Un’occasione mancata. A proposito di: Max Scheler, L’eterno nell’uomo, Milano, Bompiani 2009, a cura di Paola Premoli de Marchi.
Aspettavo con una certa impazienza la nuova traduzione di L’eterno nell’uomo di Max Scheler. Un testo importante, con pagine geniali sul concetto di pentimento e sullo slancio all’origine della filosofia, nonché l’ambizioso progetto di dar vita nella Germania disorientata del primo dopoguerra a una profonda riflessione sulla filosofia della religione.
L’intento del contributo è chiarito fin dalla prima pagina: a proposito della vasta letteratura secondaria su Max Scheler, Premoli De Marchi nota che «l’esistenza di questa ricca tradizione di studi scheleriani, può essere un’arma a doppio taglio […] può comportare il pericolo di lasciare chiusa la porta che conduce alla comprensione di ciò che Scheler ha scritto […] per questo motivo, è apparso opportuno applicare a questa nuova traduzione dell’Eterno nell’uomo il primo comandamento [ ?? ] della fenomenologia, enunciato da Husserl nelle Ricerche logiche, ossia l’invito a «tornare alle cose stesse». Obiettivo della presente edizione è quello di facilitare al lettore il contatto diretto, il Sachkontakt, all’Eterno dell’uomo» (pag. 6). Cioè lasciar perdere le discussioni finora avvenute e lanciarsi in un corpo a corpo diretto con il testo di Scheler. È un passo che alimenta inevitabilmente grandi aspettative nel lettore.
Purtroppo le aspettative vengono deluse già nella riga successiva, quando Premoli De Marchi precisa che purtroppo anche il testo di Scheler è un’opera «di grande difficoltà» (pag. 6). Premoli De Marchi, con grande onestà intellettuale, si rende conto che un corpo a corpo con il testo sarebbe al di sopra delle proprie capacità per cui sceglie di «limitare le note a margine del testo al minimo indispensabile […] e di impostare l’introduzione nella forma di un invito alla lettura, più che di un nuovo contributo alla discussione di questioni specifiche» (pag. 6).
E qui il lettore comincia a preoccuparsi. Prima si denuncia che fare riferimento alla ricca tradizione di studi scheleriani è «un’arma a doppio taglio» che va contro il “primo comandamento” di Husserl secondo cui è meglio rifarsi direttamente zu den Sachen selbst, cioè al “testo stesso” di Scheler. Ma poi osserva che il testo di Scheler è un’opera «di grande difficoltà», per cui si opta per una Introduzione riassuntiva del “già detto”, che in ogni caso non ha la pretesa di essere un «nuovo contributo alla discussione», rinviando in nota alla ricca letteratura sull’argomento. Ma se il lettore va alla nota numero 2, a pagina 89 scopre che in 17 righe Premoli De Marchi liquida tutta la letteratura su Scheler. Altro che quel povero Caronello, il quale nella sua Introduzione alla traduzione italiana del Formalismus aveva scritto una bibliografia di 60 pagine.
A questo punto il cerchio si chiude: Premoli De Marchi afferma che non ha la minima intenzione di confrontarsi direttamente con la ricca tradizione di studi scheleriani, ma poi resasi conto che pure il testo di Scheler è «di grande difficoltà», ripiega su di un’Introduzione “espositiva”, prendendo in considerazione solo una parte molto limitata e parziale della letteratura esistente sull’argomento. In pratica non ho voglia, o non posso, confrontarmi seriamente né con la letteratura critica né con il testo stesso.
Poche volte gli scritti di un autore corrispondono nei fatti così efficacemente agli intenti enunciati dallo stesso. Le novità interpretative tuttavia non mancano, specialmente nel confronto fra Husserl e Scheler. Scopriamo così che Scheler concorda «con l’autore delle Ricerche Logiche nella convinzione che l’intuizione dei dati sensibili non potesse essere la fonte di tutta la conoscenza» (pag. 12). In altre parole: nelle Ricerche Logiche si sosterebbe che l’intuizione categoriale non si fonda su quella sensibile. Ora invece questa è proprio la critica che Scheler rivolge a Husserl. Ma lascia perplessi anche l’affermazione secondo cui al contrario di Husserl «Scheler ha sempre affermato e difeso la portata trascendente dell’intenzionalità» (31). Si spera che questo non implichi l’adesione al vecchio pregiudizio secondo cui in Husserl l’intenzionalità rimane invece tutta interna a una coscienza solipsistica.
Il metodo è appunto quello di riprendere qua e là alcune tesi, ma senza discuterle o argomentarle. Faccio un esempio: a pagina 86 si afferma che l’ultimo Scheler descriverebbe «vita e spirito, come forze che si oppongono in tutto il mondo e anche nel divino». Ora argomentare e discutere avrebbe significato far notare che l’ultimo Scheler afferma in modo inequivocabile che lo spirito è fin dall’inizio impotente e privo di forze. Per cui o questa interpretazione su Scheler è scorretta, oppure Scheler sta dicendo una cosa contraddittoria in quanto uno spirito impotente e senza forze non può opporsi con la forza alla vita. Ecco in questo caso magari non sarebbe stata inopportuna una citazione di supporto riportando il passo esatto su cui si basa l’interpretazione della Premoli De Marchi. È qui che non farebbe male la capacità di uscire dai sentito dire per ritornare a quel zu den Sachen selbst che sta a cuore anche a Premoli De Marchi.
Una tesi di fondo Premoli De Marchi comunque ce l’ha. È quella secondo cui l’ultimo periodo della filosofia scheleriana sarebbe stato travolto dal disordine della vita privata. È una tesi nota: Scheler sarebbe stato un genio fino al 1922, poi sarebbe successo qualcosa nella sua mente e la sua prospettiva filosofica si sarebbe annebbiata. Per sostenere questa tesi Premoli De Marchi si rifà all’opinione di un filosofo che conosce bene: Hildebrand. Tuttavia anche in questo caso ci si aspetterebbe un’argomentazione più rigorosa: Hildebrand non è una fonte attendibile, per il semplice fatto che fu coinvolto profondamente proprio da quel disordine della vita privata di Scheler citato da Premoli De Marchi. Appena diciottenne Hildebrand incontra Scheler a Monaco e nel giro di poco tempo ne rimane totalmente affascinato. Purtroppo Scheler, già sposato, non trova niente di meglio che portargli via la giovanissima fidanzata (cfr. W. Mader, Max Scheler, Hamburg 1980, 42).
Con questo non affermo che la tesi della rottura sia in sé sbagliata, anzi su alcuni punti la condivido, tuttavia mi aspetterei che più che sulle impressioni personali di un amico, quanto meno ferito, si fondasse sull’analisi e la discussione critica di certe pagine del Formalismo, o con le bellissime pagine su “Crescita e diminuzione della conoscenza naturale di Dio” di l’Eterno dell’uomo, pagine in cui è già presente quella teoria della funzionalizzazione che costituirà poi l’ossatura dell’ultimo periodo.
Per quanto riguarda la nuova traduzione la questione è se costituisca o meno un effettivo passo in avanti rispetto alla prima traduzione italiana, quella di Ubaldo Pellegrino comparsa nel 1972 presso le edizioni Fabbri. Onestamente non mi sento di poter dare una risposta affermativa. Mi limito qui a due osservazioni. A pagina 155 il termine Leib viene tradotto con “materia”. In ogni filosofo ci sono termini decisivi. Ebbene in Scheler Leib è uno di questi: è il corpo-vivo e pulsante che si contrappone al corpo-fisico (Körper), una distinzione alla base di tutta la fenomenologia della corporeità e al centro della seconda parte del capolavoro di Max Scheler, il Formalismo. Anche se fosse una svista, tradurre Leib con “materia” denota poca dimestichezza nei confronti del pensiero di Scheler (che cosa direbbe uno studioso di Merleau-Ponty se corps vécu o corps propre venisse tradotto con “materia”?). La seconda osservazione riguarda una questione di sfumature. Tradurre «Funktionalisierung von Wesensanschauungen» con «applicazione funzionale dell’intuizione delle essenze» (p. 531) rischia di annacquare un altro dei termini centrali della filosofia di Scheler, quello di “funzionalizzazione”. Lo stesso vale per la traduzione di «Indem Wesenseinsichten sich also funktionalisieren» con «Quando le intuizioni essenziali entrano in funzione» (p. 523). “Funzionalizzarsi” in Scheler non significa “entrare in funzione”, ma dar vita a un complesso processo apriorico come quello prodotto dall’ordo amoris.
Per finire una considerazione sull’apparato di note di commento al testo (pp. 1083-1090). Qui alla domanda se sia stato fatto qualche progresso rispetto all’edizione precedente si è costretti a dare una risposta nettamente negativa. Il problema non è che il commento risulti piuttosto limitato, di questo eravamo già stati avvertiti a pagina 6. La questione è quella di capire chi lo abbia veramente scritto. Nelle “Avvertenza per il lettore” a pagina 88 non si fa alcun riferimento al commento di Maria Scheler presente nell’edizione tedesca, ma poi se si va a controllare, tranne qualche modesta variazione, le note coincidono non solo nel contenuto, ma anche nel luogo dove vengono introdotte. Lo stesso problema si pone per le note a pie pagina del testo: le note fra parentesi quadrata nel testo sono seguite dalla dicitura “n. d. C.” per cui il lettore penserà automaticamente a Premoli De Marchi, in realtà quelle che ho controllato risultano essere una traduzione delle note di Maria Scheler. Un esempio per tutti: la nota fra parentesi quadrata a pagina 429 corrisponde alla nota 156 di Maria Scheler a pagina 465 del testo tedesco. Pellegrino nella precedente edizione italiana aveva seguito un metodo simile, ma nella “Avvertenza” a pagina 107 della sua edizione specificava che le note di commento erano di Maria Scheler. Invece il lettore della nuova traduzione è indotto a credere che l’apparato delle note di commento al testo sia di Paola Premoli De Marchi.
Mi sembra opportuno almeno concedere ai lettori del sito del laboratorio di fenomenologia la possibilità di prendere in considerazione gli obiettivi perseguiti nella nuova traduzione dell’eterno nell’uomo di Max Scheler da me curata. Lo scopo dell’opera era quello di rendere nuovamente accessibile, possibilmente ad un pubblico più vasto dei professori universitari esperti di Scheler in Italia (che si suppone possano agevolmente leggere il testo in lingua originale, sia perché sanno il tedesco, sia perché hanno a disposizione bibilioteche che contengono l’opera omnia dell’autore) un testo non più in commercio da quarant’anni. Da questo obiettivo sono derivate tre scelte (come tali discutibili, ma non penso né ingenue né irragionevoli) concordate con i coordinatori della collana: 1) la traduzione non poteva essere uguale a quella di Pellegrino, per ovvi problemi di diritti d’autore; si è allora deciso di privilegiare la leggibilità, anche a costo di introdurre delle variazioni rispetto ad altre traduzioni, ma il testo a fronte lascia agli esperti la libertà di dissentire sulle soluzioni trovate; 2) gli apparati di Maria Scheler non potevano essere semplicemente copiati, per gli stessi problemi di diritti d’autore, ma sono stati citati, non integralmente, quando riportavano dati utili alla lettura e oggettivi (riferimenti ad opere, etc.) 3) l’introduzione non poteva avere le caratteristiche di un saggio specialistico dedicato ai professori universitari esperti di Scheler di cui sopra, perché ciò avrebbe prodotto un testo, forse scientificamente più apprezzabile per gli addetti ai lavori, ma né utili né comprensibili per chi, avendo una conoscenza filosofica di base, avesse deciso di accostarsi al testo di Scheler semplicemente perché interessato all’argomento trattato.
Concludendo, sono certa che la mia traduzione abbia dei limiti, e probabilmente sono di numero molto maggiore rispetto a quelli indicati dal prof. Cusinato. Sono disposta a discutere ciascuna delle sue obiezioni sui singoli punti, a partire dal rapporto tra Scheler e Hildebrand, sul quale mi sembra di avere fonti più dirette di quella citata dal prof. Cusinato. Quello che contesto, tuttavia, è il presupposto per cui avrei dovuto impostare una traduzione che è stata stampata in migliaia di copie pensando di avere come lettori solo quel gruppo ristretto di studiosi che non ne aveva bisogno. Sono fermamente convinta del fatto che chi dedica la propria vita alla ricerca debba sapere quando è il caso di aprire gli orizzonti del proprio lavoro e permettere agli appassionati – giovani laureati, docenti liceali, perfino autodidatti – di accostarsi ai capolavori della storia della filosofia. Mi sembra del tutto sterile l’idea che il filosofo debba avere come interlocutori solo altri filosofi.
Paola Premoli De Marchi
Concordo perfettamente sul fatto che chi dedica la propria vita alla ricerca debba saper aprire gli orizzonti del proprio lavoro anche ai non specialisti uscendo dall’autoreferenzialità accademica. Per questo ritengo fondamentale adoperarsi per rendere accessibili al lettore italiano anche capolavori filosofici da tempo non più reperibili sul mercato. In questo senso la ritraduzione di “L’eterno nell’uomo” di Max Scheler va salutata, in sé, come un fatto positivo. Quello che mi lascia perplesso è piuttosto il ragionamento sui diritti d’autore: se il commento è, con qualche piccola modifica, quello di Maria Scheler, sarebbe stato corretto segnalarlo al lettore. Se non si vogliono correre rischi con i diritti d’autore la soluzione migliore è sempre quella di scrivere un commento nuovo, anche tenendo conto che quello di Maria Scheler è ormai largamente datato.
Mi pare che questa polemica sia in tipico stile accademico italiano: un professore deluso (da che cosa? dal fatto di non essere stato interpellato per la traduzione?) attacca una giovane (?) traduttrice mettendola sul personale in modo fastidioso e ambiguo.
La sostanza delle critiche, d’altra parte, costituisce esattamente il motivo e la dimostrazione del fatto che le migliori teste della filosofia non si trovano più in Italia: autoreferenzialità, chiusura e, spesso, anche spocchia.
Tempi duri per l’accademia e la filosofia italiana, da cui ormai mi tengo alla larga.
Vincenzo Gambini – Alabama (USA)
Mi spiace obiettare a Vincenzo Gambini, che ringraziamo per il suo commento, ma una delle ragioni per cui il Phenomenology Lab è nato è esattamente quella di provare a rendere un po’ più pubblico e trasparente, e dunque utile, il dibattito filosofico e accademico italiano, anche quando, come in questo caso, riguarda argomenti specialistici. Non ho letto nulla di particolarmente personale nei rilievi mossi da Guido Cusinato alla comunque meritoria impresa di Bompiani e Paola Premoli De Marchi, ma osservazioni critiche circostanziate, che naturalmente possono anche non essere condivise. Invito quindi tutti a cercare di arricchire di contenuto la discussione, che offre molteplici spunti non solo agli scheleriani stretti, approfittando di questo spazio pubblico e libero. Esso sì insolito nell’accademia e filosofia italiana.
Mi riservavo di intervenire nel dibattito dopo aver avuto il tempo di leggere l’introduzione della traduttrice alla sua comunque grandemente meritoria fatica. Ma l’intervento di Vincenzo Gambini, cui peraltro ha già validamente risposto Stefano Cardini, mi induce a un piccolo anticipo.
Si vede che noi Italiani siamo proprio fatti così: facili a infiammarci, magari prima di aver controllato la sussistenza dei fatti che ci infiammano, e altrettanto inclini a cadere nell’inerzia, nell’indifferenza, nella rassegnazione – quando vanno male le cose che non ci toccano da molto vicino. Mi sorprende molto, in effetti, la reazione di Vincenzo Gambini – soprattutto perché mi sembra fraintendere di molto il senso e la trasparenza della libera discussione che questo sito nasce per far esistere! Mi stupisce anche molto che uno intervenga per distribuire lezioni e riprovazioni – ma non sulla cosa stessa di cui si parla, alla quale neppure accenna. Che strano: si fa così in Alabama?
Chiuso questo capitolo, vorrei per il momento soltanto dire che ho ricevuto con gratitudine la copia della nuova traduzione con testo a fronte de L’eterno nell’uomo, fresca di stampa: e che le splendide sue pagine, lette nel vivacissimo e difficile tedesco di un grande pensatore ancora troppo ignorato, mi hanno di nuovo dato una gioia profonda, come la prima volta. Non ho ancora affrontato la traduzione, né come ho detto l’Introduzione della curatrice. Ma vorrei sottolineare due cose.
La prima è che la comunità filosofica tutta intera deve una gratitudine davvero profonda a tutti coloro che si sobbarcano l’impresa di rendere di nuovo disponibile un grande classico – e in un momento, oggi in Italia, in cui tanto bisogno ci sarebbe di quella “passione per le distinzioni” che è nel cuore della fenomenologia – in particolare delle distinzioni pertinenti al dominio del religioso: fra il sacro e il profano, fra lo spirituale e il temporale, fra salvezza e conoscenza, fede e metafisica, religione e teologia, spiritualità e politica. Questa gratitudine si fa ancora più profonda di fronte a una scelta che comunque tutela l’oggettività della cosa stessa al di là di ogni sforzo di fedeltà e della sua buona riuscita: il testo originale a fronte. Una scelta onerosissima per l’editore e infine anche per il traduttore, che accetta in questo modo la prova del confronto, senza potersi nascondere neppure per un attimo agli occhi del suo lettore ed eventuale critico. Ma solo così potremo correggerci a vicenda gli uni gli altri, facendo anche della traduzione un pezzo della ricerca di verità. Dunque di questo grazie, alla traduttrice e all’editore.
Il secondo punto ha a che fare con una delle osservazioni di Cusinato: è veramente possibile – gli faccio eco, senza però sapere se davvero questa tesi ha una centralità nell’organizzazione del discorso di Paola Premoli – sostenere la tesi “secondo cui l’ultimo periodo della filosofia scheleriana sarebbe stato travolto dal disordine della vita privata”? Ecco, chiunque sia chi l’ha per primo avanzata, questa tesi mi pare veramente inaccettabile, e io non so se più miope, più strana (cosa c’entra la vita privata?) o più ingiusta (disordine? e da che punto di vista, da che pulpito, a quale titolo?). Questo è certamente un’opinione personale, ma la esprimo perché ha un pochino a che fare con la recezione italiana di Scheler. Che è stata, per molti versi, distorta da motivi ideologici e in qualche modo “politici” (sia pure di politica culturale, fatta magari in buona fede), soprattutto in seguito a) alle tesi non facili da accettare per i cattolici più conservatori, che Scheler esprime anche ne L’eterno nell’uomo; b) agli esiti della sua cosiddetta “deconversione”. Sappiamo anche quanto male queste distorsioni hanno fatto alle vecchie traduzioni scheleriane, di cui conosciamo i limiti.
Sono sicura che questa nuova traduzione, anche attraverso la gratitudine e la collaborazione di tutti quelli che hanno qualcosa da dire, ci aiuterà a rimuovere questi limiti.
Ho l’impressione che purtroppo l’intervento di Vincenzo Gambini si sia limitato a sollevare un gran polverone con il risultato di far passare in secondo piano le mie obiezioni, molto circostanziate e documentate, rivolte non alla persona Paola Premoli De Marchi, di cui anzi apprezzo la precedente traduzione di von Hildebrand sempre presso la Bompiani, ma a un suo determinato lavoro: la traduzione di Max Scheler, L’eterno nell’uomo. Mi sembra pertanto fuorviante definire il mio contributo un tipico attacco personale in stile accademico, quindi senza diritto di replica: chiunque può intervenire per mettere in luce dove e perché le mie obiezioni sono infondate o per esprimere una opinione differente. Anzi mi pare che il dibattito dovrebbe essere ricondotto proprio alla figura e all’attualità di Max Scheler e alle altre iniziative editoriali che lo riguardano. Quanto a me stesso vorrei solo osservare che sono tanto poco esperto dell’arte accademica italiana da esser nell’Università italiana da soli quattro anni, dopo aver passato lunghissimi (ma anche piacevolissimi) periodi di ricerca all’estero.
Per amore di verità e senza polemica. Segnalo quello che mi risulta essere un errore storico nella recensione di Cusinato. Scheler non rubò la fidanzata a Dietrich, perché i due si erano già lasciati. Perciò Dietrich non aveva alcun motivo di risentimento, come invece Cusinato suppone. Anzi l’amicizia tra von Hildebrand e Scheler durò serenamente anche dopo che questi si mise con l’ex fidanzata di von Hildebrand. La ricostruzione di Alice von Hildebrand sulla base delle memorie di Dietrich al riguardo è piuttosto precisa. Siccome non conosco il testo che Cusinato cita, sto usando un tono non categorico. Insomma il giudizio personale di von Hildebrand non pare essere condizionato da ragioni personali.
Dopodiché, a scanso di equivoci, mi preme chiarire che non posso che concordare con chi pensa che i giudizi su un’opera filosofica vanno dati argomentando sul piano strettamente filosofico e comunque a prescindere dalle considerazioni personali sullo stato morale dell’autore. Ma ho l’impressione che su questo punto, in fondo, potrebbe essere d’accordo lo stesso von Hildebrand che nei sui testi su Scheler non ha liquidato certo l’amico di un tempo con semplici considerazioni di tipo biografico. Questo a prescindere dal fatto che gli argomenti di von Hildebrand convincano o meno.
A dir il vero rimango un po’ turbato dal fatto che di tutte le tematiche sollevate nella recensione l’aspetto più discusso ruoti attorno alle vicende personali di Märit Furtwängler e Dieter von Hildebrand, di cui non sono certo un esperto, ma ringrazio in ogni caso Terravecchia per l’osservazione puntuale. La fonte a cui mi riferisco, e che avevo citato, è il testo di Mader, che riporta uno scritto di Märit Furtwängler. In questo scritto Märit afferma di aver conosciuto Scheler nell’estate del 1908, quando era ancora al liceo e fidanzata con von Hildebrand, ma che nell’estate del 1909 Scheler e Märit si erano resi conto di amarsi e di non poter rinviare ulteriormente il matrimonio. Prendo atto che secondo la moglie di von Hildebrand nell’estate del 1909 Märit e suo marito si erano già lasciati, ma non a causa di Scheler. Quello che tuttavia criticavo nella recensione, e che continuo a ritenere sterile, era il fatto che non si può continuare a giudicare l’ultimo periodo della filosofia di Scheler ritornando a riproporre come decisivo il giudizio di von Hildebrand secondo cui la ragione della rottura nella filosofia dell’ultimo Scheler «andrebbe ricercata, ancor prima che nella dimensione teoretica, nelle vicende biografiche di Scheler» (Introduzione di Premoli de Marchi, p. 87). Questo giudizio è stato utilizzato per decenni come un disco rotto, cerchiamo di dire qualcosa di diverso.