L’architetto Norberg-Schulz individua nel genius loci il carattere distintivo di una città, di un quartiere, di un ambiente. L’attenta riflessione sulla realtà concreta che l’uomo affronta quotidianamente fa sì che uno spazio diventi luogo, e che sia possibile afferrarne il peculiare genius loci. Nell’elaborazione della sua “fenomenologia dell’architettura”, Norberg-Schulz attinge da Heidegger i concetti base della sua analisi. In Costruire Abitare Pensare, Heidegger definisce l’abitare come il fine del costruire. Questo perché l’antica parola altotedesca per bauen, costruire, è “buan” che significa abitare, ovvero rimanere, trattenersi. Il senso dell’abitare sta nel vivere in uno spazio che diventa luogo in virtù del costruire, e ciò accade quando il luogo raduna presso di sé terra e cielo, divini e mortali: “L’abitare ci appare in tutta la sua ampiezza quando pensiamo che nell’abitare risiede l’essere dell’uomo, inteso come il soggiornare dei mortali sulla terra. […] C’è una unità originaria entro quale i Quattro: terra e cielo, i divini e i mortali, sono una cosa sola. […] Nel salvare la terra, nell’accogliere il cielo, nell’attendere i divini, nel condurre i mortali avviene l’abitare come il quadruplice aver cura della Quadratura”. In altre parole, l’uomo, per essere in pace con l’universo, con la società e con se stesso, ha bisogno di collocarsi, ovvero di affermare la sua identità come essere umano che si distingue dal mondo fisico, come membro di un gruppo all’interno del quale condivide e discute i valori, e come individuo che conserva un margine di libertà e di responsabilità personale.
In linea generale quindi, la costruzione di edifici, adibiti alle più diverse funzioni, o l’ideazione di una nuova città, non possono prescindere dal fare propri i principi di una buona “costruibilità”, che non dovrà basarsi soltanto sull’utilizzo dei materiali adatti o su calcoli strutturali ineccepibili, ma anche sul rispetto dei legami umani e sociali che necessariamente l’individuo deve instaurare.
In “Dalla forma al luogo”, Pierre von Meiss afferma: “La funzionalità e la comodità dell’alloggio sono esigenze palesi che, da sole, non sono sufficienti a soddisfare gli abitanti. Perché l’alloggio si trasformi in un focolare domestico, l’utente deve poter sviluppare dei legami affettivi nei suoi confronti e farlo proprio”.
La città de L’Aquila, dalla fondazione che risale alla metà del Duecento, passando per i diversi terremoti – il primo di cui si ha notizia risale al 13 dicembre 1315 – fino ad arrivare ai piani regolatori della storia recente e alle realizzazioni di poderose strutture sportive nel periodo fascista, ha sempre mantenuto un ben determinato e riconoscibile genius loci. Nonostante la vasta espansione della città in zone limitrofe, i dati forniti dal Comitatus Aquilanus nel documento L’Aquila. Non si uccide così una città? mostrano come il centro storico del capoluogo abbia da sempre rappresentato il cuore funzionale della comunità. Per la sua qualità architettonica, le funzioni presenti e per la sua forza simbolica, esso, prima del terremoto del 6 aprile scorso, era l’elemento primario dell’identità culturale degli aquilani. Nel censimento del 2001, su una popolazione totale di 68.503 unità, i residenti nel centro storico erano 10.400. Ad essi vanno poi aggiunti gli studenti fuori sede alloggiati nelle case del centro, circa 6.000 unità. Inoltre, nel centro vi erano 800 attività commerciali, moltissimi studi professionali e sedi di rappresentanza delle amministrazioni e di diversi enti. L’identità culturale e storica de L’Aquila era rappresentata sia simbolicamente che concretamente dal suo centro storico, luogo dotato di un intimo significato, rimasto immutato nel corso della storia della città. Il terremoto ha distrutto il centro storico, quello che rendeva la mia città ciò che era, l’essenza del luogo. Il mio timore ora è quello di ritrovarmi in una città mutata a tal punto nelle sue caratteristiche essenziali, da essere costretta a ricorrere a foto scattate prima del 6 aprile, per ricordare com’era. Certo, questo non sarebbe l’unico esempio in cui una città attuale non mantiene alcun tratto della città passata. Infatti, quando Marco Polo arriva a Maurilia: “[…] è invitato a visitare la città e nello stesso tempo a osservare certe vecchie cartoline illustrate che la rappresentano com’era prima: la stessa identica piazza con una gallina al posto della stazione degli autobus, il chiosco della musica al posto del cavalcavia […]. Per non deludere gli abitanti occorre che il viaggiatore lodi la città nelle cartoline e la preferisca a quella presente, avendo però cura di contenere il suo rammarico per i cambiamenti entro regole precise: riconoscendo che la magnificenza e prosperità di Maurilia diventata metropoli, se confrontate con la vecchia Maurilia provinciale, non ripagano d’una certa grazia perduta, la quale può tuttavia essere goduta soltanto adesso nelle vecchie cartoline, mentre prima, con Maurilia provinciale sotto gli occhi, di grazioso non ci si vedeva proprio nulla, e men che meno ce lo si vedrebbe oggi, se Maurilia fosse rimasta tale e quale, e che comunque la metropoli ha questa attrattiva in più, che attraverso ciò che è diventata si può ripensare con nostalgia a quella che era”. Da città provinciale, la Maurilia de Le città invisibili di Calvino, diventa metropoli, e il cambiamento tra il prima e il poi è talmente radicale da far credere al viaggiatore che si tratti di due città diverse.
L’Aquila non è più quello che era poiché i tratti essenziali della sua fisionomia sono andati distrutti: le piazze, le chiese e i palazzi la rendevano una città ricca di storia e di cultura; una città che ora sta attraversando una fase di passaggio per diventare qualcos’altro. La fase di passaggio è rappresentata dal piano C.A.S.E., un acronimo che sta per “Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili”. Si tratta di lottizzazioni residenziali su 19 aree, che costituiscono tante piccole città, né provvisorie né definitive, ma durevoli. Come leggo ancora nell’articolo del Comitatus Aquilanus, le zone di intervento insistono su aree di aperta campagna – totalmente sguarnite di trasporto pubblico – in cui vivono circa 18.000 persone. I moduli standardizzati di edifici a tre piani sono realizzati con materiali diversi (legno lamellare, calcestruzzo precompresso, laterizi oppure metallo isolato termicamente), poggiati su piattaforme anti-sismiche e composti ciascuno da 30 abitazioni. Alla maniacale cura degli interni, dotati di comfort di tutti i tipi come elettrodomestici supertecnologici, televisori LCD, divani o poltrone in tessuto o ecopelle, corrisponde la totale assenza di servizi collettivi. Comitatus Aquilanus: “L’accento è posto esclusivamente sulla casa, piuttosto che sulla città, sul bisogno individuale che prevale e annulla le esigenze della collettività e i valori sociali. […] Un gruppo di C.A.S.E. non potrà mai diventare una città se pensato per sopperire esclusivamente ad esigenze e funzioni individuali, senza alcun riferimento al contesto territoriale e sociale, ed anzi, per certi versi, in contrasto con essi”.
Non entro certo nel merito dei difficili problemi della ricostruzione, della spinosa questione dello sgombero delle macerie, ma spero solo che le new town rappresentino effettivamente una fase di passaggio verso una ri-costruzione che abbia come fine l’abitare e che mantenga intatta l’essenza del luogo, ovvero ciò che permane nella storia.
Non mi interessa barattare una città per averne 19, pur essendo consapevole che L’Aquila del 5 aprile 2009, come la provinciale Maurilia, è una città da cartolina. Non vorrei però che accada come al Marco Polo di Calvino che, arrivato a Maurilia, si rende conto di come città diverse si susseguano sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome senza essersi mai conosciute. Spero che il viaggiatore che giungerà nella futura L’Aquila post-new town, confrontando le vecchie foto con ciò che ha davanti agli occhi, non pensi di aver sbagliato città.
Solo per dire che l’articolo è davvero ben scritto e parla dell’Aquila da “vicino e lontano”. Sono aquilano ed è piacevole constatare come si possa ancora leggere qualcosa, che, in primo luogo, non sia filtrato da certe correnti politiche più o meno latenti, ed in secundis non sia viziato nei contenuti dal coinvolgimento personale. Niente a che vedere, quindi, con un risentimento tipico aquilano (per carità, assolutamente comprensibile) ma che nei fatti impedisce di vedere le cose con un certo distacco che è e deve essere comunque necessario. Ricostruire L’Aquila non perchè sia la “nostra” L’Aquila, ma perchè, proprio a L’Aquila, l’Italia ha un’occasione rara di dare un segno di risalita.
Ci sarebbero molte cose da dire. L’unica cosa che invece mi sento di voler scrivere, per concludere, è un pensiero per chi parla male di noi aquilani e ci qualifica come degli ingrati: venite a vedere cosa ne è ora della nostra piccola cittadina, tra danni della natura e scelte dell’uomo; se siete un po’ onesti con la vostra coscienza non potrete non cambiare opinione.
Bell’intervento, chiedo scusa se m’intrometto, sono uno studente architetto di Torino: ho visitato l’Aquila poco tempo fa e cercavo documentazione su quanto visto. Non sono un filosofo ma condivido il drasticismo di Heidegger, secondo cui “l’abitare è il fine del costruire”: la costruzione è un’attività che realizza l’uomo, per citare l’homo faber di Hannah Arendt, ma tale fermento creatore necessita di un fine, una funzione da espletare, che umanizzi l’oggetto e vi infonda una dignità. E’ curioso come in tutt’altro contesto ideologico, Hegel affermasse nelle sue Lezioni d’Estetica che “una capanna, una caverna non sono inizi architettonici”: non bastano quindi una necessità umana (l’abitare) e una tra le sue nobilitanti attività (la costruzione), ma è necessaria la dimensione estetica. All’interno del processo progettuale esiste una dialettica continua tra la composizione architettonica ed il sistema costruttivo, in sostanza tra la creazione della forma e la sua estrinsecazione nel mondo reale: ognuna delle due fasi di elaborazione gode di una propria autonomia e di una propria sintassi, contribuendo in modo diverso allo sviluppo della proposta architettonica. Per citare l’autrice non urge solo costruibilità, non solo abitabilità, ma anche un canone estetico, che sia certamente rispondente al genius loci ma che sia soprattutto generatore di identità, simbolo di una situazione socioculturale, veicolo di legami affettivi con l’utenza. Come riflessione mi pare interessante soprattutto a fronte delle diverse tipologie di sistemazione cui sono stati assegnati gli aquilani, dal container (una moderna capanna di Hegel), all’albergo fino alle abitazioni del progetto C.A.S.E. Come architetto non posso che concordare con la critica mossa a queste ultime, edificate in zone scarsamente collegate con il centro; esse giacciono in lottizzazioni prive di organizzazione planimetrica o comunque non predisposte a opere di futura urbanizzazione secondaria (i servizi), a fronte di elevati costi per la messa a punto di sofisticati sistemi antisismici. Costituiscono una specie di provvisorio reso definitivo secondo la peggiore prassi speculativa edilizia all’italiana, a colpi di deroghe in barba alle norme vigenti. L’unico merito che hanno è, a mio avviso, l’aver offerto quattro mura a parte della popolazione non più costretta in tendopoli. E mentre i miei illustri colleghi si interrogano se ricostruire il centro storico secondo i dettami del trapassato “com’era dov’era” o con più sinuose icone moderne, elaborando piani tra le lungaggini della legislazione urbanistica, all’Aquila manca un area urbana che sia propulsore di cambiamento, il motore di una new town che ora sorge con le fattezze di una sfrangiata periferia. Io spero che l’energia di quello che mi è parso un sopito popolo aquilano tiri fuori dal passato glorioso le ambizioni per la costruzione di una nuova forma, un nuovo genius loci, che sia catalizzatore di un vero cambiamento e oltrepassi questa fase di puro sfruttamento territoriale. Buona fortuna l’Aquila…