Berlusconi ha dichiarato a Bonn giovedì 10 dicembre, tra una barzelletta e l’altra, che l’Italia si trova in una fase di transizione cui lui stesso intende porre fine dando al nostro paese una nuova forma. Mauro ha commentato il giorno seguente avvertendo dei pericoli dell’incipiente stato di eccezione in cui sulla base dell’acclamazione popolare si cerca di modificare la costituzione forzando la prassi costituzionale. Ieri sera, al termine di un comizio, uno squilibrato ha aggredito Berlusconi e gli ha rotto setto nasale ed un paio di denti. L’immagine del suo volto tumefatto è ormai nuovo stimolo per la nostrana politica dell’eccitazione.
Una politica che gioca con i sentimenti, gli amori e soprattutto gli odi della popolazione, con le emozioni e le paure. Una politica che alimenta ad arte questi moti dell’animo e li utilizza per legittimarsi. La stessa politica che rifiuta l’etica del dialogo in parlamento e nei confronti pubblici. Le passioni sono il cuore della politica, le passioni cieche e compulsive sono lo spirito del populismo. Di fronte a tutto ciò stupisce l’irresponsabilità di troppi intellettuali italiani. L’irresponsabilità di coloro che per partito preso non prendono posizione. Da anni ormai. Ma perché si confonde in questo paese il prendere posizione con lo schierarsi?
Un intellettuale ha il dovere di prendere posizione. Di giudicare secondo ragione, di mettere sotto analisi i giudizi ed i pregiudizi che guidano l’agire pubblico. Molti cosiddetti liberali invece si fregiano molto spesso della propria imparzialità, della propria impoliticità e trasparenza. Dare le notizie senza prendere posizione, perché ogni presa di posizione sarebbe inficiata di moralismo: e chi non può oggi non citare la “tirannia dei valori” di Schmitt?
Una politica delle passioni forti e cieche e una classe intellettuale che non prende posizione per non schierarsi: benvenuti nell’Italia dell’irresponsabilità collettiva, il paese del giornalismo schierato e degli intellettuali omissivi.
Nelle tensioni di queste settimane capita spesso di imbattersi in argomentazioni che fanno uso di un particolare strumentario concettuale: “stato d’eccezione”, “tirannia dei valori”, “politeismo dei valori”, “etica della convinzione ed etica della responsabilità”, “giudizio assiologicamente indifferente”, etc. Si tratta di uno strumentario concettuale che viene tradotto dalla politologia e sociologia della transitoria repubblica di Weimar e viene poi applicato in casa nostra – dall’una e dall’altra parte, dai politici e dagli impolitici – un po’ ingenuamente, senza far caso alla tragedia di quella tradizione.
Partendo dal presupposti dell’esistenza di valori sotto forma di istanze assolutamente individuali e incomunicabili (politeismo dei valori) si postula l’impossibilità di un confronto dialogico e la necessità di uscire da tale tirannia, facendo responsabilmente i conti con la dura realtà. La realtà è fatta di rapporti di forza e di equilibri: bisogna privilegiare la stabilità oppure accettare che ci siano temi eticamente sensibili, per così dire irrazionali, dove deve vigere lo stato d’eccezione. Lì ha luogo il mistero e l’indicibile. Se l’equilibrio viene messo in crisi spetta al potere più forte sancire uno stato d’eccezione e dare nuova forma al sistema. Il mistero e il carisma non sono estranei a questa “Realpolitik”, ma sono il perno dell’intera argomentazione. Si accetta il primo sotto forma di autorità divino-religiosa, cui si può non credere, ma a cui conviene obbedire, come se dio ci fosse. Si ammira il secondo nella fascinosa e tremenda capacità politico-mediatica di muovere le folle.
L’Italia è una repubblica costituzionale, i cui valori cioè sono sanciti da una costituzione che è nata in un confronto serrato, nel dialogo tra differenti culture politiche che hanno scelto di condividere una base istituzionale e valoriale come orientamento per il futuro agire politico. Nella pratica di un’assemblea costituente viene meno il primo principio della precendente argomentazione: il politeismo dei valori e la loro incomunicabilità. Non si vuole negare né la pluralità dei valori, né la contingenza storica di ogni gerarchia tra di essi: è appunto a partire dalla pluralità delle preferenze che si può articolare un dialogo per stabilire una convergenza minima non su singoli valori, ma sulla priorità da dare ad essi all’interno dello spazio politico. L’etica della responsabilità è stata contrapposta da Max Weber all’etica della convinzione. Etica della convinzione è traduzione di “Gesinnungsethik”: ovvero etica del proprio modo di sentire, pensare, vivere. Nel dialogo costituzionale e parlamentare si dovrebbe cercare di creare il terreno per un comune modo di pensare, di sentire di vivere. Si dovrebbe perciò dare vita ad un’etica pubblica, un’etica che non è scevra di convinzioni: un’etica che sulla base di convizioni personali articola nel confronto una fragile convergenza su cui stabilire un’etica delle convinzioni pubbliche. In questa prassi dialogica responsabilità e convinzioni hanno bisogno l’una dell’altra, non si escludono.
Oggi assistiamo però ad un progressivo disamoramento nei confronti di questa radice costituzionale. La costituzione è vecchia, si dice, senza distinguere i valori costituzionali e l’impianto istituzionale. La forma istituzionale non è indipendente dai valori costituzionali: è il tentativo di dare forma normativa ad essi. Dato però che ogni norma è legata al contesto sociale e storico a cui viene applicata è posibile che la forma normativa sulla base degli stessi valori possa essere modificata senza tradire i valori costituzionali per poter essere applicata ad un nuovo contesto. La costituzione è vecchia, si dice, e si allude implicitamente anche ai valori che in essa sono espressi. Un mese fa un noto opinionista ha affermato che l’insegnamento della costituzione a scuola lede la libertà degli individui e nega il valore dell’individualità della persona. In questo modo si farebbe dei valori della costituzione, i quali sono sempre e soltanto contingenti, una religione. Una religione politica che ha asfissiato e asfissia ancora il nostro paese. Perché mai uno scolaro non potrebbe avere il diritto di non accettare quei valori, si chiede Della Loggia?
In tal modo un noto intellettuale italiano si pone al di fuori della costituzione: argomenta cioè a favore dell’indifferenza nei confronti dei valori fondanti la nostra repubblica, in nome della libertà e contro una presunta congiura di cui i liberali come lui sarebbero vittime. Non è un caso che chi argomenta così sia anche a favore di una legislazione teocratica sull’inizio e fine vita. Come si è visto lo stato d’eccezione, incensato o unto che sia, è al cuore di questa argomentazione tardo weimariana.
Le tensioni e le violenze di questi giorni lascieranno spazio alla riflessione ed al dialogo? Potrà nascere il desiderio di dare forma politica e razionale alle passioni che infiammano le nostre piazze? Affinchè questo sia possibile sarebbe necessaria maggiore responsabilità. Tra chi predica e starnazza in pubblico non se ne vede molta.
«È possibile fare una ragionata difesa del populismo pur restando nell’alveo dei principi democratici, anzi magari proprio in nome di quei principi? Penso di sì. Penso cioè che oggi, in Europa, il populismo, o ciò che viene così chiamato, non sia altro, nella sua essenza, che un’ovvia reazione alla crisi proprio di quei principi, alla loro mancata traduzione in pratica da parte dei regimi che pure si dicono democratici». È l’incipit di un articolo di Ernesto Galli della Loggia, dal titolo Il tempo del populismo che non va demonizzato, comparso sul Corriere della Sera il 7 luglio 2009. Leggendolo, potrebbe forse sembrare troppo malizioso concludere che il virus di Carl Schmitt si stia insinuando tra le righe di molti nostri commentatori politici di fede liberale (benché in alcuni casi solo recentemente acquisita). Bisogna esaminarlo tutto, l’articolo di Galli della Loggia (che peraltro ha suscitato dibattito, ma meno di quanto ci si potesse attendere), e riconoscere che contiene elementi di veritiera diagnosi del senso d’impotenza che la classe politica proclamantesi erede dei valori delle democrazie europee sorte dalla Seconda Guerra Mondiale trasmette al “popolo”. Eppure, non si sarebbe potuto dire lo stesso (e non era d’altronde un cavallo di battaglia dello stesso Galli della Loggia prima del suo “compagni, addio”?) della fragile classe dirigente liberale uscita dalla Prima Guerra Mondiale? Certo. Fu dunque solo per questo inevitabile o addirittura transitoriamente auspicabile l’ascesa del fascismo? Non direi (o sì?). E poi: secondo quale credibile argomento, anche soltanto guardando a chi nel nostro Paese di questo populismo è interprete, si può seriamente sostenere che esso sia espressione, come scrive Galli della Loggia, «dei molti e dei piccoli contro i pochi e grossi» e che le regole, il cui rispetto è oggi da molti invocato, «non devono servire a sbarrare il fatto a nuove idee, a nuove forze, a nuovi valori?». Questo modo di travestire da scientifica e disincantata analisi di un presunto e quasi inesorabile corso della storia, una precisa e ampiamente discutibile opzione politica, è un esempio del dissimulato cinismo che ha invaso parte influente della nostra classe intellettuale, che rischia di fare scontare ai giovani di oggi il fallimento pluridecennale delle proprie scelte, spacciando per l’ennesima volta come inevitabile quel che in cuor suo forse banalmente, per qualche ragione, semplicemente auspica (magari solo per dire: io l’avevo detto…). Il punto vero e primo, infatti, non è se favorire o quanto meno non ostacolare «le nuove idee, le nuove forze, i nuovi valori che avanzano» (cito sempre Galli della Loggia). Ma decidere se quelle idee, quelle forze e quei valori, meritino davvero di essere sostenuti, e in che misura, nel quadro imprescindibile della dialettica costituzionalmente condivisa. Quindi, scegliere se e come ostacolarli, assecondarli, bilanciarli, promuoverli secondo le regole comuni sancite dalla Carta. Invece, di fronte alla parola taumaturgicamente invocata, “nuovo”, con lo scrupolo liberale anche l’acume analitico si spegne, giacché potrebbe destare sorprese, e si muta in visione, in profezia quasi. E per antica consuetudine ci s’inchina, ancora una volta irresponsabilmente, “alla storia e al suo farsi”.
Prendere posizione non è necessariamente schierarsi. Questa distinzione di Emanuele Caminada potrà apparire sottile, in un momento come questo. Eppure, che non si percepisca bene la differenza fra le due cose è un sintomo della profonda insufficienza intellettuale, filosofica, che ogge affligge la maggior parte di coloro che avrebbero fame e sete di giustizia. Non vedere questa differenza è precisamente non vedere alcuna possibilità di una fondazione ragionevole del pensiero pratico, ritenere ovviamente impossibile che le nostre convinzioni su quello che una società civile dovrebbe essere, sui principi che ispirano le norme di convivenza di chi vi appartiene,siano soggette alla giurisdizione della ragione. Cioè siano, come qualunque giudizio, soggette all’impegno di mostrare a chiunque me lo richieda implicitamente o esplicitamente le basi di evidenza che ho per il giudizio stesso: se pretendo che sia un giudizio giusto devo far vedere perché ritengo che lo sia. Convincersi di questo equivale ad affrontare la questione della giustificazione del giudizio di valore, cioè smontare finalmente il grande errore che si annida alla radice di tutte le tragedie del secolo scorso, errore di cui si nutre tanto l’ignobile (perdonate) sofistica schmittiana di alcuni sedicenti liberali di oggi, quanto l’affannata buona volontà di molti intellettuali impegnati a sinistra. Questo errore è che non siano le cose, le azioni, le situazioni, le persone, ad avere qualità di valore positive o negative, ma solo i soggetti a crederlo, su base irriducibilmente irrazionale, soggettiva, religiosa o comunque destituita di ogni universalmente accessibile evidenza. E allora non resta che questo: “right or wrong, my party”. Accidenti, non è Massimo Cacciari che ha insegnato Carl Schmitt a tutto spiano negli ultimi vent’anni?
E invece, mentre è oggi doveroso per chi ritenga che la nostra democrazia sia veramente in gravissimo pericolo (io sono fra questi) “schierarsi” nel senso di far volume di resistenza con tutti coloro che non sono disponibili a subire la vittoria del modello di populismo autoritario che secondo Galli della Loggia sarebbe migliore di una democrazia liberale e di diritto costituzionale, è doveroso anche – ed è cosa connessa ma distinta – spiegarsi: prendere posizione, e mostrare che questa posizione è giusta e perché lo è. E tuttavia, non si argomenta veramente che nel quadro di un linguaggio condiviso, il linguaggio di una ragione pratica che le neosofistiche del secolo scorso – soggettivismi, relativismi, nichilismi, pensieri tragici, weberismi e schmittianesimi – hanno soffocato sul nascere, e che gli eredi del formalismo kantiano non possono bastare a far rinascere: il kantismo morale è cosa nobile, ma come tentativo di fondazione razionale del pensiero pratico non riesce. Perché ignora ciò di cui l’azione e le passioni che la guidano si nutrono: il sentire e il desiderio. Perché si rifiuta di cercare lì, dove si deve, il principio per porre norme: norme al sentire giusto, al desiderio giusto.
Proprio per questo Husserl sosteneva che l’intera modernità ha fallito nel compito che le era stato affidato – l’eidetica del bene, l’etica: là dove il mondo antico aveva posto su solide fondamenta l’eidetica del vero, la logica.
Il compito che ci resta – che solo i più giovani di noi riusciranno a portare a termine, forse, è immenso.
Già, siamo nella mota fino al collo e nessuna preoccupazione per ciò che ci aspetta come involuzione culturale e politica è esagerata. Come si confà ad ogni raziocinante, cerchiamo un colpevole come origine causale (aitia) su cui concentrare le nostre energie per modificare lo stato di cose presente.
La colpa di questa pietosa situazione è degli intellettuali? Beh, come non condividere i giudizi letti sopra sull’abdicazione culturale pelosa e sulla povertà morale di parte consistente della casta intellettuale più ascoltata?
Oppure la colpa è del ‘popolo’? In effetti, al di là della captatio benevolentiae pre-elettorale per cui “la gente non è stupida”, chiunque il popolo lo frequenti, anche occasionalmente, sa che la gente per lo più non è stupida, ma è certamente, in media, in una condizione di minorità culturale che non ne rende i giudizi in alcun modo razionalmente probanti. Insomma, non è spocchia elitaria constatare che il ‘popolo’, ancorché non propriamente stupido, non è di norma nelle condizioni di comportarsi, quanto ad azione collettiva, altro che stupidamente.
Oppure la colpa è della classe dirigente? E come non concordare sul fatto che, se da un lato l’Infortunato di Arcore è ciò che è (e mi astengo da commenti perché non voglio la Digos in casa), l’opposizione di sinistra è pateticamente alla ricerca di idee che riempiano in qualche modo di sangue e convinzione le loro esangui gesticolazioni politiche.
O infine la colpa è nostra, di ciascuno di noi? E vai giù con una bella autoflagellazione seguita da doccia di cenere.
Ora, da lettore di Dostoevsky credo che siamo tutti colpevoli, quelli citati ed altri ancora, e che ciascuno debba fare onestamente ed umilmente ciò che può, su di sé, nel proprio intorno e fin dove arriva la propria voce ed il proprio esempio. Ma da lettore di Marx (si può dire?) credo anche che la storia non sia da trattare come se fosse fatalmente una dimensione comoda, che ci consegna scuse pronte per sottrarci all’azione. Non è questo il luogo per analisi di lungo periodo della storia italiana, europea, occidentale, ma il fatto che le scorciatoie giornalistiche all’analisi storica giungano di norma solo a ciò che Nietzsche chiamava ‘storia critica’, cioè ad una forma di depotenziamento sistematico di ogni autorità ed ogni fondamento, non credo ci autorizzi a liquidare la dimensione storica come ‘grande narrazione’ (o magari ‘grande confabulazione’) latrice di inerzia. Anche se non è incarnazione del fato, ed anche se le persone (nel bene e nel male) contano, ciò che sta accadendo in Italia deve essere descritto come parte di una tendenza generale, europea e mondiale, da cui ci distinguono solo alcune peculiarità note, come la bassa scolarizzazione, la disomogeneità di sviluppo, la criminalità organizzata, ecc. In assenza di tale livello di comprensione ogni rivendicazione corre il rischio di restare un soliloquio da Cavaliere dell’Ideale.
E giusto per non essere solo destruens, aggiungerei la seguente sociologia in pillole.
Lo sviluppo macroscopico essenziale per intendere le criticità odierne del nostro paese sta nella generale tendenza al divergere tra complessità sistemica e capacità individuale di controllo. Da un lato, ad ogni livello, dall’interdipendenza economica globale, all’aumento della velocità nelle comunicazioni e transazioni, all’incremento delle specializzazioni nel lavoro e nel sapere, alla ridotta prevedibilità dei comportamenti altrui (provenienti da retroterra sempre meno facilmente identificabili), alla semplice estensione demografica dei gruppi di riferimento, tutto tende a rendere un’ordinaria esistenza razionale sempre meno dominabile nelle sue dinamiche e direzioni, individuali e collettive. Nella misura in cui siamo chiamati ad esprimere un giudizio razionale che connetta mezzi e fini secondo una sequenza causale plausibile, quanto al medio-lungo termine siamo in una condizione di minorità assolutamente nuova. A ciò peraltro non fa da contraltare un’accresciuta capacità individuale di intervento, e ciò per molte ragioni, tra cui una, dolente, è il funzionamento ordinario della democrazia in un contesto storico liberale: come fautori, contestatori e teorici della democrazia hanno sempre saputo, nella democrazia è insito il rischio della demagogia, del populismo e poi anche della tirannide, e questo per ovvi motivi. Nella recente contemporaneità questi motivi hanno trovato una nuova incarnazione: l’espressione di una ragione collettiva si può dare solo seguendo moduli inferenziali che siano a disposizione della mediana della popolazione (il gruppo medio/mediocre/maggioritario). Da ciò segue che una brutale semplificazione non è semplicemente una opzione politica, ma una rigorosa necessità. E la semplificazione dev’essere tanto più brutale quanto meno culturalmente attrezzata, e quanto più disorientata dalla complessità crescente, la mediana della popolazione è. In una condizione dove la sensazione di dominare cognitivamente e materialmente la propria esistenza è ridotta ai minimi termini, l’ovvia reazione è la ricerca di brutali semplificazioni (e di brutali semplificatori). A questa tendenza di fondo si può ovviamente cercare di porre argini di natura istituzionale, economica ed educativa. In molti paesi europei tali argini sono attivi e vanno dall’esistenza di funzioni politiche mediatorie (tipo ombudsman), ad un investimento educativo ampio oltre che intenso, all’introduzione di svariati livelli di controllo effettivo su e di limitazione a dinamiche di mercato (agenzie antitrust, agenzie pubbliche di protezione dei consumatori, sindacati), ad un funzionamento relativamente agile della giustizia, soprattutto civile. In Italia, a fronte di un retroterra educativo, legale ed organizzativo un poco peggiore della media europea, gli interventi in questa direzione negli ultimi trent’anni sono stati nulli. I nostri argini sono un antitrust senza denti, un ordinamento giuridico a pezzi e sindacati divisi ed invisi. In questo contesto l’intellettualità italiana di governo scopriva con un secolo di ritardo la Scuola Austriaca in economia, e quella d’opposizione cantava le lodi della gaia Complessità.
In conclusione, se questo sfogo disarticolato può avere una conclusione, direi che i nostri problemi non riguardano la possibilità di confutare i Galli della Loggia od insegnargli a pensare, ma l’esigenza di sostituirli, possibilmente da ieri. Ed i nostri problemi non riguardano affatto un eccesso di storicismo cui ci inchineremmo in una confortevole rassegnazione, bensì la generale pochezza di come la storia (e la scienza, e l’economia, e la politica) è trattata e discussa. Le uniche idee veramente pericolose sono quelle pensate poco.
Più che uno sfogo disarticolato, il commento di Andrea mi pare una succinta sinossi dei problemi teorici e pratici che abbiamo di fronte, nella quale è tutt’altro che facile trovare varchi e smagliature. Prima di provarci, non per spirito di polemica ma al contrario perché ne condivido in larga parte assunti e conclusioni, vorrei provare a tirare un poco le fila di questa discussione innescata dall’articolo di Emanuele, che ha tratto spunto dalla cronaca politica contingente inquadrandola in un quadro culturale e teorico dal quale non si può prescindere se si vuole dar conto di quel che accade. Il titolo che vorrei provvisoriamente suggerire al tema è Ragione pratica e ragione storica: differenze essenziali e rapporti di fondazione. Da lettore di cose fenomenologiche, è il titolo in cui da molti anni mi sarei voluto imbattere e che invece, forse per mia negligenza, non sono ancora riuscito a trovare in libreria, neppure universitaria. Della storia, dei concetti necessari per interpretarla, in effetti, a me pare che in Italia e non solo, la fenomenologia non si sia occupata a sufficienza. Può darsi che ricordi male o non sia adeguatamente informato, ma salvo qualche tentativo di sintesi con il paradigma hegelo-marxista e/o strutturalista non ricordo scavi che siano andati oltre la variazione, meritevole e suggestiva, ma tutt’altro che bastante, sui temi della Krisis, un testo che risale ormai a oltre settant’anni fa. Emanuele, con il suo commento, in fondo, ci ricorda anche questo vuoto, che il rinnovato e meritorio interesse, anche editoriale, per gli inediti husserliani sull’intersoggettività e sull’etica nonché per il corpus scheleriano, colma soltanto in parte. In effetti, dentro e fuori l’Accademia, oggi circolano vecchie e nuove varianti di storicismo (contro cui, ricordiamolo, Husserl eleborò i temi della Krisis), che tradiscono, non di rado su paradigma evoluzionista, una forte nostalgia non soltanto per una filosofia della storia ma addirittura per una filosofia della natura capace di illuminare anche la storia. Si pensi alle “grandi narrazioni” di best seller della pop science come Il gene egoista di Richard Dawkins (1976) o all’avvincente Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond (1997). Ma anche a testi specialistici come le affascinanti opere di teoria e storia della letteratura di Franco Moretti (per esempio Opere mondo, Einaudi 1994), forse non a caso docente a Stanford, la stessa Università di Cavalli-Sforza. Accanto a una storiografia minuta un po’ perduta in analisi di dettaglio quasi cronachistiche o biografistiche, quindi, si applicano oggi al lungo periodo paradigmi di derivazione scientifica in cui le scelte degli individui, le loro opere, piccole e grandi, scolorano fino a svanire tra le tinte del grande affresco. Polveri hegeliane sugli stivali della storia? Non so. Certo nessuno degli autori citati ammetterebbe un accostamento del genere. E tuttavia se, come ha scritto proprio Franco Moretti «La fisica non sostituirà mai Esiodo, perché non si pone le stesse domande», resta da capire esattamente quali siano le une e le altre. E come le domande che la ragione storica pone al presente vadano intrecciate con quelle che il presente pone alla ragione etica e alle sue radici nei desideri, nelle passioni, nelle emozioni individuali e collettive (che Roberta ha ricordato). Non ci si può meravigliare, quindi, se, come scrive Andrea, in questa nostra epoca «tutto tende a rendere un’ordinaria esistenza razionale sempre meno dominabile nelle sue dinamiche e direzioni, individuali e collettive». Un uomo disturbato attenta in modo esecrabile ma certo tutt’altro che imprevedibile a un presidente del consiglio che soltanto due settimane prima, come fosse John Lennon, campeggiava sulla copertina di Rolling Stone (non del Time) nella veste di “rockstar dell’anno”. E tutta l’Italia, anziché interrogarsi sulle falle nella sicurezza e sull’irresponsabile imprudenza che hanno esposto a un pericolo del genere un capo di governo italiano, e con esso le istituzioni e tutti noi, s’interroga sulle ragioni dell’odio e dell’amore nei confronti di una persona, Silvio Berlusconi, che in quanto tale nessuno di noi fondamentalmente conosce né dovrebbe avere motivo di conoscere oltre una ragionevole soglia. I fatti non esistono più. Al loro posto vanno in scena (e naturalmente in onda) fattoidi: icone dalla parvenza di fatto, come le rockstar appunto. Alcun attentato politico è avvenuto. Ma in grazia della sua proposizione mediatica è come se lo fosse. E dunque si deve discutere se e in che misura legiferare per impedire che libertà e democrazia siano messe in pericolo da minoranze sediziose. Non è questo un caso esemplare del modo in cui la realtà storica sia oggi resa irreale ancor prima che solleciti in noi una qualche domanda? E di come la ragione etica, su queste basi, non possa mai pervenire a una risposta valida, giacché l’oggetto stesso su cui dovrebbe prendere posizione, l’estemporanea aggressione a un capo del governo non adeguatamente protetto, è stato trasferito sul piano a priori assurdo dell’amore o dell’odio che ognuno dovrebbe o meno provare personalmente per lui? Non si può fare a meno delle narrazioni, anche di quelle grandi. E non ho mai condiviso la prospettiva angusta di chi ha giudicato lo storicismo tout court una miseria. Si tratta di riconoscere, però, che se non si recupera un senso eticamente giustificato, perché sottoposto a limpida e consapevole norma della ragione pratica, del fare storia, non sfuggiremo alla tirannide dei fattoidi, siano piccoli o grandi. Non vi sfuggirà la cronaca come l’ambiziosa sintesi volgarizzatrice, l’opera accademica insigne come la ricostruzione giornalistica.
P.S. Per misurare la cultura politica che informa il nocciolo duro dell’attuale governo e il disegno politico che persegue, consiglio la lettura (senza mediazioni “sediziose”) dell’intervento di Denis Verdini, coordinatore nazionale del PdL, co-fondatore di Forza Italia, proveniente come Marcello Dell’Utri dai vertici di Publitalia, la società che occupa della raccolta pubblicitaria per la Fininvest, pubblicato il 18 dicembre su Il Giornale. In particolare laddove parla del presunto “surplus di legittimazione” che all’attuale capo del governo verrebbe dalla Costituzione materiale della Seconda Repubblica (è la ripresa dell’argomento di Gaetano Pecorella, deputato del Pdl e avvocato di Berlusconi, in gioventù militante di Potere Operaio, quindi di Soccorso Rosso, Democrazia Proletaria e Psi, in favore del lodo Alfano). Difficile districarsi anche qui tra i “fattoidi”. La cosiddetta Seconda Repubblica è una comoda, ma tutt’altro che pacificamente accettabile, formula giornalistica per qualcosa che, sempre in procinto di nascere, non è mai nato. E allora s’inventa un altro fattoide, una presunta Costituzione materiale, che ne dovrebbe puntellare l’esistenza, in attesa di una nuova Carta costituzionale che ne sancisca finalmente l’avvento. E la maggioranza degli italiani? Terzo fattoide, naturalmente sta dalla parte dei due fattoidi precedenti e in una misura sufficiente a giustificare quel “surplus di legittimazione” che non può che costringere chi non è d’accordo a miti consigli se vuole partecipare alla riscrittura del patto nazionale. Altrimenti, pazienza, si farà da soli. Non c’è male come patto. Purtroppo per Verdini, i fatti – non i fattoidi – sono altri. E non c’è bisogno di essere antropologicamente ostili a Berlusconi in quanto “uomo della pubblicità” – come curiosamente si ostina a ripetere, forse perché da piccolo gli negavano Carosello, Pierluigi Battista – per ricordarli: Berlusconi ha e ha sempre avuto nel Paese, quando non ha perso, un piccolo vantaggio elettorale, sovracapitalizzato attraverso accordi di scambio politico traballanti e una legge elettorale iniqua per stessa ammissione di chi l’ha concepita; e ciononostante, e nonostante una opposizione politica divisa e balbettante, non riesce a governare se non a colpi di provvedimenti d’emergenza e trovate di propaganda. Non so attraverso quale percorso intellettuale e morale si possa arrivare a concepire che il modo storicamente più naturale di uscire da una situazione come questa sia modificare unilateralmente la Costituzione ultrarafforzando l’esecutivo contro metà del Paese. Non vedono la spirale regressiva, forse? O forse la vedono fin troppo bene? Chi lo sa… Forse, più banalmente, a forza di vivere di propaganda, si finisce per credervi.