Una volta Tolkien dichiarò in un’intervista che, quando si pubblica un libro, si espone il proprio cuore alla portata di chiunque lo voglia prendere a fucilate. Così descriveva le critiche feroci che accolsero il Signore degli Anelli, oggi considerato uno dei capolavori assoluti della letteratura del ventesimo secolo. Questo episodio mostra che non sempre le recensioni ai libri sono motivate da dati oggettivi e da valutazioni equilibrate. Il sospetto che questo sia il caso della recensione di Guido Cusinato alla mia traduzione dell’Eterno nell’uomo di Max Scheler, emerge da almeno due elementi.
In primo luogo, quando mi fu chiesto di tradurre l’Eterno nell’uomo di Max Scheler, nel novembre 2007, uno dei coordinatori della collana della Bompiani in cui è apparso mi mise in guardia, dicendomi che il mio lavoro avrebbe suscitato delle opposizioni, perché tra gli studiosi del fenomenologo tedesco c’era chi puntava ad avere il monopolio delle nuove edizioni italiane delle opere di questo autore. All’epoca presi l’avvertimento senza darvi troppo peso. Sebbene la persona che lo pronunciò godesse della mia massima stima, mi parve perlomeno stravagante la pretesa di «accaparrarsi» un pensatore non italiano, tanto letto e tradotto in tutto il mondo. Non mi preoccupai neppure di verificare a chi si riferisse l’indicazione e mi dedicai al mio lavoro senza pensare più alla cosa. Finché, curiosa coincidenza, a un mese dall’uscita nelle librerie della mia traduzione, arriva l’impietosa recensione di Cusinato. L’accusa di essere un’incompetente, che traspare da ogni parola dell’articolo, mi arriva proprio per la mia traduzione di Scheler. Non alla mia prima traduzione di un’opera di fenomenologia, né alla seconda, né alla terza. No, alla quarta. Forse è un caso, così come è un caso il fatto che Cusinato ha dedicato quasi tutta la sua carriera accademica a Max Scheler. Di certo ne è esperto, ma ci si può domandare se abbia mantenuto un rapporto sufficientemente obiettivo con il suo autore, se ha mantenuto quell’equilibrio tra distacco e dedizione così necessario per impedire che uno studioso divenga fazioso.
In secondo luogo, penso che ogni recensore debba innanzitutto domandarsi che cosa un lettore interessato si debba aspettare dalla recensione alla nuova traduzione di un classico della filosofia. Mi sembra ragionevole supporre che il lettore in questione vorrà sapere se 1) la traduzione è chiara e rispettosa del testo originale e 2) se l’introduzione aiuta a comprendere il testo. Il Cusinato non si occupa minimamente né della prima né della seconda questione. Sembra, mi perdoni se mi sbaglio, che non gli interessi affatto offrire un servizio ai potenziali lettori del volume. Se, però, si tiene in considerazione il bene del lettore, così come il medico tiene in considerazione il bene del paziente, le critiche del Cusinato diventano del tutto marginali, come frecce ostinatamente conficcate sul palo che tiene in piedi il bersaglio.
A questo punto la cosa migliore sarebbe mettere la parola fine alla mia risposta. Quando c’è il dubbio che una discussione sia motivata non da un sincero desiderio di approfondimento, bensì dalla volontà di aumentare il proprio prestigio denigrando il lavoro altrui, accanirsi nel dibattito mi pare sia una perdita di tempo sia per chi accusa sia per chi deve difendersi. Tuttavia, dato che la mia traduzione è apparsa in una collana che gode di un certo prestigio e poiché parte dell’operazione intentata contro la mia traduzione è volta a dimostrare che l’accusato non sa rispondere, procedo. Distinguo dunque le obiezioni di Cusinato in tre gruppi, a seconda che le ritenga basate su argomenti a) falsi, b) discutibili, c) opinabili.
È falso affermare che le note di Maria Scheler all’edizione tedesca dell’Eterno nell’Uomo sono dei commenti al testo. Chiunque può verificare che Maria Scheler ha svolto rispetto alle opere di Max Scheler un lavoro preziosissimo, ma puramente editoriale, e non interpretativo. Le note della Scheler contengono dati come l’indicazione del titolo delle opere citate dall’autore senza riferimenti precisi, la segnalazione di quali opere sono citate da Scheler come progetti futuri, ma non furono mai pubblicate, i luoghi in altre opere in cui Scheler parla di argomenti simili a quelli affrontati nel testo, e così via. Il contenuto di queste indicazioni è dunque formato da informazioni che si possono ottenere anche attraverso la conoscenza generale di Scheler e confrontando gli indici analitici delle sue opere. È dunque ambito delle scelte opinabili, ma del tutto lecite, la decisione presa da me in accordo con la direzione della collana, di riprendere tali indicazioni senza citare volta per volta Maria Scheler. Il Cusinato omette di dire che gli apparati sono più ampi rispetto a queste indicazioni, e che il lavoro editoriale dell’edizione italiana ha incluso anche la revisione integrale del testo tedesco (correggendo due errori di stampa). Questo è il motivo per cui la curatrice dell’edizione italiana lo è anche del testo a fronte.
È falso quanto insinuato da Cusinato sulla relazione tra Hildebrand e Scheler. Se diamo credito alle testimonianze dirette, e in particolare agli articoli scritti da Hildebrand alla morte di Scheler e alla biografia su Hildebrand pubblicata dalla moglie (1), sappiamo che i rapporti tra i due non si incrinarono affatto con il matrimonio tra Scheler e Märit Furtwängler. Al contrario, il fidanzamento tra Hildebrand e Märit era stato rotto volontariamente e di comune accordo nel 1909 e Hildebrand fece di tutto per incoraggiare il matrimonio della ex-fidanzata con Scheler, che ebbe luogo nel 1912. I rapporti tra Scheler e Hildebrand furono troncati dodici anni dopo, quando Scheler abbandonò la Chiesa cattolica e divorziò da Märit per sposare Maria Scheu, mentre i rapporti tra Märit e Hildebrand si interruppero quando quest’ultimo, alla morte di Scheler (1928), pubblicò gli articoli citati, che presentavano l’autore dell’Eterno nell’uomo non solo nelle sue luci, ma anche nelle sue ombre. Furono riallacciati solo alcuni anni prima della morte di entrambi, negli anni Settanta del ventesimo secolo. Per dare fondamento alle affermazioni di Cusinato su questo punto, si dovrebbe dimostrare che sia Dietrich sia Alice von Hildebrand si sono inventati tutti gli episodi narrati nei testi citati che si riferiscono a Scheler dopo il 1912. Mi chiedo su quali prove si basa la tesi di una così consistente opera di falsificazione. Se, invece, come penso, i rapporti tra Scheler e Hildebrand furono proprio come descritto dalle fonti che ci sono pervenuti, non ha senso screditare le valutazioni fatte da Hildebrand sull’evoluzione del pensiero scheleriano. Si può dissentire sull’interpretazione, ma il dissenso deve essere fondato su argomenti più solidi dell’accusa personale e non può ignorare i fatti.
È falsa l’affermazione che, a pagina 155 del volume, il termine «Leib» è stato tradotto con «materia» per incomprensione del significato del termine in Scheler. Cusinato naturalmente omette di dire che il termine Leib compare decine di volte nel testo, ed è sempre tradotto con «corpo». Ma a riconferma dell’obiettività dei propri giudizi anche tace sul contesto dal quale ha estratto questo caso specifico, contesto che è invece necessario per capire la traduzione. Scheler sta descrivendo il fenomeno del pentimento e intende mettere in luce le concezioni di questo atto che egli ritiene errate. Utilizza allora una analogia tratta dall’ambito medico, e poi inserisce una frase per tornare all’argomento in esame. È proprio in questa frase la parola contestata da Cusinato: «Unsere Natur enthält eigenartige Stufen ihres Seins, die nicht, wie flache Monismen wollen, auf eine einzige zurückzuführen sind: Geist, Seele, Leib, Körper». La traduzione recita: «La nostra natura contiene diversi gradi di essere, che non possono venire ricondotti ad uno solo, come vorrebbero certi piatti monismi: spirito, anima, materia, corpo». L’inserimento nella sequenza «Geist, Seele, Leib, Körper» ha spinto la traduttrice a sottolineare la gradualità dell’essere introdotta da Scheler, inserendo il concetto di materia accanto a quello di corpo. Per essere precisi, il termine «materia» è riferito a Körper, ma è stato anticipato per indicare la simmetria tra la sfera incorporeo-spirituale e quella corporeo-materiale. Si tratta comunque di una sfumatura, teoreticamente non rilevante, visto che la frase è di passaggio: appena dopo, Scheler riprende a parlare del pentimento. Ebbene, questa singola traduzione secondo Cusinato è una prova a favore del fatto che nelle oltre 440 pagine del volume tradotto non si è capito nulla del concetto di corporeità in Scheler.
È discutibile la pretesa di Cusinato di trovare, in una traduzione di un’opera di un filosofo, un saggio specialistico e sistematico sul filosofo stesso. La Bompiani mi ha affidato il compito di tradurre l’opera di Scheler, di controllare il testo tedesco e di introdurlo al potenziale lettore. La collana in cui il testo è apparso ha proprio come suo pregio quello di rendere disponibili ad un pubblico vasto i capolavori del pensiero occidentale. È strano che il Cusinato non si sia reso conto che non poteva essere la sede per un testo per pochi eletti e sarebbe stato un errore impostare l’introduzione dedicandola ad essi.
È anche discutibile la pretesa di Cusinato di trovare la bibliografia completa di Scheler in un libro quale quello da me curato. Sapendo che il volume con testo a fronte avrebbe avuto più di mille pagine, non mi è sembrato utile appesantirlo di altre cinquanta o più con una bibliografia che avrebbe interessato solo pochi, era facilmente reperibile in Internet, e nel giro di un paio d’anni sarebbe risultata datata, aumentando il costo del volume. La traduzione del Formalismo nell’Etica curata da Caronello citata da Cusinato è del 1996, quando la ricerca bibliografica era ancora un lavoro artigianale e offrire una bibliografia completa su cartaceo era un’opera utile. Ho invece ritenuto utile pubblicare l’elenco delle opere contenute nell’opera omnia di Scheler, citando le edizioni italiane corrispondenti. Ritengo comunque discutibile l’idea che il valore del lavoro debba dipendere dal numero delle pagine di bibliografia. Sorge il sospetto che il disappunto di Cusinato non sia altro che conseguenza del fatto che nella bibliografia da me consigliata per chi vuole acquisire una conoscenza generale di Scheler (2), i suoi saggi non siano stati citati. Non è perché non li conosco, ma è perché li ho letti e, pur non dubitando della competenza del loro autore, ho ritenuto che non fossero adatti allo scopo di facilitare ad un lettore non esperto l’accesso alla filosofia di Scheler.
È infine del tutto discutibile e scorretta la pretesa di Cusinato di attribuire a me illazioni che sono solo ed esclusivamente sue. Ad esempio, contrariamente a quanto affermato con disinvoltura da Cusinato, dire che Scheler concorda «con l’autore delle Ricerche Logiche nella convinzione che l’intuizione dei dati sensibili non potesse essere la fonte di tutta la conoscenza» (Premoli) (3) non equivale affatto a dire che «nelle Ricerche Logiche si sosterebbe che l’intuizione categoriale non si fonda su quella sensibile» (Cusinato), né dire che «Scheler ha sempre affermato e difeso la portata trascendente dell’intenzionalità» (Premoli) (4) equivale a dire che «in Husserl l’intenzionalità rimane invece tutta interna a una coscienza solipsistica» (Cusinato). Sorprende una così palese manipolazione delle affermazioni altrui da parte di chi accusa altri di scarsa serietà scientifica.
Ritengo, infine, opinabile l’obiezione di Cusinato rispetto alla traduzione del termine Funktionalisierung. Mi risulta che il termine compaia solo in un’altra opera di Scheler, e precisamente in Ordo amoris (5), a pagina 57 dell’edizione italiana pubblicata dalla Morcelliana a cura di E. Simonetti (2008). Ebbene, anche qui ha prevalso l’intenzione di offrire una traduzione quanto più possibile comprensibile. Il termine funzionalizzazione non esiste in italiano e so per esperienza – più di un lettore me lo ha fatto notare in passato – che l’introduzione di termini non riconducibili a concetti già noti aumenta notevolmente la difficoltà del testo per il lettore non esperto. Posso concedere al Cusinato che la decisione di rendere il concetto con «applicazione funzionale» o «entrare in funzione» possa non piacere, ma non che sia frutto di una scelta arbitraria. Nella nota al punto citato di Ordo amoris il Simonetti stesso spiega il concetto come «una sorta di graduale acquisizione da parte dell’individuo di conoscenze … a priori e pure … che vengono poi applicate ad ogni successiva esperienza». Mi sembra che questa descrizione non sia affatto lontana dal significato dell’espressione da me scelta.
Mi sembra che l’analisi fatta, che non prolungo per non annoiare ulteriormente il lettore, sia sufficiente a sollevare almeno qualche dubbio sull’attendibilità dei giudizi lapidari di Cusinato. Tutta la vicenda pone solo due questioni filosofiche dotate di qualche interesse: che cosa spinge uno studioso serio ad attaccare la credibilità altrui su argomenti così deboli e inconsistenti? Sono quelle mostrate dal Cusinato le caratteristiche di quel sereno dibattito filosofico, fedele alle cose stesse, che il Phenomenology Lab si propone di portare avanti?
Note:
(1) D. von Hildebrand, «Max Scheler als Ethiker», in Hochland, 21 (1924), p. 626-637; idem, «Max Schelers Stellung zur Gedankenwelt», in Der katholische Gedanke, 1 (1928), 4, p. 445-459; idem, «Max Schelers als Persönlichkeit», in Hochland, 26 (1928), p. 70-80; i tre articoli sono stati ripubblicati in D. von Hildebrand, Die Menschheit am Scheideweg, Regensburg 1955, p. 587-639; A. von Hildebrand, The Soul of a Lion. Dietrich von Hildebrand, a Biography, Ignatius Press, San Francisco 2000.
(2) Introduzione a Max Scheler, L’eterno nell’uomo, Bompiani 2009, nota 2.
(3) Introduzione, cit., p. 12.
(4) Ivi, p. 31.
(5) Nota a fine testo n. 6 a p. 122.
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Mi sento in obbligo di fare tre notazioni tecniche del tutto marginali, senza voler supportare una delle parti nella sostanza della diatriba.
1) La traduzione di Leib nel passo citato con ‘materia’ è senza dubbio un errore, anche se forse non un errore grave: la menzione dei livelli di Geist, Seele, Leib und Koerper fa chiaramento riferimento ai quattro livelli del sentire e dell’ordinamento assiologico che Scheler propone a partire dal Formalismus. Nella gerarchia assiologica scheleriana Leib è la dimensione dei sentimenti vitali, superiore ai sentimenti di sensazione del Koerper ed inferiore ai sentimenti dell’anima (come il ‘bello’). Cambiare l’ordine e tradurre Koerper con materia e Leib con corpo è fuorviante, soprattutto perché in questo contesto Koerper non indica la mera materia inanimata.
2) Funktionalisierung, così a memoria, lo ricordo come termine tecnico importante anche in Probleme einer Soziologie des Wissens, ed inoltre nella forma verbale ‘funktionalisieren’ è nettamente più presente. Ma al di là della sua frequenza d’uso è termine che ha assunto una considerevole importanza nella tradizione critica scheleriana. Su fatto poi che sia improprio tradurre il termine con funzionalizzazione, mi permetto sommessamente di dissentire: funzionalizzare compare in svariati vocabolari italiani, e funzionalizzazione è da tempo utilizzato nel linguaggio filosofico e scientifico, negli ultimi decenni soprattutto per tradurre l’inglese ‘functionalization’.
3) Quanto alle note di Maria Scheler è sempre buona norma accademica citare le fonti, anche quando sono di seconda mano ed integrate da ulteriori commenti. Certo, se un Wittgenstein si astiene da questo uso non mi adonto, vista la sostanza in gioco, ma in un lavoro critico non è opportuno sottrarsi a questi obblighi verso il lettore.
Detto questo è ovvio che se i problemi di questa edizione fossero solamente quelli qui menzionati, non ci sarebbero davvero gli elementi per una stroncatura, e neppure per una critica severa, a maggior ragione visto il terribile livello delle traduzioni filosofiche in Italia. (Sarei tentato a fini di intrattenimento della community di citare qualcuna delle cialtronerie che ho trovato in una recente traduzione di un libro di Dennett…) Non avendo ancora avuto modo di soffermarmi adeguatamente sull’oggetto del contendere, non sono in grado di giudicare oltre. Tuttavia la traduttrice farebbe bene ad ammettere i punti deboli laddove essi non siano difendibili: se sono davvero solo tre o quattro episodi, il livello del lavoro non ne è certo compromesso.
Ormai siamo abituati a leggere molte recensioni in forma di promozione editoriale. Certo può dispiacere al diretto interessato, ma invece una recensione può porsi al servizio del lettore proprio argomentando un giudizio fortemente critico. Se faccio una recensione negativa a una importante traduzione di Max Scheler potrebbe semplicemente significare che ritengo di trovarmi di fronte a un lavoro non fatto bene. È una ipotesi da prendere in considerazione. Non rincorro invece la fantasiosa tesi della “rappresaglia annunciata” (del resto il monopolio in Italia sui diritti d’autore per le traduzioni di Scheler è scaduto nel 1998, e non era certo in mio possesso). Penso di aver contribuito anch’io alla diffusione del pensiero di Scheler fra i giovani lettori e sono anzi sempre contento se appaiono nuove traduzioni di questo filosofo. Continuo tuttavia a ritenere questo lavoro purtroppo un’occasione mancata, con gravi limiti sia nell’Introduzione (e mi pare di aver esplicitato a sufficienza il motivo) che nelle note al testo, e con una traduzione per alcuni versi discutibile (ma che non era il bersaglio della recensione visto quello che si vede in giro). Non dunque critiche del tutto marginali «come frecce ostinatamente conficcate sul palo che tiene in piedi il bersaglio», questa semmai è piuttosto l’impressione che mi suscitano proprio le repliche di Premoli de Marchi.
Per non annoiare mi limito però a una sola osservazione. Non è falso quanto ho affermato su von Hildebrand: quando Scheler conobbe nell’estate del 1908 Märit Furtwängler, questa era la giovanissima fidanzata di von Hildebrand. Non ho neppure affermato che i due troncarono per questo la loro amicizia. Ma il punto non è questo. Quello che ritengo discutibile è che l’Introduzione induca il lettore a pensare che l’ultimo periodo della filosofia scheleriana sia stato devastato dal disordine della sua vita privata «generando un enorme regresso filosofico» (p. 87). È una tesi che ha pesato sull’ultimo Scheler per quasi un secolo con concrete ripercussioni sulle interpretazioni dell’ultimo periodo. Forse è tempo per dire qualcosa di nuovo e di diverso, per lo meno esponendo in modo un po’ più approfondito di quanto abbia potuto fare Premoli de Marchi anche le altre interpretazioni. Capisco von Hildebrand, che si convertì al cattolicesimo anche sotto l’influsso di Scheler e rimase quindi comprensibilmente scosso dall’allontanamento di Scheler dalla Chiesa cattolica dopo il 1922, capisco meno Premoli De Marchi. Non c’è il rischio in questo modo di misurare la validità di una filosofia sul metro della vicinanza o meno alla propria fede religiosa?
Mi permetto anch’io di intervenire nel dibattito, precisando che ho solo sfogliato la nuova edizione a cura di Premoli De Marchi e che quindi l’oggetto delle mie considerazioni è esclusivamente la querelle innescata dalla recensione di Cusinato in questo sito.
A me pare che nella sua recensione Cusinato abbia semplicemente esaminato il lavoro di curatela della nuova edizione italiana del testo di Scheler, valutando, dal suo punto di vista, gli elementi costitutivi di ogni curatela: contenuti e metodo dell’introduzione, qualità della traduzione, accuratezza dell’apparato di note.
L’esito dell’esame per Cusinato è stato evidentemente negativo e nella sua recensione l’autore fornisce diverse ragioni a sostegno del suo giudizio (che, per inciso, mi paiono del tutto condivisibili: soprattutto non mi convince affatto la giustificazione, fornita dalla curatrice, della resa di “Leib” con “materia” nel passo incriminato; quanto poi a “Funktionalisierung”, si tratta di un termine assolutamente centrale nella riflessione degli anni Venti, le cui occorrenze sono numerose, p. es., negli scritti compresi tra il ’25 e il ’28).
Premoli De Marchi ha adottato due diverse strategie per reagire alla recensione di Cusinato: da un lato ribatte punto su punto (in modo non sempre convincente, a mio giudizio), dall’altro, però, sceglie soprattutto di puntare su un’altra strategia (come palesa il titolo della sua replica), consistente nell’introdurre un argomento ad hominem, in base al quale la recensione sarebbe “una rappresaglia annunciata” nei confronti della curatrice e della collana da parte dello scheleriano risentito, perché non citato e privato del monopolio sulla ricezione del “suo” autore in Italia.
Come tutti gli argomenti ad hominem, anche questo si rivela essere inconsistente, oltre che decisamente poco elegante: e se la stessa-precisa-identica recensione fosse stata scritta da un laureando della triennale che conosce Scheler a menadito, senza tuttavia aver mai pubblicato nulla? Ciò che conta sono i contenuti della recensione, non il suo autore o i suoi moventi nello scriverla. Mettiamo anche, per ipotesi, che la recensione sia stata effettivamente concepita da Cusinato come una “rappresaglia”: e allora? Questo dovrebbe forse di per sé automaticamente annullare la validità dei rilievi critici in essa sollevati o dovrebbe avere una qualsiasi altra funzione utile e chiarificatrice, all’interno di un confronto sul valore di una pubblicazione?
A questo punto della discussione mi permetto di proporre ai lettori un piccolo quiz: chi sa dire quanti degli illustri studiosi intervenuti – più o meno esplicitamente – a sostegno delle critiche del Prof. Cusinato hanno dichiarato di aver letto il libro del quale si sta discutendo? Il conto è presto fatto: neppure uno! Anzi, tutti hanno affermato di non averlo letto. Ci troviamo di fronte a due spiegazioni possibili. O in alcuni la conoscenza di Scheler può elevarsi a livelli tali da non aver più bisogno del banale contatto con i dati di esperienza – la lettura della traduzione incriminata – per valutare la fondatezza dei giudizi formulati dal prof. Cusinato. Che il sapere raggiunto sia una conoscenza a priori in senso trascendentale, una conoscenza per fede (in Cusinato?) o pura scienza infusa non ci è dato di sapere. Oppure siamo testimoni di un fenomeno del massimo interesse per l’era digitale: il dibattito filosofico è diventato virtuale!
Mi permetto d’intervenire, premettendo di non avere ancora letto a mia volta il volume. Ho intenzione di farlo, tuttavia. E dato che non mi guadagno il pane con la filosofia, credo di poter essere classificato tra i lettori di tutti coloro che mi hanno preceduto. Mi piacerebbe, tra l’altro, ce ne fossero via via sempre di più sul nostro blog, di lettori, dato che una delle preoccupazioni che la filosofia, soprattutto italiana, dovrebbe porsi, è proprio quella del suo pubblico, se ancora ne ha uno. Ora, da questo punto di vista, vorrei rassicurare Paola Premoli De Marchi. Guido Cusinato ha espresso critiche impegnative, ma certo muovendo da una conoscenza del testo. Da lettore, ma anche da giornalista, ne ho preso volentieri atto, soprattutto perché abituato a confrontarmi con la realtà editoriale italiana, in cui raramente – ma molto raramente – la recensione è qualcosa di più di una velina editoriale o, peggio, di uno scambio di cortesie accademiche del tutto ininteressante e fuorviante per il lettore. Questo significa che ho preso come una sentenza definitiva quello che Cusinato, per quanto autorevole scheleriano, ha scritto? Ma ci mancherebbe. Anzi, ho letto ben volentieri le repliche altrettanto circostanziate che Premoli De Marchi ha opposto, e che senz’altro in alcuni punti mi sono apparse ridimensionare il giudizio drastico del recensore. Quel che c’e’ di troppo in questa discussione, semmai, e su cui invito tutti davvero, in tutta onestà, a riflettere, è quel trasferire sul piano improprio della rivalità e disputa accademica la discussione, quando avremmo già e abbiamo moltissime cose interessanti da dire e da approfondire su quest’opera e su questa edizione. Come lettore non sono interessato, qualora ce ne fossero, agli eventuali retroscena accademici di quel che leggo. Posso persino arrivare a darli per scontati, anche perché non sono certo appannaggio solamente della professione filosofica (o volete che vi racconti come nascono le carriere dei direttori dei giornali?). Quel che m’interessa, in un blog di fenomenologi, sono le obiezioni e le controbiezioni, incluse certe meta-obiezioni, come quelle di Andrea Zhok e Giuliana Mancuso, che mettono a fuoco questioni di metodo tutt’altro che scontate, come anche questa nostra discussione dimostra. Sono state dette molte cose interessanti e precise in questo scambio, che per quanto mi riguarda, nonostante le critiche, porteranno L’eterno nell’uomo di Scheler tradotto da Premoli De Marchi felicemente sul mio comodino. La scommessa del Phenomenology Lab, che ha scelto di essere un blog e non l’ennesima testatina filosofica, è di fare in modo che ogni membro della community contribuisca autonomamente alla sua linea editoriale, con generosità e senza subire veti. La condizione perché questo avvenga, però, è che ognuno si faccia carico di rispettare l’interlocutore e il lettore, cercando di offrire sempre argomenti opponibili e di rispondere alle opposizioni con fermezza ma anche fairplay, trascurando circostanze di contorno sulle quali il lettore non può esercitare il suo giudizio. Perché, come ricordava Socrate al venerando e dottissimo Protagora nell’omonimo dialogo di Platone, quel che conta non siamo io e te, ma il discorso e solo quello. Altrimenti resta la regola diventatata generale routine nei giornali: “il libro non ti è piaciuto? Allora non parlarne”. Quelli insistono? “Allora resta neutro”. Così la cultura muore. E Il libro di Premoli De Marchi, ahimé, sul mio comodino non arriva proprio.
Mi permetto di aggiungere solo una considerazione generale alle sagge parole di Stefano: la suscettibilità personale (ultimo riflesso del culto umanistico per l’Autore) è un ostacolo non piccolo alla crescita di un’autentica comunità scientifica. E’ una dura lezione che si impara con gli anni: le critiche argomentate sono dure da inghiottire, ma fanno crescere.
Mi rendo conto, però, che lo stato attuale dell’università italiana non facilita lo sviluppo di una condizione mentale equanime e rilassata. Non ce lo diciamo forse sempre nei dopocena (magari digrignando i denti) che restare mentalmente sani nel nostro mondo è poco meno che un miracolo?
Mi sarei aspettato da Premoli de Marchi una replica più inerente alle obiezioni, visto che tutte quelle che ha fatto sono state contestate. Ma anche questa volta non delude e la butta sul personale. A questo punto, stimolato dal nuovo tema proposto su “chi legge che cosa”, aggiungo una breve osservazione. Ero rimasto molto colpito da una frase della replica di Premoli de Marchi: «Mi risulta che il termine [funzionalizzazione] compaia solo in un’altra opera di Scheler, e precisamente in Ordo amoris». È affermazione così palesemente non vera da far inevitabilmente sorgere dubbi sulla conoscenza dell’ultimo Scheler da parte di chi la scrive. Non vorrei che per il solo fatto che von Hildebrand ha affermato che con l’abbandono del cattolicesimo anche il modo di filosofare di Scheler mutò radicalmente, generando un enorme regresso filosofico (pag. 87 dell’Introduzione) si pensi che non valga la pena di leggere tutto quello Scheler scrisse dopo il 1922. Sarebbe un peccato perché il concetto di funzionalizzazione della conoscenza del divino, concetto centrale in L’eterno nell’uomo, nelle opere successive passa dal piano puramente gnoseologico a quello ontologico: non solo una funzionalizzazione della conoscenza di Dio, ma anche una funzionalizzazione del divenire di Dio stesso. È un passaggio che porta alla tesi del werdender Gott. Certo è una tesi che suscitò perplessità in un mondo cattolico come quello tedesco degli anni Venti, ma che non porrei automaticamente in contrapposizione con il teismo cristiano. Certo in questo senso ci sono alcune affermazioni di Scheler, ma ce ne sono anche altre che si muovono in senso esattamente contrario. Vorrei infine segnalare un parallelismo fra queste vicende e quelle dell’ultimo Schelling. Anche Schelling dopo lo Scritto sulla libertà, in cui aveva iniziato a porre il problema del diventar persona di Dio, venne accusato di “panteismo dinamico”, di ateismo mascherato e di essersi posto al di fuori del cristianesimo. Ma ci fu anche un importante interprete di Schelling di parere contrario, Horst Fuhrmans, che tentò di dimostrare come proprio l’idea del Dio diveniente permise a Schelling di dare nuovo slancio e di vivificare il teismo cristiano.
Sono pienamente d’accordo con le osservazioni fatte negli ultimi interventi riguardo al valore positivo del dibattito filosofico e del confronto di opinione. Ho scritto un libro su questo. Ciò che ha scatenato la mia ferma opposizione alla recensione di Cusinato non è una semplice reazione da orgoglio offeso, bensì una riflessione di carattere più generale. Penso che chi esercita una professione intellettuale si debba ritenere un privilegiato. Questo implica dei vantaggi, ma anche la responsabilità di svolgere un servizio che possa essere di giovamento ad altri. E questo ha le sue regole, se vogliamo citare il codice di deontologia medica, non solo l’operare «secondo scienza e coscienza» e il valutare secondo «autonomia e indipendenza di giudizio», ma anche l’evitare di discriminare gli altri per motivi di religione, etnia, sentimenti personali etc. La questione di fondo è se Cusinato nella sua recensione abbia rispettato queste regole oppure no. Se sia stato rispettoso dei fatti e dei potenziali lettori. Che non abbia rispettato l’autore, in fondo poco importa, anche se mi ha fatto sorridere un amico che, dopo aver letto la recensione, mi ha chiesto se ho rigato l‘auto del Prof Cusinato, per giustificare tanto livore. Se dunque, come ritengo, il dibattito è stato impostato nella sua radice in modo scorretto, ci si può porre la domanda se si possa comunque procedere con qualche risultato. Alcuni tra gli intervenuti ritengono di sì. A me sembra di no, perché nonostante i miei tentativi di chiarimento, Cusinato persevera nella propria intenzione di voler screditare me e il mio lavoro e non si smuove di un millimetro dal suo obiettivo, ignorando gran parte delle mie risposte alle sue obiezioni, mentre i suoi sostenitori hanno preso le sue difese senza aver letto il libro. Ho trascorso gli ultimi giorni nel reparto di chirurgia pediatrica di un ospedale della mia città, per stare accanto a mia figlia. Lei stessa si è resa conto di essere fortunata, perché presto tornerà quella di sempre, mentre questo non capiterà ad altri ricoverati nelle stanze accanto alla sua. Esperienze come questa fanno rivedere le proprie priorità. Ringrazio i lettori che hanno avuto la pazienza di leggere quanto ho scritto, si devono fidare del fatto che potrei andare avanti a rispondere alle singole obiezioni, come ho fatto nella mia replica, ma mi sembra che la sede per un dibattito sereno non sia questa. Lascio a Cusinato l’opportunità, che certamente non si lascerà sfuggire, di avere l’ultima parola e mi scuso con quanti – sia tra coloro che sono intervenuti, sia tra coloro che non l’hanno fatto – sarebbero sinceramente interessati a discutere sulle questioni sollevate dall’Eterno nell’uomo di Max Scheler.