Non verrebbe voglia di occuparsi di una questione così poveramente posta. E tuttavia forse va fatto. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha sentenziato, a seguito di una denuncia fatta da nostri concittadini, che nessun simbolo religioso, per rispetto della pluralità delle fedi e convinzioni delle persone, deve essere esposto in un locale pubblico. Naturalmente, è esplosa la polemica. Abbiamo letto di ministri della Repubblica che hanno invitato cristianamente i membri della Corte ad anticipare la loro assunzione in cielo (“devono morire”, Ignazio La Russa, ministro della Difesa) e di direttori di popolari testate che suggerivano loro, onde non pregiudicare ulteriormente una già ben deprecabile condizione morale, di assumere atteggiamenti spirituali più sobri (“i giudici Ue bevono troppo”, Vittorio Feltri, direttore de Il Giornale).
Anche dal mondo della cultura più laico e avvertito, però, si sono levate voci critiche. Tra le altre, quella di Claudio Magris, che ha spiegato dalle colonne del Corriere della sera, che il crocifisso, simbolo di sofferenza, non può offendere nessuno. All’incirca negli stessi termini si era pronunciato nei giorni precedenti su Il fatto quotidiano il solitamente ben più tranchant Marco Travaglio, in vena questa volta di cattolicissimi distinguo: Ma io difendo quella croce.
Allo scrupolo filologico di giornalisti e intellettuali non è rimasta naturalmente insensibile l’opposizione parlamentare all’attuale governo, che pur non beneficiata da una fede altrettanto veemente dei La Russa e dei Feltri, nella persona del neoeletto segretario del Pd Pierluigi Bersani, s’è attardata a dichiarare: “Io penso che un’antica tradizione come il crocefisso non può essere offensiva per nessuno”. Trascurabili, nella loro prevedibilità, le reazioni del Vaticano, “stupito e rammaricato”, e del governo, che ricorrerà contro la sentenza di Strasburgo.
Fin qui la cronaca. Ora facciamo un passo indietro. Quindi diamo una notizia, ignorata dai media. Infine poniamo rispettosamente una domanda, più che agli innumerevoli La Russa e Feltri, che non vogliamo distrarre dai loro nobili intenti patriottici e religiosi, ai non pochi Claudio Magris e Marco Travaglio.
Passo indietro. Tutti, ma proprio tutti, sanno che in Italia non esiste un movimento e men che meno un partito di una qualche vocazione maggioritaria che intenda seriamente abolire il crocifisso nelle scuole (a meno che qualcuno consideri l’Uaar qualcosa del genere).
Il crocifisso, lo ricordiamo bene, nella aule scolastiche qualche volta c’era, più spesso non c’era, e tutto questo nella pressoché totale indifferenza di insegnanti e studenti. Più regolarmente, e coerentemente con gli scopi istituzionali della scuola pubblica, stazionava semmai sulle pareti la fotografia del presidente della Repubblica, non meno incapace del nostro povero Gesù in croce, peraltro, di smuovere i sentimenti del distratto e annoiato uditorio.
Un giorno di qualche hanno fa, però, qualche sciocco (al quale non possiamo comunque non accordare un po’ della nostra simpatia) ha pensato bene di rimuoverne d’imperio uno, di crocifisso, convinto che questa fosse una strategia seria e lungimirante per portare avanti le ragioni della laicità della scuola pubblica e della società aperta. E un altro sciocco, decisamente meno simpatico, e fors’anche attraverso una circolare ministeriale, ha deciso di rispondergli per le rime. Naturalmente, come sempre accade tra gli sciocchi, l’ordine degli eventi potrebbe essere stato anche inverso. Il risultato però non cambierebbe. Perché da quel momento si è mobilitato in Italia un imponente movimento e partito mediatico, e non solo, erto a difesa del patriottico e sacro arredo, ed evocante a ogni piè sospinto, e ogni volta che altri sciocchi gliene offrano pretesto, un altrettanto vasto partito anticrocifisso di cui però, che peccato!, non si scorgono che pochi seguaci. Qualcuno, insomma, ha liberato la lepre. E tutti ora la rincorrono. Le cose vanno così nelle redazioni dei giornali. E non solo.
Ad avere un po’ di sale in zucca, verrebbe proprio voglia di non farsi coinvolgere dalla folle corsa, limitandosi a mettersi sul ciglio della strada ad aspettare con l’occhio divertito e curioso dell’antropologo (non ci ha appena lasciati Lévi-Strauss?) il momento in cui il trucco sarà svelato e tutti ce ne torneremo, scrollando testa e spalle, a distrarci e annoiarci nelle aule, cristianamente arredate soltanto nel senso tremontiniano, più che francescano, di miseramente (tra una disputa e l’altra sulla tradizione, varrebbe la pena di ricordare il futuro già qui di un taglio all’istruzione pubblica di 8 miliardi di euro e di 130mila insegnanti; non uno di religione).
Prima di rinunciare alla gara, però, una verità andrebbe detta. E cioè che è falso che tutti i cristiani vedano nel crocifisso che da anni piantona stancamente qua e là i nostri locali pubblici, un simbolo irrinunciabile della propria identità culturale e religiosa. Anzi. Sono stati pressoché ignorati, come è ovvio, ma è con parole aperte e chiare che i protestanti italiani hanno espresso il loro favore alla sentenza di Strasburgo: valdesi, battisti, luterani, evangelicali. Vabbè, si dirà. Bella scoperta: sono protestanti! E chi se ne importa? Ce ne importa, eccome.
E qui mi richiamo a un articolo pubblicato tempo fa da Anna Bortolan su questo blog, Stereotipi e sensibilità sociale, che aveva forse sollecitato in tutti noi più domande delle risposte che ci sentivamo in grado di dare. Riguardava il significato di essere e sentirsi italiani, la lotta ormai divenuta quotidiana contro uno stereotipo diffuso e pessimo, di cui ci sentiamo al contempo vittime e colpevolmente artefici. Ogni persona, quando cerca di qualificarsi, deve necessariamente ricorrere a una forma di racconto. E di questo racconto fa parte, volente o nolente, la sua cultura: l’etica, la morale, la religione, la storia, il sapere della comunità in cui è nato. Inclusa la tradizione, naturalmente. Oggi, però, nel nostro Paese, questo racconto, mai troppo unificato, si sta sfilacciando in forme particolarmente gravi. Sta infatti franando di sotto i nostri piedi il terreno non solo di una memoria condivisa, ma di una memoria qualsiasi, come attitudine (io credo molto filosofica) a dare sempre di nuovo un significato a quello che da bambini abbiamo appreso, ma che da adulti dobbiamo, all’occorrenza, saper anche scegliere.
Torniamo al nostro malinconico crocifisso. Ora: in che senso qui ci si appella, arrendendosi alla scolarizzazione coatta del Vangelo, alla tradizione? Forse che i cristiani valdesi, battisti, luterani, evangelicali, che non gridano allo scandalo, sono o si sentono meno cristiani o italiani degli altri loro concittadini, credenti e non credenti? Prima di chiederci che significato, pio o blasfemo, ecumenico o intollerante, il crocifisso può avere per un ragazzo ebreo, musulmano, induista, immigrato o meno, chiediamoci allora che cosa esso stia a significare per noi. Perché altrimenti la tradizione, e con essa l’intera nostra cultura, rischia di ridursi a una consuetudine e dottrina già fatta, da mandare pappagallescamente a memoria, a nulla che possa essere nuovamente ricreato o anche solamente ricompreso, ricondotto sempre di nuovo a evidenza e chiarezza. Tutto già pensato. Tutto garantito dalle quattro pilatesche parole: è stato sempre lì, non fa male a nessuno, è parte della nostra storia. Sì, appunto, ma di quale storia, propriamente?
Io credo di ricordarmene (ma se più di un intellettuale in questi giorni mi avesse offerto la sua di memoria, gliene sarei stato grato). Fa parte di quella porzione della storia d’Italia, infinitesima nel vasto alveo della tradizione del cristianesimo, che è la storia concordataria; ragion per cui, salvo qualcuno trovi il coraggio politico e civile di rimettere mano a quel patto tra Mussolini e la Chiesa cattolica, modestamente riformato nel 1984, il crocifisso resterà esattamente lì dov’è.
Ma siamo certi, allora, lo sono davvero i Magris e i Travaglio e i Bersani, che valga la pena di rivendicarla? Siamo certi che abbia un senso conveniente alla verità culturale, storica e infine etica e politica, confondere quella piccola storia con la grande storia del cristianesimo, così densa delle peggiori bassezze come delle più formidabili e luminose nobiltà, o anche soltanto con la più modesta storia italiana? Io non credo; e non perché m’abbia mai turbato il crocifisso in aula (nel male e nel bene, perché il turbamento, anche quello del giovane Toerless, può essere fonte di fioritura), ma perché mi spaventa l’incapacità che abbiamo di dare un senso alle parole che usiamo, ai temi che dibattiamo, a metterli nella giusta prospettiva, in quella luce intellettuale che sola può farci dire sì, sì, no, no.
Per questo, in questo Paese in cui non c’è più nessuno che non si professi liberale, voglio invitare soprattutto i giovani a leggere un grande storico, filosofo e liberale italiano, forse un tempo sopravvalutato, ma oggi di certo incredibilmente ma significativamente negletto: Benedetto Croce, quando il 24 maggio 1929 si pronunciò, insieme a soli altri cinque senatori, contro il Trattato e il Concordato fra la Santa Sede e l’Italia, le disposizioni per l’applicazione del Concordato nella parte relativa al matrimonio e quelle sugli Enti ecclesiastici e sulle amministrazioni civili dei patrimoni destinati a fini di culto.
Una lettura da scaricare e leggere, non solo e non tanto perché ci offre una misura della strumentalità e mancanza di profondità del dibattito contingente, ma perché contribuisce a illuminare quel sentiero pieno d’insidie che congiunge ragione storica e ragione pratica, politica ed etica, e sul quale spero che la fenomenologia torni a portare la sua luce chiarificatrice.
Ecco il passo, che oggi a mio giudizio suona quasi profetico:
«Consapevoli del passato solleciti dell’avvenire, noi guardiamo con dolore la rottura dell’equilibrio che si era stabilito. Non già che io tema, come si è fatto da taluni alle prime notizie degli accordi, il risorgere in Italia dello Stato confessionale, che porga il braccio secolare al Santo Uffizio e riaccenda i roghi (in aula rumori vivissimi), o che dia validità all’Indice dei libri proibiti, o risottometta l’educazione della gioventù ai concetti gesuitici. Queste aspettazioni e queste speranze possono nascere ed essere coltivate in chiusi luoghi muffiti, ma non nel vasto mondo operoso, pieno di sole e di calore. Il pensiero moderno, adulto e robusto, sfida simili assalti o velleità di assalti, e osserva ironicamente che i chierici stessi hanno bisogno di attingere dai suoi tesori di sapere e dai suoi metodi e dal suo costume quel che loro serve per non fare meschina figura nella letteratura e nella scienza e nella vita sociale. Ma, certo, ricominceranno spasimanti e sterili lotte su fatti irrevocabili, e pressioni e minacce e paure, e i veleni versati nelle anime dalle pressioni, dalle minacce e dalle paure. In questi ultimi mesi, io ho avuto più volte occasione di sentir fremere il più violento anticlericalismo non solo e non tanto in quelli della nostra fede, ma in altri che sono, o uomini del Governo, dalla vostra parte (rumori vivissimi); e ho ricevuto le confessioni di sacerdoti, di degni sacerdoti, che erano gravemente turbati e pensosi di quel che si preparava per le sorti della Chiesa nell’Italia e nel mondo».
Scarica Perché non possiamo non dirci anticoncordatari. Discorso contro i patti lateranensi, di Benedetto Croce, in formato Word, che la rivista Critica Liberale ha tratto da: Benedetto Croce, Discorsi parlamentari, Bardi editore, Roma 1983, pp. 167-175.
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