(Prefazione di Roberta De Monticelli a Jeanne Hersch, Tempo e musica, traduzione italiana di Roberta Guccinelli, Baldini Castoldi Dalai, 2009)
Le pagine di Jeanne Hersch hanno questo di inconfondibile: senza sprecare una sola parola ci riconducono all’essenziale. La sua prosa tagliente e vivida fa di ciascuna sua pagina un taglio di luce sulla nostra esistenza, riassumendo in una proposizione di cristallo il tema della meditazione che annuncia. E che conoscerà sviluppi e variazioni e sempre nuovi approfondimenti, fino alla ripresa finale e alla chiusura, secondo una forma non dissimile da quella di una sonata. Valga l’esempio di questo libro, inaugurato da una frase che ha la folgorante evidenza di un motto classico:
“Il presente è la sola dimensione del tempo che ci dia un appuntamento reale col mondo”
Tempo e musica (un titolo già agostiniano) si conclude sulla dominante di questa meditazione: l’eternità. Cioè sulla miniatura d’eternità, versione herschiana dell’eterno di Agostino. Che non è tempo senza fine, ma nunc stans, presente che non passa, interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio, “l’avere tutta insieme nella sua pienezza una vita infinita”, secondo la glossa di Severino Boezio. Di questa eternità noi conosciamo una “miniatura”, che il presente della musica – del suo ascolto – esemplifica nella sua pregnanza:
“… questa “piccola durata” che unisce e separa il passato dall’avvenire, che non scorre perché permette il pensiero e la melodia, che si sfilaccia soltanto alle sue estremità in passato e futuro, ricordo e progetto, e che io ho chiamato, poiché non passa, miniatura d’eternità”.
Comincia, questa meditazione, con quell’appuntamento così spesso mancato che abbiamo con la realtà, dunque nella tonalità un po’angosciosa dell’azione e delle sue inadeguatezze – come di quelle della decisione e della scelta, o anche soltanto dell’attenzione e della presenza di spirito e di sentimento; e si conclude nella tonalità profondamente serena della contemplazione, di cui l’ascolto musicale è paradigma, con il suo tempo sospeso, sottratto alla cura, all’interesse, al piccolo io, ai suoi trascorsi e ai suoi progetti, dove si sosta “sulla soglia di una simultaneità senza durata… come la promessa di un accordo impossibile della pienezza e del desiderio” .
Nel mezzo, come sempre, i temi fondamentali del pensiero di Jeanne Hersch, questa fenomenologia dei paradossi costitutivi della condizione umana, nello specchio di quello, che, forse, li riassume tutti: il tempo che scorrendo erode l’opera e il senso della nostra vita, e l’eternità che, se da promessa fosse realizzata, “muterebbe l’uomo in una statua di noia”.
“Noi non possiamo vivere né con il tempo, né senza, né contro di esso.
Il saggio di Roberta Guccinelli insegue il pensiero di Jeanne Hersch in tutte le sue potenzialità, immergendolo nell’attualità del dibattito contemporaneo, non soltanto di ontologia analitica ma anche di estetica, là dove il filo delle conversazioni con Ernest Ansermet su libertà e necessità in musica tocca la questione di fondo: che cos’è la musica? Lasciamo al lettore il piacere di scoprire, anche con l’aiuto della curatrice, il nesso profondo di questa questione con l’altra: che cos’è il tempo?
Ne emerge fra l’altro una posizione inusuale fra i filosofi europei del Novecento: il netto rifiuto, come cosa “ripugnante”, dell’idea che il passato sia funzione degli interessi del presente o di ciò che il presente ritiene vero, idea cara alla filosofia ermeneutica e già difesa da Heidegger (secondo il quale non era vero che la forza di attrazione è proporzionale alla massa dei pianeti prima che Newton lo scoprisse). Se fosse falso che Bruto ha ucciso Cesare, se anche nessuno lo scoprisse mai, Bruto non sarebbe colpevole di quella morte. In tempi come i nostri, in cui ci sono filosofi che dicono Addio alla verità, e in particolare a quella storica (se non serve alla causa che si difende), non è vano ammirare la serena resistenza di questa mente limpida: “nessuno – né un dio, né un demone, né un mago, né uno scienziato – potrà fare che il mare, là davanti a me, non abbia questa mattina scintillato sotto il sole”.
Congedando questa edizione italiana, ultima nel tempo di una serie cui Roberta Guccinelli ha dato un contributo fondamentale, curando fra l’altro la splendida traduzione del solo romanzo della pensatrice ginevrina, Temps alternés, pubblicata per questi stessi tipi con il titolo Primo amore, e del capolavoro filosofico della prima maturità, L’être et la forme ci avviene di pensare che per una volta almeno non avremo mancato l’appuntamento con la realtà. A Ginevra, il pensiero in carne ed ossa era lei, questa donna vigorosa e un po’ imperiosa anche nei suoi tardi anni, che pareva radicata in terra con solidi piedi, e per nulla incurvata. Anche se nuove e vecchie baronìe accademiche – e i provincialismi di cui neppure la cosmopolita città romanda andava esente – la confinavano nel passato, quel pensiero era il più vivo e il più presente al tempo: non solo al presente, ma come oggi possiamo vedere anche al futuro. E questo ci fu subito chiaro, fin dal primo incontro. E forse – per usare quel futuro anteriore che le era caro – questo impulso dato all’edizione delle sue opere nella nostra lingua sarà stata la sola cosa assolutamente giusta e buona che potremo vantare fra quelle fatte, se mai qualcuno ce ne chiederà ragione. Ora il lettore italiano (e poiché il bene è diffusivum sui, presto anche quello di lingua spagnola) dispone di una cospicua selezione delle opere di Jeanne Hersch. Ecco, per il lettore che incontrasse questo nome per la prima volta, qualche cenno per aiutarlo a orientarsi in questa bibliografia. Ma chi vi si accosta per la prima volta, e anche chi vi ritorna incuriosito o interessato, non dovrebbe perdersi la rifioritura del Novecento intero, nella figura e nelle parole di alcuni dei suoi più grandi protagonisti, che attraversa le pagine di Eclairer l’obscur, ora disponibile in edizione italiana a cura di Laura Boella e Francesca De Vecchi per queste stesse edizioni: Rischiarare l’oscuro – Autoritratto a viva voce. Una straordinaria biografia intellettuale e morale che si dovrebbe leggere insieme con il capolavoro saggistico del suo grande amico – e premio Nobel – Czeslaw Milosz, La mente prigioniera – un libro sugli effetti devastanti delle ideologie totali, che a Jeanne Hersch deve moltissimo.
Era nata a Ginevra nel 1910 da una famiglia di origine polacca, per parte di madre, e lituana, per parte di padre. La sua tesi di laurea su Le immagini nell’opera di Bergson (1931) – disponibile in italiano – colpì profondamente il filosofo, già anziano e malato: lei aveva vent’anni e riceveva così il primo prestigioso riconoscimento internazionale. L’incontro con Bergson resta all’origine di uno dei grandi temi del pensiero di Jeanne Hersch: il problema del tempo, appunto, che la filosofa concepirà tuttavia in una maniera profondamente critica nei confronti del bergsonismo. Ma l’incontro intellettualmente determinante è quello con Karl Jaspers, che divenne il suo vero maestro: Jeanne Hersch è sua allieva, come Hannah Arendt, a Heidelberg negli anni ’30. Non esita nel 1933 a recarsi a Friburgo per ascoltare i corsi di Heidegger, nonostante la legge promulgata in quello stesso anno, che proibiva l’iscrizione alle università tedesche agli studenti di origine ebraica. Del suo insegnamento, Jeanne Hersch ha scritto: “Le idee che sviluppava davanti a noi, non le sottometteva al nostro libero giudizio, secondo l’atteggiamento liberale che dovrebbe essere proprio del filosofo: le imponeva. C’è nella sua filosofia un aspetto incantatorio, come una formula di magia, che fa salire gli spiriti tellurici e vi chiede di accoglierli… [la sua filosofia] comporta un elemento patetico, più o meno magico, che è un fattore di irresponsabilità”. Ciascuno dovrebbe leggere la penetrante diagnosi del rapporto fra il pensiero di Heidegger e il suo elogio del nazismo, anch’essa disponibile per il lettore italiano (Il dibattito su Heidegger: la posta in gioco, a cura di Stefania Tarantino, in R. Ascarelli (a c. di), Oltre la persecuzione. Donne, memoria, ebraismo, Carocci, Bologna, 2004).
Colpisce il paragone con Jaspers: per questi, invece, “ogni vera attività filosofica è radicata in un atteggiamento etico… Nella comunicazione la tua propria libertà conta su quella dell’altro”. La libertà, la sua natura costitutiva della nostra esistenza, le sue condizioni, i suoi limiti, i modi del suo esercizio quotidiano, etico, politico e intellettuale: è questo l’altro grande tema del pensiero della Hersch. Che potrebbe definirsi una filosofia della condizione umana come condizione paradossale, in cui si scontrano drammaticamente, più che conciliarsi, la nostra sottomissione alle leggi della natura e la nostra radicale responsabilità verso il presente, questo solo luogo d’appuntamento con la realtà sempre singolare, con le sue esigenze sempre nuove. Noi viviamo più sovente di memoria e speranza che di attenzione, volentieri dimoriamo nelle dimensioni immaginarie del passato e del futuro piuttosto che in quella “petite durée” che è il presente, il breve spazio del nostro esercizio di libertà. Una condizione paradossale, la nostra, alla quale il pensiero filosofico non solo non sfugge, ma che è sua vocazione illuminare e riflettere. E’ una illusione credere che la contemplazione filosofica sia altro che la quintessenza del paradosso di esistere, ma illuminato, portato alla luce del pensiero nei suoi innumerevoli aspetti. L’illusione filosofica è appunto il titolo della prima opera di grande respiro di Jeanne Hersch, (1936), tradotta in italiano da Einaudi già nel 1942, ma che abbiamo fatto ripubblicare con la prefazione ancora palpitante di meraviglia, eppure lucidissima, che Jaspers scrisse per l’edizione tedesca dell’opera (1956) . L’illusione consiste nel credere che il pensiero filosofico possa farsi verità scientifica, oppure che possa prescindere dalle verità scientifiche. E la storia della filosofia moderna è una continua oscillazione fra questi due aspetti dell’illusione. Ma “la verità filosofica non è una verità oggettiva, benché non possa fare a meno dell’oggettività. La verità filosofica riflette la natura della libertà, che non può, neppure lei, fare a meno dell’oggettività, ma che, nella sua quintessenza, ne è il contrario, perché è ciò che strappa se stessa all’oggettività”. Questa la tesi fondamentale di quel primo libro, al quale il secondo, L’être et la forme (1946), di cui abbiamo già ricordato l’edizione italiana, aggiunge l’aspetto costruttivo, anzi creativo di questa libertà che strappa se stessa all’oggettività per dar forma, cioè essere alla condizione umana e in qualche modo strapparla alla mortalità, senza mai riuscirci interamente.
L’azione, la conoscenza, l’arte: in questi tre piani fondamentali della realizzazione umana della forma c’è un fare, un fabbricare, un maneggiare la materia, un artigianato, un lavoro: e in questa altra categoria dell’esistenza – il “lavoro” – il lettore italiano riconoscerà forse l’ultima e più segreta radice di questa pensatrice, accanto a quelle della sua ebraica laicità e della grande tradizione filosofica europea che ha nutrito la sua giovinezza. L’impronta di Ginevra, la città di Calvino. Il lavoro di questa donna, che amava considerarsi una “presenza al suo tempo” più che l’autrice di un’opera, è stato imponente e profondamente efficace. Jeanne Hersch ha formato molte generazioni non solo di filosofi né solo di intellettuali, ma di uomini attivi in tutti i rami della vita materiale e civile di questa città della pace. All’Università, dove ha insegnato dal ’47 al ’77, i suoi corsi erano diventati un luogo di incontro di studenti e studiosi di ogni Facoltà: era convinta – e oggi questa ci pare un’intuizione fondamentale, in anticipo sui tempi – che l’avvenire della filosofia è nel bisogno che hanno di essa tutte le professioni, e non solo quelle intellettuali. “Essa sola può fornire gli strumenti necessari a illuminare i problemi che si pongono oggi ai medici, ai giuristi, ai biologi, e a formare i giudizi morali il cui bisogno si impone prima che esista un consenso in proposito” .
Nello stesso spirito Jeanne Hersch non ha mai cessato di interessarsi alle scienze e alle tecnologie contemporanee, di sondarne le conseguenze sulla nostra esistenza, i suoi paradossi, il rapporto con il tempo e la libertà. Eminentemente etica, ma anche civile e politica, la sua riflessione tocca ancora il nodo del secolo tragico, i totalirsmi. Occorre ancora ricordare almeno Idéologies et réalités (Plon, Paris 1956), ancora non tradotto, e che si dovrebbe mettere a confronto con l’opera di Hannah Arendt, e una monumentale commemorazione dei vent’anni dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo, progettata su incarico dell’Unesco e realizzata per mezzo di un’interessantissima architettura polifonica, in cui si intrecciano le voci di pensatori, poeti e scrittori di tutto il mondo (Le droit d’être un homme, Unesco, Paris e Payot, Lausanne 1968). La riflessione, oggi attualissima, sulla natura e il fondamento dei diritti umani è anch’essa oggi disponibile in italiano col titolo I diritti umani dal punto di vista filosofico.
Jeanne Hersch è stata una scrittrice, oltre che una filosofa. Lo è stata in due sensi distinti: per la funzionalità soberrima della sua prosa filosofica pura, e per il vigore poetico di quella letteraria, narrativa e saggistica. Jeanne non amava troppo coloro che si provano a fare due cose alla volta, e il suo giudizio sul “pensiero poetante” è piuttosto severo. Lei di cose ne ha fatte una alla volta. A trentadue anni pubblicò il romanzo che abbiamo già menzionato, giunto alla sua terza edizione – che si imprime vivido nella memoria con le linee ampie e la luce di questo paese di lago e di montagne, il doux pays romand. Il romanzo, tradotto in italiano per queste stesse edizioni è, come suggerisce il sottotitolo, un Esercizio di composizione. Di composizione-conciliazione di due figure della condizione umana – e femminile, in particolare – che sono anche due età della vita e due prospettive dell’assoluto, quali le due grandiose dimensioni di questo paesaggio di montagne e di lago le rendono visibili e compresenti: l’alto e il largo. Molto caro all’autrice era poi un piccolo libro di cui abbiamo una bella traduzione italiana, con prefazione di Jean Starobinski, intitolato La nascita di Eva – Saggi e racconti, e particolarmente affezionata era al saggio che dà il titolo alla versione italiana, Eve ou la naissance éternelle du temps, una meditazione sul celebre bassorilievo di Autun (XII secolo).
Nessuno potrebbe intuire la concretezza e il rigore di questo pensiero a partire dall’unico testo che era pubblicato in italiano prima di questa serie: L’étonnement philosophique (1981), ovvero Storia della filosofia come stupore che pure è un piccolo best-seller della storia della filosofia, dove Jeanne Hersch eccelle nell’arte che le fu propria di “mimare” – l’espressione è sua – il “gesto fondamentale della libertà” che rivive in cuore a ogni opera di pensiero. Da Socrate a Jaspers, i due poli di questo libro sulla meraviglia filosofica, che ha il suo baricentro in un magistrale capitolo su Kant: veramente accessibile a chiunque, senza che alcun mistero filosofico vada appiattito, perduto o dimenticato.
Scarica in formato Pdf la Prefazione di Roberta De Monticelli a Jeanne Hersch, Tempo e musica, traduzione italiana di Roberta Guccinelli, Baldini Castoldi Dalai, 2009.
Il libro Tempo e musica raccoglie una serie di interventi scritti da Jeanne Hersch tra il 1981 e il 1990. Non si tratta solo di saggi, ma di intuizioni, spunti, brevi frammenti sul tempo e sulla musica, e sul legame che instaurano con la sfera delle emozioni. Come possiamo definire il tempo della musica? Come è possibile «sentire» a così tanti anni di distanza dalla sua composizione il Don Giovanni di Mozart, o una sinfonia? Immaginiamo di essere a un concerto. Ci limitiamo ad ascoltare, senza agire, ma non per questo siamo passivi, anzi, diveniamo ricettivi e la musica suscita in noi una vita emotiva autonoma. Nel presente – che è il tempo dell’ascolto – viviamo ciò che in essa non passa, poiché la musica suonata e ascoltata non può dissolversi nel passato, ma agisce nel presente. Il suo tempo è un «presente eterno» che unisce l’essere e il non-essere del tempo: trascende il tempo di chi ascolta, come se quell’attimo in un certo senso si conservasse per sempre. La Hersch ci regala una straordinaria analisi sul tempo che è anche una riflessione sulla realtà che viviamo. Un’opera che getta una luce sul senso di un possibile incontro tra musica e filosofia.
Profilo dell’autrice Jeanne Hersch (1910-2000), pensatrice di origine polacca, cresciuta a Ginevra in una famiglia di intellettuali ebrei, fu allieva di Karl Jaspers e fine interprete del pensiero di Henri Bergson. Studiò solfeggio e pianoforte, e vinse diversi premi al Conservatorio di Ginevra. Fu amica di Ernest Ansermet, fondatore dell’Orchestra della Svizzera romanda, e discusse con lui diversi passi dei Fondamenti della musica nella coscienza dell’uomo. Per tutta la vita si dedicò a una filosofia dei diritti umani, dirigendo la divisione di Filosofia dell’Unesco e realizzando il monumentale volume Le droit d’être un homme (1968). BCDe ha pubblicato Primo amore (2005) e Rischiarare l’oscuro (2006).
Quarta di copertina «La musica suonata e ascoltata non potrà mai essere cancellata dal passato, qualunque cosa accada. Niente potrà cancellare questo fatto: la musica è stata suonata, voi l’avete ascoltata. Se un giorno la terra congelasse, oppure si riscaldasse eccessivamente, se gli uomini sparissero, anche allora, il tempo della musica vissuta si conserverebbe nel passato. Se sparisse, senza lasciare alcuna traccia, lo stesso tempo continuerebbe, misteriosamente, ad arricchire l’universo d’umanità.»
Oggi, primo giugno 2014, alle 6 durante la trasmissione di Radio 3″Qui comincia”, il grande musicologo Paolo Terni ha mirabilmente intrecciato e dilatato Jeanne Hersch nel respiro dell’ascolto nel tempo, e penso che continuerà anche nei prossimi weekend. Il modo come filtra il suo pensiero è commovente e profondamente umano, e contribuisce – penso – a che l’opera di Jeanne Hersch continui ad esser letta e meditata in questo mondo da una umanità che tanto ha bisogno di riscoprire il dantesco “fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”…