Mentre ero impegnato nella ricerca di una intervista a Ernst Tugendhat, sono incappato nella traduzione inglese di un articolo di Stefan Klein, biofisico tedesco, apparso sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung del 6 luglio 2007. Ne ho cominciato la lettura per curiosità e l’ho trovata appassionante.
L’argomento è familiare per chiunque faccia ricerca ai nostri giorni ed è forse ancora più pressante per chi svolge il proprio lavoro in un ambito come la filosofia, dove le sfumature sono spesso essenziali. Sto parlando della lingua. La lingua come strumento di lavoro, di apprendimento, di mediazione dei contenuti, di scambio e, perché no, di passioni. Come si possono far convivere le diverse funzioni che il linguaggio deve assolvere nella comunità scientifica, per di più in un paese dove le lingue si studiano poco e male? Come si può evitare la trappola delle mode, dei vezzi, del teatrino sociale e puntare al nocciolo della questione? In poche parole: come la mettiamo con l’inglese?
La questione non è ovviamente solo teorica. In uno scenario politico dove l’appartenenza a un’entità sovranazionale e plurilinguistica come l’Unione Europea è destinata a diventare sempre più importante, il problema della lingua non tarderà a diventare cruciale per l’esistenza di una sfera pubblica vitale. E il sogno di un plurilinguismo by default non sembra affatto confermato dalle giovani generazioni. Come le madri, anche le lingue madri restano al centro delle nostre vite: ingombranti e indispensabili come tutti gli snodi identitari.
Il link per leggere l’articolo è questo: http://www.signandsight.com/features/1438.html.
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