debolezza. Dicendomi disponibile ad una qualche soluzione politica prospettata dal Presidente della Repubblica.
In che senso sarebbe stato amorale?
Caro Gabriele,
mentre condivido lo spirito generale delle tue osservazioni, volte ad osservare come una morale intuitivamente (o convenzionalmente) condivisa non sia di per sé una base adeguata per criticare Mr. B., tuttavia non condivido due posizioni che prendi, una esplicita, l’altra implicita. Quella esplicita riguarda la ‘soluzione politica’ della questione liste. L’argomento di ‘Realpolitik’ per cui un’elezione in cui non compaia la lista del partito di maggioranza è in qualche modo un’elezione dimidiata, se non addirittura antidemocratica, mi sembra del tutto scorretta per una questione insieme formale e sostanziale: in una democrazia l’unico luogo deputato a decidere se un partito merita rappresentanza, se ha seguito, se è rappresentativo di istanze diffuse, ecc. è l’atto formale delle elezioni. I risultati delle precedenti elezioni o dei sondaggi, per quanto possano rappresentare una valida istanza predittiva del risultato a venire, non contano nulla e non devono contare nulla, visto che, in linea di principio, possono essere rovesciati o cancellati dall’appuntamento elettorale presente. Per quanto ne sappiamo in elezioni passate delle liste nuove (come quella di Forza Italia era qualche anno fa), magari con candidati carismatici e capaci, possono essere state cassate perché hanno presentato la loro lista un minuto dopo o con una firma in meno di quanto richiesto. La democrazia è un sistema che con l’astrattezza delle regole consente di annullare (in teoria) il peso della passata detenzione del potere, rimescolando ciclicamente le carte. Se cominciano ad avere cittadinanza argomenti di tipo ‘realista’, basati su come sono andate le cose nel passato, tanto vale tornare all’Ancient Regime.
In secondo luogo, le tue osservazioni che contrappongono argomenti morali ‘esterni’ ad argomenti sostanziali, più propriamente politici, pur essendo condivisibili nella sostanza, hanno un paio di limiti. In primo luogo, sembra di far finta di non vivere in Italia, dove gli argomenti sollevati dalle forze ora al governo sono perlopiù di natura retorica e personalistica, non strutturale. Non credo che nessuno abbia ultimamente vinto un’elezione proponendo una riforma costituzionale, mentre argomenti del tipo: B. è un grande imprenditore, dunque saprà mettere in piedi l’azienda Italia; oppure, B. è ricco di suo, dunque non ha bisogno di rubare; ecc. sono moneta corrente, determinante sul concretissimo piano degli esiti elettorali. Ciò mi dispiace, ma ciò non lo rende meno vero. In secondo luogo, la portata istituzionale delle iniziative dell’attuale governo è solo un effetto collaterale degli impulsi personalissimi di Mr. B., che non è interessato, per dire, al presidenzialismo in generale, ma, se possibile, a diventare presidente di una repubblica presidenziale qui ed ora, o la sua migliore approssimazione. E parimenti, non è interessato, evidentemente, ad una riforma della giustizia secondo una qualche modello istituzionalmente definibile, ma è interessato solo a quelle modifiche che mettono una pezza a possibili appannamenti della sua immagine (di più non credo rischi). Ed altrettanto, non è interessato ad una modifica al sistema del potere nei media, né in senso centralistico, né in senso liberista, ma vuole produrre quelle modifiche e solo quelle che consentono alla sua attuale posizione di uscirne rafforzata. Qui non c’è alcuna strategia generale. B. è un problema per il paese in quanto è la persona che è, non perché la sinistra ci si sia intestardita sopra: questa è una di quelle rare contingenze storiche in cui le persone sbagliate nel luogo e momento sbagliato sono tristemente determinanti. Il giorno in cui B. verrà pensionato il paese avrà risolto un solo problema, ma un grande problema, e ci si potrà finalmente render conto di aver camminato già da un bel po’ tra cumuli di macerie, passandoci accanto senza vederle.
Carissimo Andrea,
immagino i miei bis-nipoti intenti a studiare sui libri di storia la nostra epoca e a chiedersi increduli: “ma come è stato possibile?”.
Questa è l’epoca che ci è toccata in sorte, ma che abbiamo in parte determinato.
Ti ringrazio per le osservazioni. E ne aggiungo qualcuna.
Il punto non è criticare B., ma mandarlo a casa. Il suo pensionamento non è affatto prossimo: si delinea una Presidenza della Repubblica… a furor di popolo.
È chiaro che mi muovo su un terreno che non è quello della dottrina morale, ma della battaglia politica. Dove, normalmente, si sta al tavolo con i bari.
Venendo alle tue obiezioni. La prima è correttissima su un piano… formale (perdonami lo scherzo). Lo hanno spiegato bene i radicali: a Milano non possono presentare la propria lista, dove tuttavia hanno recentemente ottenuto un risultato di tutto rispetto. Chi dice che – avendo l’elettore la possibilità di votare per Cappato – non possano ulteriormente migliorare? Possiamo cancellare il diritto di migliaia di cittadini di votarli? Per questo penso che rimandare le elezioni e permettere a tutti di regolarizzare le liste sarebbe stata la soluzione migliore.
In fin dei conti si è accertato che il meccanismo di raccolta delle firme non funziona – quando addirittura non innesca comportamenti in frode alla legge.
Sulla seconda obiezione.
Una coalizione o uno schieramento sta insieme se ha obiettivi condivisi in maniera sufficientemente salda. Se questi obiettivi sono percepiti come importanti per chi deve votare e scegliere da chi farsi governare. Essere antiberlusconiani e basta non è più sufficente: nè per tenere insieme le forze di uno schieramento, nè per convincere gli elettori.
Essere antiberlusconiani attribuisce tuttavia una cospicua rendita di posizione a chi non si pone nell’ottica di governare.
Ma la vera divergenza rispetto alle tue obiezioni sta in un altro punto.
Quello che sta accadendo all’Italia, alle sue istituzioni, all’economia, non è derubricabile a “effetto collaterale”.
Qui non mi baso sulle “intenzioni” di B., ma sugli effetti delle sue azioni. Che sono in parte erratiche (come direbbe un economista: cioè non spiegabili attraverso una qualche variabile).
Ma sono funzionali a pezzi del sistema economico e sociale. Cito i condoni – eretti ormai a sistema – e la riforma del mercato del lavoro. Li cito non a caso, perchè su questi due temi chi sta navigando a vista è il centrosinistra, non il centrodestra.
In ogni caso: anche se fosse derubricabile a effetto collaterale, dovremmo comunque prendere atto che via B. non è che tutto tornerà come prima. Perchè tutto (molto) è cambiato. E bisogna essere attrezzati.
Cari amici, perdonate se sorvolo sui numerosi e interessanti spunti di questa discussione per fare solo un’osservazione: perché mai si pone come domanda retorica, che cioè aspetta un’ovvia risposta negativa, la questione: la nostra costituzione è giusta in sè?
Naturalmente parliamo della prima parte, quella dei principi, diciamo così, ispiratori, che ha uno status anche giuridicamente ben definito (non può essere modificata, come ha fatto notare Rodotà, che ci ha invitato ad aggiungere questo punto nel nostro appello in sua difesa (in difesa di questi principi, appunto)).
Ora se è di questi principi che parliamo, propongo che “giusto in sé” voglia dire: oggettivamente giusto, vale a dire non giusto per te o per me, ma riconoscibile come giusto da parte ogni persona ragionevole.
Prendiamo ad esempio la prima parte dell’art. 3.
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”
Naturalmente questo enunciato deve essere inteso come un enunciato normativo, e non come enunciato empiricamente o fattualmente vero: perché come tale, è attualmente falso.
“Come un enunciato normativo” vuol dire che dobbiamo leggerlo a questo modo:
“Tutti i cittadini debbono essere trattati come esseri dotati di pari dignità sociale, e quindi come eguali di fronte alla legge senza distinzioni etc.”
Questo è del resto ciò che anche più chiaramente mette in luce il PRIMO articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948):
“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.”
In DIGNITA’ infatti significa: che sono degni di, cioè che debbono essere trattati come, eccetera.
Ora la questione è: cosa significa per un enunciato normativo essere oggettivamente giusto?
Naturalmente, le risposte che si danno dipenderanno dalle filosofie morali che si adottano. Ora la PRIMA TESI che voglio proporre alla vostra attenzione è:
Non è assolutamente ovvio che un enunciato normativo NON possa essere oggettivamente giusto: al contrario, per sostenerlo bisogna adottare uno dei modi dello scetticismo pratico (assiologico, morale, normativo), in una qualunque delle forme che sono state dominanti nel Novecento: soggettivismi, relativismi, pensieri tragico-destinali, nichilismi, volontarismi, decisionismi,eccetera).
Benché maggioritarie, alcune di loro maggioritarie perfino fra i progressisti italiani (vedi Diego Marconi, Per la verità – Sul relativismo morale, Einaudi 2007), non sono queste le sole posizioni, né certamente le più vive sul piano della ricerca, del dibattito internazionale, della produzione filosofica. Ricerca, dibattito etc. che oggi nessuna persona ragionante che sia o non sia politicamente impegnata può ignorare.
In particolare (molto in particolare, perché c’è molto altro), esistono almeno due posizioni che argomentano in favore della tesi che alcuni enunciati normativi (quelli cioè che abbiano i requisiti per esserlo) sono, o non sono, oggettivamente giusti. La prima intende questa oggettività nel senso di una universale riconoscibilità in base a ragioni di coerenza, e sviluppa sostanzialmente il principio kantiano di universalizzabilità come fonte di normatività valida.
La seconda intende invece questa oggettività nel senso più diretto che l’enunciato:
“Riconoscere a ogni cittadino eguale dignità di fronte alla legge è giusto”
è un enunciato dotato di condizioni di verità, cioè vero o falso, e inoltre l’affermazione che sia vero (o falso) è giustificabile, dunque questa verità (o falsità) è conoscibile (Conoscenza = opinione vera giustificata).
Date queste premesse, vi propongo la mia SECONDA TESI:
E’ GIUSTO RICONOSCERE A OGNI CITTADINO EGUALE DIGNITA’ DI FRONTE ALLA LEGGE.
Mi impegno ad argomentare a favore della verità di questa tesi (vale a dire, della proposizione espressa dall’enunciato in questione), non appena riceverò argomenti che siano invece tesi a dimostrare il contrario.
In conclusione però, e anche per esplicitare meglio il senso di questa riconduzione del problema della validità a una questione di verità e di conoscenza, pongo un’alternativa interrogativa:
DELLE DUE L’UNA.
O I PRINCIPI DELLA PRIMA PARTE DELLA NOSTRA COSTITUZIONE, SE NON OGGETTIVAMENTE GIUSTI IN TUTTO E PER TUTTO, SONO QUANTO DI MEGLIO SI SIA FINORA POTUTO TROVARE PER ESPRIMERE E STABILIRE A FONDAMENTO DELLA LEGISLAZIONE I PRINCIPI DI UNA SOCIETA’ GIUSTA, E QUESTA E’ LA RAGIONE PER OPPORSI CON TUTTI I MEZZI LEGALI E POLITICI ALLA VIOLAZIONE DI TUTTI I PRINCIPI E SOPRATTUTTO ALLA LORO MODIFICAZIONE;
OPPURE QUESTI PRINCIPI NON SONO AFFATTO OGGETTIVAMENTE GIUSTI, MA GIUSTI PER ME E NON PER TE, PER A E NON PER B, E ALLORA NON C’E’ NESSUNA RAGIONE PER OPPORSI ALLA LORO VIOLAZIONE, NE’ TANTO MENO ALLA LORO MODIFICAZIONE. CI SONO SOLO OPINIONI INFONDATE E FORZE IN GIOCO, E NON SI VEDE PERCHE’ MAI IL Più FORTE NON DOVREBBE IMPORRE A TUTTI LA SUA OPINIONE.
Spero di essere stata chiara, e magari attendo qualche risposta….
Sono sostanzialmente d’accordo con le osservazioni di Roberta De Monticelli, anche se credo che la domanda retorica di Gabriele, se la Costituzione sia giusta in sé, sottintendesse non una posizione relativistica, bensì l’idea che il fatto stesso che essa sia la nostra costituzione di per sé non la rende sacra ed inviolabile. Almeno così io ho inteso la frase. Intesa in questi termini, c’è indubbiamente il rischio di intendere le leggi ordinarie ed anche quella norma fondamentale che è la costituzione, solo attraverso strategie di ‘exit’ e non di ‘voice’, cioè: siccome sei nato in Italia, o accetti la costituzione oppure non ci sono margini per discuterla (voice), ma sei libero di esprimere il tuo dissenso andandotene (exit). In questo senso specifico ritengo legittimo anche discutere della costituzione, e non ritengo che sia ovvio che la costituzione sia di per sé giusta. Tuttavia, se andiamo ai contenuti effettivi della NOSTRA costituzione, li condivido tutti ad uno ad uno, con l’unica riserva che in taluni casi le implicazioni sono poco chiare (come peraltro c’è da aspettarsi in una norma di massima generalità).
Quanto all’impostazione circa la natura obiettivamente giusta, ingiusta o meramente soggettivo-relativa di una norma, io credo sia necessario introdurre anche una variabile storica: STANTI LE CONCLUSIONI OPERATIVE CHE NEL CONTESTO STORICO X SI DERIVANO DALLA NORMA, essa è giusta o ingiusta. (Per gli addetti ai lavori: questa è una posizione consequenzialista, ma non utilitarista). L’indecidibilità eventuale circa la natura di una norma non è attribuibile esclusivamente a relatività soggettiva, ma può anche derivare dall’impossibilità (magari provvisoria) di giungerne ad un’interpretazione contestuale intersoggettivamente validata ed univocamente determinata.
Il senso della domanda retorica lo ha chiarito Andrea. Era formulata con intento polemico e in modo impreciso.
Sono chiaramente d’accordo sulla necessità di difendere i principi costituzionali, che “SONO QUANTO DI MEGLIO SI SIA FINORA POTUTO TROVARE PER ESPRIMERE E STABILIRE A FONDAMENTO DELLA LEGISLAZIONE I PRINCIPI DI UNA SOCIETA’ GIUSTA”.
La mia preoccupazione e i miei sforzi sono diretti a rendere operanti questi principi, cioè a renderli diritto vivente.
Sono molto affezionato all’art.3 ed in particolare al secondo comma, quello che IMPEGNA la Repubblica a RIMUOVERE GLI OSTACOLI che limitano di fatto il pieno sviluppo della persona umana e l’EFFETTIVA PARTECIPAZIONE DI TUTTI I LAVORATORI all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Questo secondo comma aggiunge al primo l’esigenza di rendere EFFETTIVA una eguaglianza altrimenti solo formale (tipica delle costituzioni liberali).
Così come sono grato ai costituenti per aver scritto nell’art.4 che la Repubblica PROMUOVE le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro di tutti i cittadini.
Non sono “soltanto” enunciazioni di principio, ma precisi obblighi imposti alle istituzioni e criteri guida, orientativi, per il legislatore.
Cosa succede quando una parte politica decide di non riconoscersi in quei principi e li vuol modificare?
Prendiamo ad esempio l’art.1. Il LAVORO è fondamento della Repubblica. Non è una questione confinata nei rapporti economici: è un valore fondativo. Si riconosce al lavoro non solo un valore sociale, ma qualcosa di più, di qualitativamente diverso. Nè l’impresa, nè la proprietà privata, nè la libertà sono a fondamento della Repubblica, ma il lavoro.
Ora, il lavoro è “un valore riconoscibile come giusto da parte di ogni persona ragionevole”? ed in particolare, più giusto della libertà?
Non è che il costituente, ponendo il lavoro al di sopra e prima di tutto, ha compiuto una precisa scelta politica?
Scelta – sia detto per inciso – che condivido e che mi batterò perchè sia confermata ed attuata.
Solo una rapida considerazione. Penso di condividere il senso generale del ragionamento di Roberta: non esistono motivi filosoficamente convincenti per attribuire a priori ai giudizi normativi una sorta di status di extraterritorialità in materia di argomentabilità razionale. Il mio dubbio è un altro e sorge da un retroterra latamente arendtiano. Anche posto che si condivida il giudizio sulla correttezza di una norma – in questo caso una norma di cornice, costituzionale – quanto spazio comunque resta e, più in particolare, quanto spazio irriducibile resta per il conflitto politico? Personalmente credo che, se conveniamo (pur senza trionfalismi) sul fatto che il riconoscimento e il rispetto della pluralità umana (anche di una fastidiosa pluralità) sia la condizione inaggirabile per l’esistenza di uno spazio pubblico vitale, il conflitto tra le interpretazioni circa il senso, le conseguenze, i presupposti, le priorità, ecc. di un giudizio di valore condivisibile sarà comunque rilevante e richiederà l’esercizio anche di altre forme di razionalità pratica, magari meno “nobili” di quella stricto sensu morale o giuridica. È sufficiente pensare al modo in cui si è politicamente tradotta nel corso della storia l’idea (giusta!) dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Quali sono le condizioni minime per sentirsi davvero uguali di fronte alla legge? Quando la legge assume uno stato di legittimità tale che la mia preoccupazione primaria diventa l’uguaglianza di fronte a essa e non invece la sua origine o il suo contenuto? Quanto contano la qualità, i tempi e le modalità della sua amministrazione nel mio giudizio sul rispetto del principio di uguaglianza?
Personalmente non credo che una ragionevole dose di realismo politico sia incompatibile con una visione non scettica della normatività morale. In fondo, le democrazie liberali moderne non rappresentano (anche) una soluzione geniale (e imperfetta!) per conciliare aspetti della nostra vita che, pur essendo in tensione tra loro, sono nondimeno parimenti irrinunciabili?
Una osservazione lampo di passaggio. L’intervento, bello, di Carrera e le osservazioni di Gabriele hanno una loro validità, ma c’è qualcosa che non mi convince del tutto. Non vorrei che si finisse con il diventare più realisti del Re. Se accettiamo l’idea potmoderna che bisogna essere spregiudicati e senza regole, in nome di cosa si può poi criticare il TG1 di Minzolini? Ogni critica non rischierebbe forse di venir censurata come moralistica dal governo del fare? Forse allora ha un senso riallacciarsi al discorso di De Monticelli, in quanto senza far riferimento al rispetto dei principali diritti costituzionali ormai non c’è più la possibilità di resistere o di alzare la mano nemmeno per fare una domanda critica. Altro è il discorso sollevato da Carrera sul ruolo dei mass media e sul fatto che la loro militarizzazione ha oggi cambiato le famose regole del gioco. Ma mi chiedo: come mai una intera classe di politici progressisti ha sottovalutato nei decenni passati il problema, magari pensando che tanto i mass media sono solo una sovrastruttura? Perché ha ritenuto che fossero molto più importanti altri problemi? Quali erano le priorità nelle agende degli ultimi governi di centrosinistra? Il dubbio è che il problema non sia tanto la mancanza di spregiudicatezza, ma di una alternativa credibile, qualcosa di così profondo da essere paragonabile a un disorientamento, a una vacuità culturale che magari, essa sì, finisce con il reggersi, in mancanza di meglio, sulla politica dell’odio e della supposta superiorità morale sull’avversario.
Riporto un breve passo del commento che Giacomo Costa, Professore ordinario di Economia politica all’Università di Pisa, ha lasciato su questo stesso blog lo scorso Natale nel sottoscrivere l’Appello in difesa della Costituzione pubblicato sul Phenomenology Lab. « (…) La lealtà costituzionale non si può imporre. Dovrebbe essere presupposta, nel senso che tutti dovrebbero richiederla ai loro rappresentanti al Parlamento. Dovrebbe essere un valore tacitamente condiviso. (…) ». Il passò mi colpì, nella sua semplice evidenza. Perché mostrava il varco irrimediabile attraverso cui non soltanto le forze storiche ma il diritto stesso nelle sue contingenti “interpretazioni” possano plasmare nuove forme di convivenza civile, più o meno adeguate alle nostre richieste etiche, certo, ma non per questo politicamente illegittime. Per esempio: che genere di richiesta è racchiusa in una norma come quella dell’art. 3 della Costituzione citato da Roberta? Dobbiamo considerarla dello stesso tipo o di un genere diverso rispetto alla seconda parte dell’art. 1 citato e interpretato, con riferimento ad altri passi della Carta, da Gabriele? E ancora: in che rapporto sta la prima con i vincoli che la legge elettorale sancisce, per tornare alla cronaca delle ultime settimane, in merito alla presentazione delle liste elettorali? E chi richiede a chi, in questi casi, e in forza di che cosa? Non esistono richieste, questo Husserl lo spiega bene nelle lezioni sull’etica del 1908-1914, la cui negazione ci precipiti in una contraddizione formale. Se “A è b” è un enunciato vero, la sua negazione, è necessariamente falsa, almeno nello stesso tempo e sotto il medesimo riguardo. E questo indipendentemente dalla materia sulla quale il giudizio verte. Diversamente, la verità dell’enunciato “A deve essere b” non implica necessariamente la falsità della sua negazione. Tertium datur, in questo caso, perché il dover essere b di A non intende uno stato di cose (come l’essere b di A) bensì la preferenza più o meno condizionata per uno stato di cose possibile, al quale però potrei anche essere, oltre che contrario, indifferente. Posso preferire, anche incondizionatamente, che gli uomini siano tutti uguali dinanzi alla legge. Ma posso anche, in certe circostanze, preferire il contrario, per esempio se sono convinto che la legge o la sua applicazione siano, al momento, inique. Oppure, posso non inclinare per nessuna delle due ipotesi, quanto meno finché la cosa non riguardi me. E al limite preferire, nel caso riguardi me, che la legge sia iniqua, purché a mio vantaggio. Questo non significa che le diverse massime sottese alle prese di posizione appena descritte siano eticamente equivalenti, ovvero, abbiano lo stesso possibile grado di evidenza di giustizia; e neppure che il valore di giustizia di una richiesta vada interamente relativizzato ai modi soggettivo-relativi in cui essa viene avanzata o ricevuta. Ci dice, però, che la questione di che cosa sia sentito come dovuto da chi la riceve, oltre che da chi la formula, è implicito nel definire forma e condizioni di verità dell’enunciato: “è giusto che tutti gli uomini siano uguali dinanzi alla legge”. Per fare un esempio tratto dall’ambito cui ha fatto riferimento Gabriele: “A far parti uguali tra diversi si commette ingiustizia”; quante volte ho sentito questa massima, per esempio, da esimi giuslavoristi. E non intende forse essa fare eccezione all’idea che il lavoro debba necessariamente essere promosso e garantito a tutti gli individui nelle stesse forme? In forza di che, quindi, io posso pretendere da qualcuno il rispetto dei principi della Costituzione Italiana? In forza esclusivamente dell’universalità etica dei principi stessi? O anche e talvolta soprattutto delle regole e dell’azione dei corpi sociali, politici e istituzionali orientati a farli rispettare dirimendo i punti d’attrito, componendo gli scarti interpretativi, ma anche ridefinendo di continuo e sanzionando quando necessario (per via giudiziaria, politica, morale…) i limiti oltre i quali l’azione politica non leale, tacitamente tollerata, va considerata eversiva. Per fare un altro esempio storico: si vieta, nella Carta e nelle sue successive integrazioni legislative (legge Scelba), non l’essere fascisti, ché altrimenti violeremmo il principio costituzionale di libertà di pensiero ed espressione, bensì (un po’ meno problematicamente) l’apologia del fascismo e la ricostituzione del partito fascista (in deroga all’articolo 48 della Costituzione). Alla fine, comunque, nella prassi politica e giudiziaria, si costituzionalizza via via il Movimento Sociale Italiano, intendendolo in fondo come il male minore, benché la fiamma tricolore del suo simbolo sorga ostentatamente dalla bara di Mussolini. Nessuno scandalo, quindi, all’idea di una soluzione politica al problema delle liste. Ma quale? La realtà è che fin dall’inizio chi ha violato la legge, anziché ammettere l’errore e chiedere umilmente e responsabilmente una soluzione politica, ha accusato le controparti (mentendo) di aver congiurato. Inoltre, s’è rifiutato di prendere in qualunque modo in considerazione l’ipotesi di rinviare le elezioni a causa dei propri errori. E questo perché la sua è una forza costituzionalmente sleale fino all’eversione, se soltanto ne avesse intera la capacità. In questo caso, allora, io credo che qualunque soluzione politica sarebbe stata un errore. E non perché non si possa in certi momenti e sotto certe condizioni derogare al principio dell’uguaglianza dinanzi alla legge. Ma perché si sarebbe concesso, determinando un ennesimo pericoloso precedente, uno spazio di gioco politico che, se può essere concesso a una controparte costituzionalmente non leale ma innocua, va invece negato a una forza eversiva in linea di principio e di fatto. Una decisione tutta politica, quindi, non etica. “Con i bari non si gioca” ha ragione Emma Bonino. Ma è ovvio: se si può. Altrimenti si gioca, ma li si marca stretti. Approfittando di ogni occasione per mostrare a pubblico e giuria che ok, la partita può persino convenire vada avanti, ma questi barano e sia il banco sia i giocatori saranno in pericolo finché non li avranno indotti a cedere il posto ad altri.
Difficile dare torto a Stefano che, dal mio punto di vista, ha ben chiarito perché l’indignazione non possa e non debba essere l’unica risposta alla slealtà costituzionale dei propri avversari politici. Le carte costituzionali, in fondo, valgono proprio perché (e se) rendono possibile una vita politica genuinamente democratica. Non credo di dover ricordare a nessuno che sono esistiti nella storia recente regimi tirannici che avevano delle costituzioni idealmente inoppugnabili.
Vorrei solo aggiungere un’altra considerazione a quelle proposte da Stefano. Riflettiamo per un attimo sul concetto di lavoro: chi con tutta sincerità può sostenere che quando menzioniamo il “lavoro” abbiamo in mente tutti la stessa cosa? Personalmente, quando penso che un corpo politico dovrebbe essere fondato sul lavoro mi vengono in mente cose come l’autodisciplina, l’impegno personale, la serietà, la fatica, l’iniziativa, il coraggio, non di certo la monotonia, il bisogno nudo e crudo e nemmeno – per quel che mi riguarda – un’astrazione sociologica come la classe operaia. È ovvio che ciò verso cui non sono normativamente indifferente è l’idea che nella nostra società dovrebbero essere valorizzate virtù come l’operosità anziché l’indolenza, l’iniziativa anziché la rendita passiva, un senso chiaro del “peso” della realtà anziché la frivolezza. Ma mi rendo facilmente conto che questa opinione reclama un (consistente) sovrappiù di argomentazione e di lotta politica e difficilmente potrà realizzarsi SENZA RESTI in un unico e compiuto modello di società.
Se ho capito bene quello che Stefano intendeva dire, anch’io avverto con forza il bisogno di esercitare l’arte liberale della distinzione e tracciare una qualche forma di confine tra il legittimo dissenso sull’interpretazione dei principi, la slealtà costituzionale e la vera e propria eversione delle regole fondative del gioco politico. In questo interminabile esercizio di distinzione mi sembra che stia tutta la fatica e persino la natura frustrante della politica in una democrazia liberale. Non nego che sia spesso un lavoro ingrato, se non un vero e proprio lavoro di Sisifo. Voglio però ricordare che se c’era una cosa che risultava insopportabile a critici reazionari delle democrazie liberali come Carl Schmitt era proprio il carattere imperfetto e anche francamente un po’ abborracciato della legittimità democratica. Caratteristica a cui io, invece, non rinuncerei affatto. Non dimentichiamoci che l’ideale del “bilanciamento” dei poteri non equivale a un equilibrio statico perfetto, ma – per l’appunto – a un lavoro e a un impegno interminabile di controllo dell’esercizio della sovranità. Questo almeno è quello che capisco io quando, a mio avviso giustamente, si descrivono le democrazie liberali come dei “governi misti”. Poi, a nessuno sfugge come nella nostra cara “Terra dei cachi” il “misto” si trasformi frequentemente in “bordello”, ma questo è il paese con cui abbiamo a che fare e non possiamo inventarcene un altro a piacimento. Almeno credo.
Cari amici, scusatemi se sterzo bruscamente su di un piano terra terra. Sappiamo tutti che oggi nel parlamento italiano i principi costituzionali non sono condivisi dalla maggioranza. Non si tratta di un problema di slealtà o meno: è in atto un politicissimo e legittimo braccio di ferro per modificarli. Ritengo tuttavia che sia della massima importanza opporsi a questa modifica, perchè per quanto antiquati, imperfetti, limitati, relativi e discutibili la prospettiva è quella di formalizzare e registrare un drastico restringimento, già avvenuto, degli spazi di democrazia. Non si tratta di fare un dibattito teorico sui limiti e sul valore astratto della costituzione, ma di prendere atto che oggi la difesa dei principi costituzionali rappresenta forse l’ultimo freno nei confronti di una pericolosa deriva populista. Per far questo a mio modestissimo avviso sarebbe necessario cercare un dialogo con tutte le forze politiche disponibili e con una particolare attenzione al mondo cattolico.
Personalmente poi difenderei i principi costituzionali anche per altri motivi, in quanto non credo che il diritto sia mitologicamente stabilito dalla decisione del più forte, ma piuttosto dalle dinamiche di funzionamento di una società, conformandosi sempre, sul lungo termine, all’autopoiesis sociale (in pratica al conservatore Schmitt preferisco il “conservatore” Luhmann), ritengo anche che (con tutto il rispetto per la liquidità postmoderna) non si possa neppure prescindere dal rispetto per i diritti della persona e delle minoranze. Ma questo livello della discussione passa ora, forse, in secondo piano.
Il risultato delle regole falsate della democrazia:
http://video.unita.it/media/Politica/Francesca_Fornario_infiltrata_nella_piazza_del_Pdl_989.html
Permettetemi oggi un commento più generale che puntuale. Ho imparato, sto imparando molto da questa discussione. L’intervento di Carrera che l’ha aperto ci offre un esempio limpido che può essere usato a sostegno della necessità di distinguere fra dar ragione come dar spiegazione e dar ragione come dar giustificazione – distinzione su cui si basa uno dei costoloni portanti del pensiero di Husserl, in particolare del suo lavorare a una rifondazione del pensiero pratico capace di ricondurre la giustificazione di una norma alla verità (riconoscibile) di un giudizio di valore, e dunque di ricondurre la presenza o no di una “coscienza normativa” (in particolare di un senso morale) nell’agente alla sua (dell’agente) relazione al vero (vale a dire, alla conoscenza o ricerca del vero, in qualunque ambito, in particolare assiologico). E dunque di nuovo di ricondurre l’esercizio della ragione teorica, della disposizione a dar ragione, a una disponibilità o a una sua assenza, vale a dire a un abito del volere. Il rapinatore di banche non intende affatto, anche se lo potrebbe, riconoscere che il furto degli altrui risparmi è un male, e naturalmente nessuno può costringerlo a farlo, anche se il diritto penale esiste per impedirgli legittimamente o sanzionare il comportamento che consegue questo rifiuto. Questo è l'”intreccio” di logica ed etica: l’esercizio “come si deve”, secondo norme di adeguatezza cognitiva, della ragione, è una questione di buona volontà, vale a dire è libero. Praticamente irrazionale è non riconoscere la pretesa di giustezza che è orizzonte intenzionale dell’agire (e il dire con la sua pretesa di verità è un modo dell’agire, è il fare cose con parole). Ma si tratta di una irrazionalità “materiale”, non formale. Non c’è niente di contraddittorio in questa irrazionalità, ma tutto di inadeguato (alla realtà, cioè ai suoi aspetti assiologici, cioè alle esigenze che ci pone).
Come giustamente ci ricorda Giacomo Costa, non si può imporre a nessuno lealtà ai valori fondanti della Costituzione, quand’anche li si riconoscessero fondati su giudizi di valore approssimati al vero per quanto riguarda la questione di quale sia una società giusta. Come ci ricorda giustamente Stefano Cardini, Husserl ci mostra che non esistono richieste la cui negazione ci precipiti in una contraddizione formale. Questa è precisamente la principale obiezione a Kant, al tentativo di ridurre l’etica materiale all’etica formale.
Ma se gli uomini tutti vivessero già conformemente alla ragione pratica, quindi husserlianamente alla disponibilità a rispondere adeguatamente alle esigenze poste dalle cose (risposta di cui l’impegno cognitivo è solo una specificazione), allora non ci sarebbe bisogno, nelle società umane, né dell’istituzione del diritto né tanto meno della politica.
A me pare però che una cosa tutta diversa dall’utopia che il filosofo possa direttamente convincere il rapinatore di banca a dotarsi di un senso morale emerga dal grande, ambizioso e incompiuto torso husserliano. E questa è che la ragione pratica non “esiste” affatto da qualche parte, ma la stiamo in ogni luogo e in ogni momento costruendo o distruggendo noi.
In particolare la ragione pratica non è una facoltà mentale, non più di quanto lo sia la ragione teorica: entrambe sono disponibilità ad atti “giusti” (richtig, recti), vale a dire (a differenza dei sogni o dei processi digestivi) soggetti alla domanda “con che diritto?” – la quale in molti casi può specificarsi nella domanda “con che titolo, con quale autorità?” – coprendo così tutti i casi ventilati da Stefano. Cioè soggetti alla domanda di giustificazione (RECHTfertigung). Una simile disponibilità non può darsi se non fondata su determinate disposizioni (queste sì studiabili dalla psicologia, cognitive e comportamentali) – ma non è essa stessa una disposizione, semplicemente.
La ragione pratica non esiste che come telos, vale a dire come ciò che è da costruire o incarnare: in particolare e per eccellenza nelle forme istituzionali del diritto e della politica (su questa tesi vertono tutti i saggi de L’idea di Europa, le conferenze per la rivista Kaizo del ’24). Da questo punto di vista Husserl ripropone l’idea kantiana della filosofia come voce della “ragione pubblica”, e condivide la prospettiva illuministica su cui sputavano invece quasi tutti i filosofi suoi contemporanei. Ma la grande novità sta nel modo in cui questo telos può essere realizzato (all’infinito) a partire dal rigetto del “grande divide” humeano e kantiano di is e ought, che sorregge in definitiva tutto il positivismo giuridico e il realismo politico del Novecento. Perché un telos (se dio vuole) non è una legge di natura: non esistono Leggi di natura come norme, e non si ricade nell’alternativa giusnaturalistica, per poco senso che abbia ormai questa parola che ne ha troppi. Siamo chiamati all’esercizio di ragione, nei modi della libera discussione che fin dall’inizio contraddistingue, in Grecia, il suo esercizio socratico. In questo senso possiamo infine dire – ma solo in questo senso – “veritas, non auctoritas, facit legem”. La verità – punto “disposto all’infinito” del telos che tutti li comprende, o più semplicemente obiettivo di ogni ricerca.
La fondamentalità di questo telos nella costruzione umana della ragione (che non è una tantum ma immer wieder, al presente, di generazione in generazione), e della sua prima ossatura, il linguaggio (le sue risorse concettuali, l’habitus di responsabilità nel suo uso, la perspicuità delle sue strutture logiche ) fa sì che la menzogna, la menzogna pubblica in particolare, la menzogna operata da chi è nell’esercizio legittimo del potere, sia la colpa etica per eccellenza e il veleno mortale delle società umane. In questo Husserl è d’accordo con Kant. (Ma anche con Rosmini, sorprendentemente. Se ne fosse accorto il papa, a proposito dell’istituzione del segreto pontificio, questo verminaio d’orrore). Ma a proposito di menzogna pubblica alla lunga distruttrice di linguaggio e di coscienza: l’avete visto il terrificante video messo qui da Elena Tebano? Chi distinguerà più la brutale ignoranza dalla malafede inconsapevole nel linguaggio dell’italiano medio che quel video riprende?
E in questo senso la ragione non esiste che nel suo esercizio, e non comincia che discutendo. È l’esercizio del resto che mi pare stiamo tutti praticando, sia quando firmiamo un appello – un appello ragionato a non smontare un pezzo istituito di ragione pratica, non a imporre alla libertà di tizio o caio un’esigenza, ma eventualmente a richiamare l’uomo politico al rispetto del patto che ha firmato quando si è reso eleggibile – sia quando commentiamo i pensieri degli altri…. E troppo numerosi di buoni ne ho tralasciati!
Se posso fare una chiosa all’intervento di Roberta, che basta a se stesso come ogni argomento convincente, mi verrebbe spontaneo osservare che l’idea “che la ragione pratica non ‘esiste’ affatto da qualche parte, ma la stiamo in ogni luogo e in ogni momento costruendo o distruggendo noi” è la vera sfida per la riflessione filosofica contemporanea. L’obiettivo ultimo è pensare coerentemente una razionalità che – per usare il linguaggio di Bernard Williams – non sia né puramente “esterna” né puramente “interna” alla vita psichica dell’individuo. Personalmente a me piace molto l’immagine dello spazio delle ragioni come luogo a geometrie variabili, in cui l’accesso e l’esplorazione individuale sono allo stesso tempo la condizione e la garanzia della sua esistenza e qualità: una dimensione dell’esperienza indipendente eppure relativa al soggetto. In questo senso, è pertinente l’idea del filosofo come custode (non retribuito) di questo spazio immaginato, ma non immaginario. O forse sarebbe più corretto attribuire tale compito di custodia non tanto agli individui in carne e ossa, quanto alla pratica dell’argomentazione onesta e appassionata che rimane pur sempre uno dei migliori antidoti alla demagogia e alla barbarie. In effetti, come ha scritto Roberta, è compito di ciascuno di noi, nel suo piccolo e in ogni luogo (compreso questo blog!), preservarla e rinnovarla. Questo è ciò che mi viene anzitutto in mente quando penso alla responsabilità intellettuale (che non è solo la responsabilità degli intellettuali).
Adesso ho visto il video…
Sono sempre più convinto che l’unico modo di salvare la democrazia sia abolire il popolo…
Dieci anni fa il mio professore di Diritto Internazionale ci chiese cosa pensavamo della par condicio, se poteva davvero garantire il pluralismo delle posizioni politiche. A me venne una risposta un po’ impulsiva, ma che condivido ancora: se bisogna arrivare a una regola formale, è già troppo tardi. Dovrebbero esserci anticorpi informali – ad esempio la deontologia dei giornalisti.
Alessandro Carrera l’ha detto in modo molto più elegante e preciso: “Bisogna però rendersi conto che i tappi sono saltati, e che non ci possiamo più aspettare che ‘loro’ giochino in modo leale, né da una parte dell’Atlantico né dall’altra”.
In Italia ormai non c’è più spazio pubblico. E’ stato spazzato via dallo strapotere mediatico del premier. Dalla colonizzazione dell’informazione da parte degli interessi particolari. Dalla mancanza di etica professionale da parte dei suoi attori. Dalla lontananza delle classi dirigenti dalle esigenze delle masse (il “popolo da abolire”). Senza spazio pubblico – aveva ragione la Arendt – non c’è libertà né democrazia, tanto meno discorso razionale.
Per questo Berlusconi può presentarsi a vincere le elezioni con un messaggio a-politico “l’amore vince sull’odio e sull’invidia”, che non ha nessun significato reale e se lo ha è esattamente il contrario di quello testuale (l’amore per me mi fa fregare tutti).
È fondamentale ricreare lo spazio pubblico – e questo si fa tra l’altro, come ha spiegato benissimo Roberta De Monticelli, con l’uso costante e reiterato della ragione pratica. Ma non basta farlo a livello di classe dirigente, né solo tra intellettuali, perché non c’è osmosi culturale con il resto della società. Si è spezzata da tempo.
Per me il problema principale è come ricreare un’opinione pubblica funzionante, in cui ci sia spazio per l’autenticità – in un momento storico in cui i tappi sono saltati. È a questo che bisogna lavorare. A tutti i livelli della società. Cercando linguaggi e contesti per parlare alla “massa”.
Perché se chi va a una manifestazione politica non ha ragioni politiche da sostenere (vedi il video); se il premier chiama i garanti del pluralismo per sopprimere il pluralismo e tutto quello di cui si discute è se questo costituisca reato oppure no (http://spoliticablog.blogspot.com/2010/03/lagcom-non-e-il-bar-sport.html), se nessuno racconta che la Corte costituzionale sta deliberando sulla violazione del principio di uguaglianza tra cittadini (http://www.ivanscalfarotto.it/?p=5259)- se tutto questo succede vuol dire che in Italia lo spazio pubblico è scomparso. E con esso la pre-condizione della democrazia.
Come la ricostruiamo?
Personalmente condivido l’aspirazione di Elena a “ricreare un’opinione pubblica funzionante”, ma le vorrei ricordare quello che cerco sempre di ricordare a me stesso e che ho imparato leggendo Habermas e Arendt. L’ideale di una sfera o spazio pubblico funzionante ha come sua precondizione (non so se necessaria, ma storicamente è andata sempre così) l’accesso selettivo, ed è per questo motivo che esiste una tensione profonda tra la tradizione politica repubblicana e quella democratica, universalista. Interpreto in questo senso la battuta (ai miei occhi un po’ infelice) di Andrea. Nella storia pluricentenaria della sinistra la tradizionale tensione tra élite e popolo ha prodotto degli ibridi quantomeno problematici come la teoria delle avanguardie, la distinzione tra proletariato e sottoproletariato o tra plebe e masse popolari, che hanno funzionato sintanto che è sopravvissuta la fiducia nell’idea che il corso della Storia avrebbe contribuito a risolvere impersonalmente le contraddizioni storiche più tenaci. Ora che questa fiducia è tramontata diventa sempre più evidente che nella maggioranza delle democrazie liberali, se non in tutte, è molto difficile far convivere l’ideale dell’uguaglianza e quello della qualità della vita politica. Per lungo tempo a molti è parso che una buona dose di spoliticizzazione avrebbe fatto fiorire una società civile ragionevole, plurale, abitata da individui con una vita privata ricca, ma il tempo ha dimostrato che è molto difficile mantenere un equilibrio virtuoso tra le diverse sfere dell’esistenza umana. Individui spoliticizzati possono essere facilmente mobilitati da leader politici scaltri e non sempre nella società sono presenti gli anticorpi per rimediare a questi rischi potenzialmente letali. Detto ciò, che fare? La mia personale impressione è che una lezione che la sinistra italiana dovrebbe imparare è che non si può avere tutto e il contrario di tutto o, come dicono gli inglesi, “to have one’s cake and eat it too”. Se si concorda sul fatto che gli ideali politici moderni non sono perfettamente conciliabili perché contengono troppo, bisogna fare delle scelte e rinunciare a qualcosa. Se si vuole una qualità politica più alta bisogna rinunciare almeno in parte all’egualitarismo; se si vuole una società più politicizzata bisogna rinunciare a parte della ricchezza delle nostre vite private; se si vuole più legalità bisogna accettare una maggiore intrusività del diritto nelle nostre vite (e anche nelle nostre strutture psichiche profonde, come insegnano i nostri cugini scandinavi); ecc. So che simili scelte di campo impediscono di indulgere in una delle attività preferite da chi, come me, è cresciuto in un mondo in cui la distinzione tra destra e sinistra era un fondamentale fattore di orientamento esistenziale, e cioè recitare la parte del grillo parlante. Certo, dicendo (e dicendoci) la verità probabilmente non si vincono le elezioni, ma almeno le si perdono sapendo perché le si è perse e si può confidare nel fatto che, se un giorno le si vincerà, si saprà come governare. Per farla breve, mi sembra che sarebbe ora che tutti noi decidessimo che cosa veramente vogliamo e ci aspettiamo dalla politica nelle nostre vite.
Difficile intervenire in un dibattito così appassionato e ricco di osservazioni, in alcuni casi dialetticamente contrapposte. Vorrei partire da un dato: fra meno di ventiquattr’ore avremo i risultati delle elezioni regionali, che potrebbero costringerci ad assumere posizioni più nette nei confronti della realtà in cui viviamo. Se le cose andassero nel senso che credo tutti noi auspichiamo potremmo continuare la discussione con una certa pacatezza, pur consapevoli del grande impegno necessario a ristabilire condizioni di maggior civiltà nel contesto italiano. Ma se malauguratamente dovessero avanzare le forze attualmente al governo, che già hanno dichiarato di voler porre mano in modo formale alla Costituzione più di quanto non abbiano fin qui fatto sul piano sostanziale, attraverso l’esautorazione del Parlamento, l’occupazione di larga parte dei media, l’indebolimento delle forze sindacali ed altro ancora. Se –ripeto- questo accadesse, come ci dovremmo comportare? Dai primi interventi emergevano due diversi atteggiamenti di contrasto nei confronti del fascismo strisciante che caratterizza il momento storico attuale nel nostro paese: un antiberlusconismo “viscerale”, come usa dire, spesso giudicato inutile o dannoso, cui contrapporre in antitesi un atteggiamento freddamente razionale, potenzialmente più efficace. Ma di fronte all’arroganza, volgarità, amoralità di gran parte del ceto politico al potere, come non partire dall’indignazione? Contrapporre la fredda e fattiva razionalità alla inconcludente emotività è del tutto fuorviante. C’è invece bisogno di grandi passioni intellettuali e di uomini che sappiano incarnarle. Essere lucidamente razionali nei confronti di chi mostra disprezzo per le regole non ci rende per ciò stesso più forti. Lo testimonia il fallimento delle politiche dell’ “intelligentissimo” D’Alema. C’è qualcosa che viene prima della strategia nella lotta politica e che Primo Levi, riferendosi a situazioni certo ben più tragiche delle nostre, definisce icasticamente come “un muto bisogno di decenza”.
Forse semplifico troppo, ma due mi sembrano i nodi attorno ai quali s’è sviluppato il dibattito, uno relativo alla sfera dell’agire “pratico”, cui s’è già accennato, l’altro più propriamente filosofico, proposto da Roberta.
Il primo, come si è già visto, tocca la figura e il ruolo di B. Si dice sia inutile continuare ad attaccarlo, “l’importante è mandarlo a casa”. Ma come si fa a mandarlo a casa senza svelare la montagna di mistificazioni su cui si fonda il suo successo, mostrando a tutti come “il re è nudo”? La reiterata accusa all’opposizione di essere ossessionata da B. costituisce un falso problema: non siamo ossessionati dall’uomo, che umanamente appare come un “poveretto”, privo di equilibrio e misura, ma spaventati dal degrado politico, culturale ed etico da lui prodotto. Avrebbe potuto Obama mandare a casa Bush senza criticarne la politica, le menzogne, i tragici errori? Solo in Italia si ritiene intelligente fare opposizione senza esercitare duramente il diritto di critica. Senza considerare che l’atteggiamento proposto vale solo per la sinistra, perché la destra per mandare a casa Prodi ha usato tutti i mezzi leciti ed illeciti, ce ne siamo dimenticati?
Roberta d’altro canto ha riportato il discorso alla sua radice filosofica. In che senso le norme contenute, ad esempio, nella nostra Costituzione vanno considerate non solo astrattamente giuste e in quanto tali si impongono con forza cogente a tutta la comunità? Radicarle nel “dover essere” kantiano espone all’accusa di formalismo e quindi di astrattezza, e dico questo pur attribuendo a Kant la geniale apertura di una nuova via dopo il millenario impasse, esemplarmente chiarito da Platone nel Gorgia, tra la tesi socratica dell’esistenza di una Giustizia che tale resta sempre e per tutti e il relativismo sofistico incarnato da Callicle per cui “giusto” è di volta in volta ciò che impone il più forte. Tra l’assolutezza dell’idea e il relativismo , sembra non esserci una via di uscita. In realtà non l’assunto filosofico, ma l’agire concreto di Socrate può suggerire una via di scampo, che contestualmente si propone come testimonianza di libertà. Mi riferisco al Diritto, alle Leggi cui Socrate si inchina pure di fronte ad una condanna ingiusta, affermandone insieme la sacralità e il carattere di fondamento del vivere civile. Non rispettare le leggi dello stato significa minarne le fondamenta. Ciò non esclude che si possa agire politicamente per cambiarle. Su questo punto anche don Milani, affrontando il processo per obiezione di coscienza, avrebbe qualcosa da dirci.
La necessità di ricondurre l’astratto “dover essere” all’essere concreto trova nel Diritto il punto d’incontro, e nella Politica lo strumento concreto che consente via via di correggere e migliorare il corso del vivere comune. E qui mi riallaccio alle parole di Roberta : “ La ragione pratica non esiste che come telos, vale a dire come ciò che è da costruire o incarnare: in particolare e per eccellenza nelle forme istituzionali del diritto e della politica [….] Da questo punto di vista Husserl ripropone l’idea kantiana della filosofia come voce della “ragione pubblica” [… ]. Siamo chiamati all’esercizio di ragione, nei modi della libera discussione che fin dall’inizio contraddistingue, in Grecia, il suo esercizio socratico.”
E allora visto che l’assunto “E’ GIUSTO RICONOSCERE AD OGNI CITTADINO EGUALE DIGNITA’ DI FRONTE ALLA LEGGE”, cardine di tutte le costituzioni democratiche, non può essere negato se non al prezzo di consentire all’ingiusto, se più forte, di agire a vantaggio proprio e a svantaggio dei più deboli, posizione di evidente insensatezza al fine di una armoniosa convivenza civile, non si può che confermarne la validità.
Meriterebbe riprendere la distinzione di Roberta tra ragione come “dar spiegazione” e ragione come “giustificazione”, che sollecita molte riflessioni sul confuso presente.
Così come un altro spunto su cui ragionare lo dà Paolo Costa sollecitando provocatoriamente (?) un uso selettivo dello spazio pubblico, che rinvia al fondamentale ruolo dell’educazione nella polis di ieri (Platone) come in quella di oggi. Solo l’attitudine di tutti a pensare criticamente può garantire la democrazia.
Per ora mi fermo, incrocio le dita, e aspetto i risultati delle elezioni per riaccendere la discussione sui molti temi che meritano di essere ripresi.
In attesa di vedere quali saranno i risultati definitivi di queste elezioni, mentre nel Lazio e nel Piemonte Bonino e Bresso sono costrette a giocarsela all’ultima scheda con Polverini e Cota, e in Lombardia il figlio di Umberto Bossi si è già assicurato in quanto figlio un posto in Consiglio Regionale, penso a quanto l’economista della Bocconi Michele Polo, citato qualche giorno fa da Barbara Spinelli su La Stampa, ha denunciato più volte, poco ascoltato. «Oggi gran parte dei cittadini si forma un’opinione sui fatti principali e sull’operare della politica non con un’esperienza diretta e personale, ma mediante i mezzi di informazione. In Italia, con un ruolo preponderante della televisione». A essere pericolante è il giudizio informato attorno a fatti non tenuti nascosti, ma resi pubblici, prosegue Spinelli. E che l’Italia sia più a rischio di altri lo si evince da dati precisi: «Tra le peculiarità italiane, scrive Polo, c’è una bassa abitudine alla lettura, che fa dei telegiornali di gran lunga la principale fonte di informazione. I due principali telegiornali serali, Tg1 e Tg5, raccolgono in media 6,4 e 5,3 milioni di telespettatori, mentre gli spettatori dei telegiornali sulle sei reti sono circa 19 milioni. I primi 5 quotidiani (Corriere, Repubblica, Sole 24 ore, Stampa, Messaggero) arrivano a circa due milioni di copie, corrispondenti a circa sei milioni di lettori. In una recente indagine del Censis sulle elezioni europee del 2009 emerge come il 69 per cento degli elettori ha fatto ricorso ai telegiornali per formarsi un’opinione in vista del voto, il 30 per cento ai programmi televisivi di approfondimento, il 25 per cento si è affidato ai giornali, il 5 per cento alla radio e solo un coraggioso drappello del 2 per cento ha utilizzato Internet». Non è questione di abolire il popolo (anche se, devo confessare, a me la battuta ha fatto abbastanza ridere). E neppure quella di accampare scuse. Si tratta di riconoscere su quale terreno si gioca buona parte della partita. E che ci vuol altro degli sdegnati, livorosi, e per lunghi tratti grevi e sgangherati, carrozzoni in stile Rai per una notte per rientrare in gioco. Tutt’altro.
Posso soffermarmi un attimo sulla metafora sportiva utilizzata da Stefano alla fine del suo commento? Lui ha scritto: “Si tratta di riconoscere su quale terreno si gioca buona parte della partita”. Qualcuno ha voglia di provare a descrivere meglio questa partita? Quanto sarà lunga? A che punto e da che cosa si capirà chi l’ha vinta e chi l’ha persa? Quali qualità serviranno per vincerla? In Italia, come ho sentito dire una volta da Mourinho con una espressione fantastica, siamo tutti “risultatisti” e me ne accorgo dai giudizi sui leader del centrosinistra alla fine di ogni elezione: chi ha perso ha sempre torto. Se perde Veltroni è perché abbiamo bisogno di un leader meno sentimentale e più pragmatico. Se perde Bersani è perché quello che davvero ci serve è un Obama italiano. Se si va da soli, si perde perché c’è bisogno di una coalizione più ampia; ma se la coalizione è più ampia, si perde perché la proposta di governo non è chiara. Molte di queste spiegazioni sono chiaramente razionalizzazioni ex post, ma vengono spesso sbandierate con una sicumera che mi lascia molto perplesso. E se non ci fosse una sola spiegazione? E se i risultati delle elezioni, proprio come nello sport, dipendessero da molti fattori, alcuni dei quali non controllabili? E se l’intelligenza – in particolare l’intelligenza pratica – fosse una cosa un po’ più complicata delle qualità mentali di cui gli intellettuali rivendicano il monopolio? (Io fin da piccolo mi sono sentito descrivere come “intelligente”, ma devo confessarvi che se dovessi fare il sindaco di un comune di 1000 abitanti farei sicuramente la figura del fesso). Questi sono tutti dubbi che mi rodono dentro da un pezzo. Può darsi che, come mi viene ogni tanto da pensare, io abbia poche idee e quelle poche confuse. Ma almeno una cosa mi sembra chiara: se veramente il nostro problema è l’ignoranza o la disinformazione del “popolo” – cosa che secondo me è vera solo in parte – non possiamo nasconderci che la partita non durerà tre o cinque anni, ma generazioni e nessuno sa con chiarezza come si possano produrre simili cambiamenti storici mentre il treno è in corsa. La dura realtà è che, come si dice in questi casi, l’arte (anche quella politica) è lunga e la vita è breve. Devo forse ricordarvi che siamo cresciuti credendo che saremmo morti democristiani?
La divertente battuta di Andrea citava apertamente (e paradossalmente) Brecht
/ Non sarebbe stato più facile, in quel caso per il governo, / sciogliere il popolo ed eleggerne un altro?
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Quando il quotidiano Il Manifesto festeggiò i suoi 20 anni, utilizzò lo slogan “20 anni dalla parte del torto”.
In una intervista (credo) Rodotà smascherò il loro vezzo : non “dalla parte del torto”, ma “di chi ha perso” non significa non aver comunque ragione ( o essere dall aparte giusta).
Perdere, in politica vuol dire “avere torto”: è un modo di dire che si usa per significare altro. Che me ne faccio delle mie buone, ottime ragioni, se poi queste non riecono a vivere?
Esistono delle strategie giuste (nel senso di corrette) ma perdenti? È un paradosso.
Detto questo, però ha ragione Paolo: quell’invito ad andarsene, ogni volta che va male un risultato elettorale è uno dei modi per non capire, per non sforzarsi di capire.
Capire cosa?
Beh, hanno ragione Paolo e Stefano: occorre descrivere il campo di gioco e la partita che si sta giocando. Vorrei dire: la posta in gioco.