Relazione SFI, Novara, 28.10.2009
Prof. Nicola Simonetti
High School Teacher
PhD Student in Cognitive Science
University of Siena
http://www.unisi.it/ricerca/dip/fil_sc_soc/dot-sc/portale/XXIV_CYCLE_PHD_STUDENTS.html
FILOSOFIA DELLA MENTE E NEUROSCIENZE: IL CASO DEI NEURONI SPECCHIO – Relazione SFI, Novara, 28.10.2009
I neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia (Vilayanur S. Ramachandran, professore di neuroscienze e psicologia all’Università della California di San Diego, direttore del Center for Brain and Cognition ed è professore aggiunto di biologia al Salk Institute)
La scoperta del meccanismo di risonanza motoria dei neuroni specchio ha dimostrato che il sistema motorio, lungi dall’essere un mero controllore di muscoli e un semplice esecutore di comandi codificati altrove, è in grado di assolvere funzioni cognitive che per lungo tempo sono state erroneamente ritenute appannaggio di processi psicologici e meccanismi neurali di tipo puramente associativo… Certamente i neuroni specchio danno fastidio a chi guarda alle neuroscienze come a un mero metodo di localizzazione e validazione di meccanismi mentali e/o psicologici ritenuti validi a priori (Vittorio Gallese, medico neurologo, è professore ordinario di Fisiologia Umana all’Università di Parma. Fa parte, con Giacomo Rizzolatti e Leonardo Fogassi, del gruppo di ricerca famoso in tutto il mondo per avere scoperto i “neuroni specchio”, insieme a Luciano Fadiga, oggi all’Università di Ferrara)
I neuroni specchio non esistono. E’ grazie all’esperienza che agiamo in anticipo (Paolo Pascolo, docente di bioingegneria dell’Università di Udine)
a oggi non è stato dimostrato che i neuroni specchio svolgano davvero un ruolo funzionale nella comprensione dell’azione. E, anche se lo svolgessero, in quale modo lo fanno (Alfonso Caramazza, direttore del Laboratorio di neuropsicologia cognitiva dell’Università di Harvard e direttore del Centro Interdipartimentale Mente–Cervello dell’Università degli Studi di Trento).
ABSTRACT
Scopo della mia relazione è quello di sollevare alcune riflessioni che vengono, a mio parere, naturalmente implicate dalla recente scoperta dei cosiddetti “mirror neurons” (“neuroni specchio”) da parte dello staff di neurologi di Parma capeggiati da Rizzolatti, insieme a Jacoboni, Gallese, ecc. negli Anni ’90 (l’annuncio della scoperta risale al 1996), cercando di far chiarezza, seppur entro una letteratura già ormai sterminata, con una evoluzione irrefrenabile e a volte senza controllo (che ha esteso i suoi confini alla filosofia e alle scienze sociali, sino ad applicarsi a patologie mentali come l’autismo, e poi a supporto di alcune teorie facenti capo a psicoanalisi, sessuologia, neonatologia, ecc.), su cosa veramente si sia scoperto e cosa si possa lecitamente dire.
UNA BREVE STORIA DELLA SCOPERTA
Negli anni ’80 e ’90 il gruppo di ricercatori dell’Università di Parma coordinato da Giacomo Rizzolatti e composto da Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Vittorio Gallese e Giuseppe di Pellegrino si stava dedicando allo studio della corteccia premotoria. Avevano collocato degli elettrodi nella corteccia frontale inferiore di un macaco per studiare i neuroni specializzati nel controllo dei movimenti della mano, come il raccogliere o il maneggiare oggetti.
Durante ogni esperimento era registrato il comportamento dei singoli neuroni nel cervello della scimmia mentre le si permetteva di accedere a frammenti di cibo, in modo da misurare la risposta neuronale a specifici movimenti. Come molte altre notevoli scoperte, quella dei neuroni specchio fu dovuta al caso.
L’aneddotica racconta che, mentre uno sperimentatore prendeva una banana in un cesto di frutta preparato per degli esperimenti, alcuni neuroni della scimmia che osservava la scena avevano reagito. Come poteva essere accaduto questo, se la scimmia non si era mossa? Se fino ad allora si pensava che quei neuroni si attivassero soltanto per funzioni motorie? In un primo momento gli sperimentatori pensarono si trattasse di un difetto nelle misure o un guasto nella strumentazione, ma tutto risultò a posto e le reazioni si ripeterono non appena fu ripetuta l’azione di afferrare.
Da allora questo lavoro è stato pubblicato, con l’aggiornamento sulla scoperta di neuroni specchio localizzati in entrambe la regioni parietali frontali inferiori del cervello e confermato.
Nel 1995, Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Giovanni Pavesi e Giacomo Rizzolatti dimostrano per la prima volta l’esistenza nell’uomo di un sistema simile a quello trovato nella scimmia. Utilizzando la stimolazione magnetica transcranica trovano infatti che la corteccia motoria dell’uomo viene facilitata dall’osservazione di azioni e movimenti altrui.
Più recentemente, altre prove ottenute tramite fMRI, TMS, EEG e test comportamentali hanno confermato che nel cervello umano esistono sistemi simili e molto sviluppati. Sono state identificate con precisione le regioni che rispondono all’azione/osservazione. Data l’analogia genetica fra primati (compreso l’uomo), non è affatto sorprendente che queste regioni cerebrali siano strettamente analoghe in essi.
LA LETTERATURA SULLA SCOPERTA E SULLE SUE IMPLICAZIONI
Uno dei libri più ricchi e stimolanti nel riportare esperimenti e implicazioni derivanti da tale importante scoperta è “So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio”, di G. Rizzolatti e C. Sinigaglia, Raffaello Cortina editore, Milano 2006.
L’argomentazione centrale intorno alla quale sono articolati i sette capitoli del libro è che “il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende”. Il significato e la portata di questa tesi risiedono nel cuore del meccanismo neurale individuato dai neurofisiologi dell’Università di Parma coordinati da Giacomo Rizzolatti.
In una serie di studi condotti nel corso degli ultimi vent’anni i ricercatori hanno scoperto nella corteccia premotoria della scimmia e in seguito anche dell’essere umano l’esistenza di due gruppi di neuroni entrambi attivi durante l’esecuzione di azioni correlate a oggetti: si tratta di gesti semplici e familiari come afferrare qualcosa con la mano o portare del cibo alla bocca. La cosa sorprendente è che questi due gruppi di neuroni premotori si attivano anche in assenza di qualunque esecuzione esplicita dell’azione durante compiti puramente osservativi: i neuroni del primo gruppo rispondono alla visione dell’oggetto cui l’azione potrebbe essere rivolta quelli del secondo all’osservazione di un altro individuo che compie la medesima azione.
Seguendo gli autori, possiamo fare l’esempio della tazzina da caffé: i neuroni premotori si attivano mentre ne afferriamo il manico; tuttavia per alcuni di essi l’attivazione è innescata anche dalla semplice osservazione della tazzina posata sul tavolo per altri anche dall’osservazione del nostro vicino che l’afferra per bere il suo caffé. Si tratta quindi in entrambi i casi di neuroni bimodali motori e percettivi insieme la cui attività può essere descritta mediante il medesimo meccanismo di simulazione: durante l’osservazione di un oggetto si attiva uno schema motorio appropriato alle sue caratteristiche (quali forma dimensione e orientamento nello spazio) “come se” l’osservatore entrasse in interazione con esso; allo stesso modo durante l’osservazione di un’azione eseguita da un altro individuo il sistema neurale dell’osservatore si attiva “come se” fosse egli stesso a compiere la medesima azione che osserva.
I neuroni del primo gruppo sono stati chiamati “neuroni canonici” perché sin dagli anni trenta si era ipotizzato un coinvolgimento delle aree premotorie nella trasformazione dell’informazione visiva relativa a un oggetto negli atti motori necessari per interagire con esso; quelli del secondo gruppo sono stati chiamati “neuroni specchio” in quanto provocano una reazione speculare nel sistema neurale dell’osservatore in cui ha luogo una simulazione implicita dell’azione osservata.
Alla luce di questo meccanismo di simulazione neurale può essere reinterpretato il ruolo svolto all’interno dell’intero sistema cognitivo dal sistema motorio di solito connesso esclusivamente con la pianificazione e con l’esecuzione delle azioni: i neuroni bimodali individuati nella corteccia premotoria risultano fortemente implicati in processi cognitivi di alto livello in particolare nel riconoscimento percettivo di oggetti e azioni e nella comprensione del loro significato.
Viene quindi meno il rigido confine tra processi percettivi cognitivi e motori che ha per anni caratterizzato l’interpretazione dell’architettura cerebrale: percezione comprensione e azione si trovano unificate in un meccanismo unitario dove per l’appunto “il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende”.
La comprensione per quanto concerne gli oggetti riguarda il loro significato funzionale o affordance; i neuroni canonici consentono una comprensione immediata delle opportunità di interazione che gli oggetti offrono a un soggetto percepiente (nel caso del manico della tazzina da caffé la possibilità di essere afferrato). Per quanto concerne le azioni la comprensione riguarda lo scopo che a esse è sotteso: i neuroni specchio permettono una comprensione immediata delle intenzioni degli altri individui (l’intenzione ad esempio di portare la tazzina alla bocca per bere il caffé) rendendo possibile una previsione del loro comportamento futuro.
Il libro riporta fedelmente i principali esperimenti condotti sulla scimmia e sull’essere umano. Ovviamente le tecniche utilizzate sono molto diverse: mentre nelle scimmie è possibile effettuare una registrazione del singolo neurone tramite l’inserzione intracorticale di elettrodi nei soggetti umani si utilizzano esclusivamente metodi non invasivi di imaging cerebrale come la tomografia a emissione di positroni (pet) o la risonanza magnetica funzionale (fmri) che permettono di visualizzare l’attività di intere aree cerebrali ma non di singole cellule nervose.
Nel quarto capitolo Agire e comprendere vengono descritti due esperimenti centrali per la definizione del ruolo dei neuroni specchio nella comprensione dello scopo sotteso alle azioni. Il primo ha permesso di constatare l’esistenza di un meccanismo specchio non solo in modalità motoria e visiva ma anche uditiva quando la scimmia è al buio e ascolta il rumore prodotto da un’azione: lo stesso neurone “scarica” quando l’animale rompe una nocciolina quando vede qualcuno romperla e quando sente il rumore di qualcuno che la rompe.
A prescindere dalla modalità lo stesso neurone si attiva per codificare il concetto astratto di “rompere” che coincide con lo scopo, con l’intenzione dell’azione. Il secondo esperimento ha invece permesso di discriminare tra un gesto di afferramento finalizzato a portare il cibo alla bocca o a metterlo in un contenitore: durante l’esecuzione della medesima azione (afferramento) i neuroni specchio si attivano in modo diverso a seconda dello scopo finale dell’azione, in particolare dell’intenzione di portare il cibo alla bocca o di spostarlo nel contenitore.
Nella stessa direzione sembrano andare alcuni risultati ottenuti con gli esseri umani mediante un esperimento con fmri (risonanza magnetica funzionale): è stato possibile riscontrare nei soggetti sperimentali un’attivazione del sistema specchio particolarmente significativa durante l’osservazione non di azioni “pure” ma di azioni inserite nel contesto da cui si poteva evincere in modo chiaro l’intenzione che vi era sottesa. L’insieme di questi esperimenti permette di affermare che “il sistema dei neuroni specchio è in grado di codificare non solo l’atto osservato ma anche l’intenzione con cui esso è compiuto”.
In accordo con il paradigma dell’embodied cognition (avallato da molti filosofi e neurobiologi: in particolare A. Clark e A. Damasio), le intenzioni altrui possono essere comprese senza alcuna mediazione riflessiva concettuale o linguistica: si tratta di una comprensione pragmatica “basata unicamente su quella conoscenza motoria dalla quale dipende la nostra stessa capacità di agire”.
Nel sesto capitolo, Imitazione e linguaggio, sono descritte altre due importanti funzioni attribuite al sistema specchio: una funzione imitativa intesa sia come capacità di replicare gesti già appartenenti al nostro repertorio motorio sia come capacità di apprendere schemi motori nuovi attraverso l’imitazione; una funzione comunicativa che permetterebbe di delineare un possibile scenario sull’origine del linguaggio umano connesso all’evoluzione del sistema specchio.
Al tema della condivisione delle emozioni è invece dedicato l’ultimo capitolo del libro: “Il riconoscimento delle emozioni altrui poggia su un insieme di circuiti neurali che per quanto differenti condividono quella proprietà specchio già riscontrata nel caso della comprensione delle azioni”. è stato possibile studiare sperimentalmente alcune emozioni primarie: i risultati mostrano chiaramente che osservare negli altri una manifestazione di dolore o di disgusto attiva lo stesso substrato neurale sotteso alla percezione in prima persona dello stesso tipo di emozione.
Un’altra conferma viene da studi clinici su pazienti affetti da patologie neurologiche: una volta persa la capacità di provare ed esprimere una data emozione diventa impossibile anche riconoscerla quando espressa dagli altri. Come nel caso delle azioni anche per le emozioni si può parlare di una comprensione immediata che non presuppone processi cognitivi di tipo inferenziale o associativo: “La comprensione immediata delle emozioni degli altri è il prerequisito necessario per quel comportamento empatico che sottende larga parte delle nostre relazioni interindividuali”.
Lungi dall’essere confinate al funzionamento di alcune cellule nervose le proprietà specchio pervadono quindi l’intero sistema cerebrale: la stessa logica che permette di accoppiare esecuzione e comprensione delle azioni in un unico meccanismo neurale permette di descrivere la condivisine emotiva e forse anche il fenomeno della coscienza.
In un recente lavoro pubblicato su “Science” la neuropsicologa Anna Berti ha individuato un analogo meccanismo di “accoppiamento neurale” per l’esecuzione delle azioni e la consapevolezza di averle (o non averle) compiute: la consapevolezza motoria che ci permette di essere coscienti delle nostre azioni condividerebbe lo stesso substrato neurale sotteso al controllo motorio delle azioni in questione.
Un cucciolo di macaco imita le espressioni facciali umane
MA ESISTONO DAVVERO I NEURONI SPECCHIO? RESOCONTO IN DIRETTA SU BRAINFACTOR.IT
Una ricerca appena apparsa in queste settimane li mette radicalmente in discussione e accende una controversia scientifica destinata a non esaurirsi in breve tempo, sebbene l’onore della prova resti ancora a carico dei critici, vista la mole di studi finora pubblicati “a favore”. La polemica si svolge tra gli studiosi italiani, da quando un’équipe dell’università di Trento ha posto in dubbio la loro presenza nell’uomo sulla base di uno studio appena divulgato e già contestatissimo.
Ma a disturbare quasi vent’anni di successi si è messo ora Alfonso Caramazza, autorevole neuropsicologo cognitivo di Harvard, da pochi anni tornato in Italia per dirigere il centro di scienze cognitive di Rovereto. Una sua ricerca, in uscita sull’importante rivista Pnas, segnala che in base a un elaborato disegno sperimentale non vi sono prove che nell’uomo agiscano mirror neurons. In estrema sintesi, essi devono essere attivati sia dall’esecuzione sia dal riconoscimento di un compito. Una tecnica di risonanza magnetica funzionale permette di misurare l’adattamento di certe regioni cerebrali (ovvero, le cellule rispondono in modo sempre meno netto quando uno stimolo è ripetuto). Se quindi si compie molte uno stesso semplice movimento e poi lo si osserva, si dovrebbe avere un adattamento nei presunti neuroni specchio, cosa che non si è avuta, mentre si registra adattamento dall’osservazione all’azione.
La sollevazione da Parma è stata immediata. «Risultati scientifici irrilevanti, in palese contraddizione con altri studi. Capisco che se i neuroni specchio non esistessero tutto sarebbe più semplice per i cognitivisti classici di stretta osservanza», la secca replica affidata alla Gazzetta di Parma da Vittorio Gallese, braccio destro di Rizzolatti.
«Il punto – ribatte Caramazza, «stupito e rammaricato» – è che si dà per scontato, come non è, che i dati già dicano che nel nostro cervello vi sono neuroni specchio, la cui attivazione sarebbe all’origine della nostra cognizione, senza dover ipotizzare meccanismi superiori».
«Un’evidenza negativa non prova l’assenza», puntualizza l’epistemologo dell’Università Statale di Milano Corrado Sinigaglia, sicuro che il clamore non sposterà di una virgola la solidità delle evidenze («tantissime») a favore del meccanismo dei mirror neurons.
L’INTERVISTA DEL DISSENSO AD ALFONSO CARAMAZZA
Alfonso Caramazza è direttore del Laboratorio di neuropsicologia cognitiva dell’Università di Harvard e direttore del Centro Interdipartimentale Mente–Cervello dell’Università degli Studi di Trento. E’ stato professore di Psicologia (1974-1993), professore e preside di Scienze Cognitive (1987-1993) alla Johns Hopkins University e “David T. McLaughlin Distinguished Professor” al Dartmouth College (1993-1995). E’ stato, inoltre, visiting professor all’Università di Ginevra (1986) e presso la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste (2001). Nato in provincia di Agrigento nel 1946, lasciò l’Italia all’età di 12 anni con la famiglia ed è rientrato con incarichi accademici stabili solo da qualche anno. Si è laureato nel 1970 alla McGill University (in Canada) e ha ottenuto il Ph.D. alla Johns Hopkins University nel 1974. I suoi principali interessi di ricerca riguardano le neuroscienze cognitive del linguaggio e i processi cognitivi correlati, campo nel quale è autore di ricerche di rilievo. Ha pubblicato oltre 300 articoli scientifici e 3 libri.
Andrea Lavazza lo ha intervistato sul tema Neuroscienze controverse: il caso dei neuroni specchio.
Professor Caramazza, lei ha appena pubblicato su “Pnas” uno studio, intitolato “Asymmetric fMRI adaptation reveals no evidence for mirror neurons”, che ha provocato una contesa con il gruppo di ricerca dell’Università di Parma, autore della scoperta delle cellule che si attivano sia quando compiamo un’azione sia quando la osserviamo, permettendo – si sostiene – la comprensione per simulazione delle azioni altrui. Nel suo studio, si afferma che non ci sono prove dell’esistenza nell’uomo dei neuroni specchio. Può riassumere per i lettori di Brainfactor i punti principali di tale ricerca?
Per valutare se il cervello umano contenga neuroni specchio, abbiamo utilizzato una tecnica chiamata fMRI adaptation – risponde Caramazza insieme con Angelika Lingnau, coautrice dello studio –. Tale tecnica permette di indagare se una specifica area cerebrale è sensibile al cambiamento di una proprietà di uno stimolo (ad esempio, il colore o la forma), o se invece non risponde a un simile cambiamento (il principio è che la ripetizione di uno stimolo provoca una risposta sempre meno forte delle cellule nervose interessate, ndr). I neuroni specchio dovrebbero essere sensibili a un cambiamento degli atti motori, indipendentemente dal fatto che l’atto motorio sia osservato o compiuto.
Perché non ritiene che siano sufficienti le prove portate finora a favore dei neuroni specchio?
La scoperta iniziale dei neuroni specchio è basata sulla registrazione dell’attività di singole cellule nel cervello delle scimmie, con cui si dimostra che esistono neuroni che rispondono sia durante l’osservazione sia durante sia l’esecuzione dello stesso atto motorio. Vi sono numerosi studi che mostrano come nel cervello umano esistano aree le quali rispondono sia durante l’osservazione sia durante sia l’esecuzione di atti motori. Tuttavia, per i limiti delle tecniche non invasive di neuro-immagine, la maggior parte di questi studi non valuta la selettività al movimento, cioè le risposte selettive all’osservazione e all’esecuzione dello stesso atto motorio. Recenti progressi delle tecniche di neuro-immagine permettono di valutare le proprietà neuronali a una risoluzione più fine, attraverso l’adattamento selettivo a certe proprietà (ad esempio, il colore), misurando se una data area cerebrale segnala uno scarto dall’adattamento quando cambia la proprietà dello stimolo (ad esempio, mostrando uno stimolo rosso dopo l’adattamento al verde). Questa tecnica, la fMRI adaptation, può essere usata per valutare le previsioni circa gli “accoppiamenti diretti”: i neuroni specchio dovrebbero adattarsi alla ripetizione dello stesso atto motorio, indipendentemente dal fatto che l’atto motorio sia osservato o compiuto. Utilizzando la fMRI adaptation, Chong, Cunnington, Williams, Kanwisher e Mattingley (Current Biology, 2008) hanno riferito di un adattamento nella zona ventrale destra inferiore del lobo parietale per azioni che venivano compiute e quindi osservate, ma non sono riusciti a trovare un adattamento per azioni che siano state prima osservate e poi compiute. Dato che gli atti motori presi da loro in considerazione coinvolgevano “oggetti bersaglio” (una penna, un fiammifero), non è chiaro se l’adattamento relativo ad atti motori che erano prima compiuti e poi osservati sia dovuto all’attivazione diretta dei neuroni specchio o piuttosto all’adattamento a proprietà relative all’oggetto coinvolto associate con il movimento, invece che al movimento stesso. L’unico altro studio che ha cercato un adattamento transmodale (Dinstein, Hasson, Rubin, Heeger, Journal of Neurophysiology, 2007) non è riuscito a trovarlo e, quindi, nemmeno esso ha dato prove dell’esistenza dei neuroni specchio. In sintesi, gli unici due studi condotto con la fMRI i quali hanno cercato direttamente nel cervello umano aree selettive per il movimento in modo indipendente dalla modalità non hanno fornito prove convincenti dell’esistenza dei neuroni specchio.
A suo parere, che cosa spiegano i neuroni specchio nelle scimmie?
La scoperta dei neuroni specchio nelle scimmie dimostra che esistono cellule che sono attivate da diverse modalità (ad esempio, vista, udito, azione) associate allo stesso atto motorio. Queste proprietà multi-modali possono servire numerosi e importanti scopi, come l’integrazione sensoriale, il feedback mentre si agisce, la preparazione di atti motori…
Può spiegarci quali sono i due paradigmi teorici che si affrontano circa la cognizione?
Vi sono due principali modelli dell’organizzazione della mente nel cervello. Uno, la prospettiva riduzionista-eliminativistica, sostiene che tutta la cognizione può essere ricondotta alle rappresentazioni senso-motorie. L’altra prospettiva sostiene che la cognizione non è riducibile alle rappresentazioni senso-motorie: quello che sappiamo dei generali non è limitato alle attività motorie dell’atto del saluto militare o alle rappresentazioni visive dei gradi e delle mostrine.
In che cosa dissente dall’approccio di Rizzolatti, Gallese e colleghi?
Il maggior punto di disaccordo rispetto a Rizzolatti sta nell’interpretazione del ruolo dei neuroni specchio. La loro esistenza è compatibile con un ruolo potenziale nella comprensione dell’azione; a oggi tuttavia non è stato dimostrato che i neuroni specchio svolgano davvero un ruolo funzionale nella comprensione dell’azione. E, anche se lo svolgessero, in quale modo lo fanno.
Perché la teoria della percezione motoria non è in grado di spiegare tutte le capacità mentali superiori?
Nella nostra prospettiva, c’è un notevole gap tra la scoperta originaria dei neuroni specchio che manifestano una selettività rispetto agli atti motori e il loro coinvolgimento nelle funzioni cognitive superiori dell’uomo. Non tutte le funzioni cognitive superiori possono venire ridotte a semplici relazioni come sentire il suono della rottura di una noce e associarlo con il relativo atto motorio. Ci sono vari esempi nel mondo reale in cui lo stesso input visivo (ad esempio, uno sbadiglio) è in grado di assumere molti diversi significati (stanchezza, noia, provocazione, malessere) che possono venire colti solo grazie a ulteriori informazioni di background, informazioni che è assai improbabile siano selettivamente accessibili al sistema motorio.
Con il vostro studio su Pnas è minata la teoria dei neuroni specchio nell’uomo?
Il nostro studio non mina la scoperta dei neuroni specchio nella scimmia. Ciò che abbiamo fatto è testare una previsione derivata dall’ipotesi dell’accoppiamento diretto, secondo la quale dovrebbero esistere neuroni che si adattano selettivamente allo stesso atto motorio, indipendentemente dalla modalità. I nostri dati non sono compatibili con questa prospettiva e, quindi, gettano alcuni dubbi sull’affermazione per cui l’accoppiamento diretto fornisce la base della comprensione delle azioni nell’uomo.
Quali saranno a suo avviso gli sviluppi del caso? Che tipo di ricerche bisognerebbe condurre ora?
Un importante passo avanti sarebbe la riconsiderazione del ruolo che i neuroni specchio svolgono nella comprensione dell’azione. E’ necessario distinguere tra i dati che sono compatibili con il coinvolgimento dei neuroni specchio nella comprensione dell’azione e i dati che dimostrano che i neuroni specchio svolgono effettivamente un ruolo cruciale nella comprensione dell’azione.
ANALOGIE FILOSOFICHE E SPUNTI DI RIFLESSIONE
In conclusione, intendo cercare di capire quali concordanze evidenti vi siano tra questa scoperta, nei suoi dati descrittivi (cercando di evitare difficili e pericolose interpretazioni cognitivistiche forti), e le attuali teorie mente-corpo di matrice fisicalistico-riduzionista.
In particolare, ritengo significativa nei lavori del filosofo della mente Jaegwon Kim (1993; 1998; 2005), che ben conosco, sia il concetto di 1) sopravvenienza, interpretato da lui stesso in chiave riduzionistica, attraverso il modello funzionale di riduzione, sia 2) la sua concezione riduzionistica della causazione mentale, in virtù del 3) principio della chiusura causale del mondo fisico, sia infine il suo 4) modello metafisico e ontologico (introdotto in Kim 1998) che distingue tra “livelli” (micro/macro) e “ordini” (fisico, mentale, ecc.).
Procediamo con ordine, in modo sintetico.
1) Tralasciando la lunga e complessa storia di questo concetto e partendo direttamente dall’ultima interpretazione di Kim in senso riduzionistico, esso afferma:
[ Sopravvenienza psicofisica ] Il mentale sopravviene sul fisico dal momento che qualsiasi coppia di cose (oggetti, eventi, organismi, persone, ecc.) che sia esattamente uguale in tutte le proprietà fisiche non può differire rispetto alle proprietà mentali. (Kim, 1996, p. 10)
In termini logici, esso si basa su questi 3 principi: a) dipendenza o determinazione (ogni stato, processo e proprietà mentale dipende o è determinata dalla sua base fisica che la realizza, sulla quale sopravviene); b) covarianza (al variare di stati, processi e proprietà fisiche, variano gli analoghi mentali); c) autonomia nomologica, concettuale, linguistica, ecc. (una volta sopravvenuti, stati, processi e proprietà mentali godono di proprietà nomologiche, concettuali, linguistiche, ecc. differenti).
Mi pare che queste caratteristiche del concetto di sopravvenienza siano del tutto aderenti alla scoperta dei neuroni specchio, secondo la quale processi percettivi e cognitivi si realizzano sugli stessi circuiti neurali dei processi motori (spesso involontari) ad essi sottesi, ecc.
2) E’ quindi evidente che una genuina azione causale o causazione avvenga cronologicamente innanzitutto a livello fisico, nell’attivazione dei circuiti neurali che realizzano i processi motori, configurando la stessa intenzionalità come una preparazione all’azione e rendendo, quindi, come dice lo stesso Kim (1998), la causazione mentale come virtuale o ridondante. Lo stesso modello funzionale di riduzione, secondo il quale il gene è la funzione assolta dal DNA e il lampo è la funzione svolta dalla scarica elettrica, si inquadra in una spiegazione riduzionista di molti comportamenti che diremmo cognitivi e che invece, alla luce di queste scoperte, si rivelano molto “incorporati” e spesso involontari, a dispetto dell’apparenza (come i processi coscienziali descritti da Libet, 2005).
DIAGRAMMA DI KIM (1996, p.51) che distingue tra sopravvenienza, causazione fisica e causazione sopravveniente.
Dolore – – causa sop. – – > Sussulto
sopravviene causa sopravviene
su sop. su
Stato Neurale——— causa —— > Contrazione Muscolare
3) Da queste considerazioni si desume il ruolo sempre più cruciale del corpo e delle sue leggi fisiche per descrivere ontologicamente anche i processi cognitivi più astratti, nella forma della cosiddetta “embodied cognition”. Ma, com’è ben noto nella tradizione della filosofia analitica, le ragioni non sono le cause, per cui se anche le cause descrittive sono fisiche, le ragioni e le finalità possono ben valicare il dominio angusto del mondo fisico, e quindi lasciare spazio ad altri domini esplicativi, ben più adatti e indicati, quali la psicologia, la sociologia, ecc.
4) Infine, seguendo il modello metafisico e ontologico proposto da Kim (1998) e di cui io vorrei individuare pregi e limiti, la gerarchia delle proprietà, concernente gli ordini fisico, mentale, ecc., non tange la gerarchia parallela micro/macro, concernente i livelli di complessità. La ragione di ciò è data dal fatto che sia le proprietà di second’ordine sia i loro realizzatori di prim’ordine sono proprietà delle stesse entità o sistemi complessi, ovvero, proprietà riducibili alla loro base fisica o proprietà sopravvenienti, i cui poteri causali sono quelli della loro base fisica.
Perciò, proprietà mentali come il dolore si trovano allo stesso livello ontologico nella gerarchia micro-macro e, quindi, i loro poteri causali sono quelli “ereditati” dal loro realizzatore fisico. Quando, invece, parliamo di macro-proprietà di sistemi complessi, come ad esempio la coscienza, ci riferiamo a proprietà di livelli ontologici superiori che, quindi, godono di poteri causali loro propri che possono esercitare sia verso l’alto, ovvero su sistemi ancora più complessi, sia verso il basso, ovvero su livelli micro.
Un fattore determinante per attribuire efficacia causale alle macro-proprietà è la loro diacronia temporale rispetto alle micro-proprietà causali basilari. D’altronde, gli stessi importanti esperimenti del fisiologo B. Libet sul “tempo della coscienza”, in Mind Time (2004), dimostrano quanto la “tempistica” nell’attivazione di processi cerebrali, da un lato, e di processi e/o fenomeni “mentali” (come volontà, decisione e tutti i processi e fenomeni coscienziali), dall’altro, sia fondamentale per sostenere una certa teoria della mente, entro un quadro riduzionistico-naturalista. Inoltre, assumendo che, come diceva l’emergentista Alexander, “essere reale significa avere poteri causali” (e ciò è avallato dallo stesso Kim 1993, 1998), allora, per converso, ciò che ha poteri causali nuovi o aggiuntivi, diacronicamente distinti dai poteri causali delle proprietà basilari dei costituenti, avrà quindi una propria “realtà” ontologica.
Personalmente concordo con Alexander e Kim nel sostenere che ciò che è causalmente efficace con delle proprietà nuove e/o aggiuntive rispetto a quelle della sua base fisica debba perciò essere considerato come ontologicamente distinto dai suoi componenti fisici basilari.
D’altronde, giustamente, si distingue ontologicamente la parte dal tutto, inteso come prodotto nuovo ottenuto dalla combinazione delle parti, la cui configurazione e ordine non è indifferente per le nuove proprietà sopravvenute in senso mereologico e, quindi, per la loro efficacia causale, pur inquadrandosi entro il dominio causalmente chiuso della fisica. Si pensi anche solo e banalmente al fatto che tutti gli organismi viventi insieme agli oggetti non senzienti sono chimicamente costituiti dai medesimi elementi chimici presenti in tutto l’Universo conosciuto (e probabilmente anche non conosciuto) e, pur tuttavia, nonostante la loro simile composizione chimica, la materia biologica e non, nelle molteplici forme che essa assume e nelle svariate proprietà che essa manifesta, è straordinariamente eterogenea e dissimile, seguendo le leggi dell’evoluzione e/o del caso.
Come potremmo evitare di distinguere, a mio parere non solo a fini classificatori, come ci insegnò Aristotele, tra regno minerale, vegetale e animale, pur sapendo ora che gli elementi chimici che li costituiscono sono i medesimi? La “forma”, nel senso di configurazione degli elementi basilari della chimica e della fisica conosciuti, quando si parla di “sistemi complessi” come gli organismi viventi tutti e, analogamente o ancor più, di fenomeni complessi come i “fenomeni e processi mentali” quali la coscienza, la volontà, la capacità decisionale e le funzioni cognitive, non è indifferente per l’attribuzione sia di causalità sia di “realtà ontologica”, ovvero di “occupazione” di un certo livello ontologico.
Viceversa, si incorrerebbe in ciò che io chiamerei “riduttivismo”, ossia in un riduzionismo dal volto cattivo, un semplificazionismo che toglie “dignità” ontologica a quelle “forme” tanto apparentemente insignificanti e impercettibili (a noi) nella natura quanto straordinariamente complesse e capaci di comportamenti imprevedibili e in parte inspiegabili, che spesso banalmente e spregiativamente inquadriamo nella categoria schopenhaueriana dell’inconscio “istinto di sopravvivenza”.
Tornando a Kim e alle proprietà mentali (1998), le macro-proprietà dei sistemi complessi possono avere, e generalmente hanno, loro propri poteri causali distintivi, che vanno oltre i poteri causali dei loro micro-costituenti. E’ lui stesso a dirlo esplicitamente: «un’assemblea di neuroni consistente di molte migliaia di neuroni avrà proprietà i cui poteri causali vanno oltre i poteri causali delle proprietà dei neuroni che la costituiscono, o delle sub-assemblee, e gli esseri umani hanno poteri causali che nessuno dei nostri organi individuali possiede» (Kim, 1998, p.85). Tra le macro-proprietà Kim annovera senza ombra di dubbio la coscienza e l’intenzionalità, attribuendo loro, di conseguenza, loro propri e distintivi poteri causali, ponendosi ad un livello ontologico superiore: «coscienza e intenzionalità sono proprietà di organismi biologici» (Kim, 1998, p.83)
A proposito di coscienza, intenzionalità e fenomeni mentali complessi, la recente scoperta di Rizzolatti e del suo staff dei “neuroni specchio” che si attivano sia quando svolgiamo un’azione sia quando osserviamo altri svolgerla, conferma, a mio parere, il fatto che i nostri ordini descrittivi per un comportamento, come l’intenzionalità, la volontà, ecc. giacciono sullo stesso livello fisico dell’implementazione di quel comportamento, spesso ancor prima della nostra consapevolezza, come ha mostrato Libet (2006). In altri termini, come dicono gli stessi Rizzolatti-Sinigaglia (2006), «Come nella scimmia, così nell’uomo la vista di atti compiuti da altri determina nell’osservatore un immediato coinvolgimento delle aree motorie deputate all’organizzazione e all’esecuzione di quegli atti», Ib., p.121.
In conclusione, la scoperta dei neuroni specchio, oltre a dare immediatamente un fondamento biologico al concetto di empatia e a nozioni affini, ci fa capire, a mio parere, come bene si osserva nella Premessa a Rizzolatti-Sinigaglia (2006), che «Lo stesso rigido confine tra processi percettivi, cognitivi e motori finisce per rivelarsi in gran parte artificioso: non solo la percezione appare immersa nella dinamica dell’azione, risultando più articolata e composita di quanto in passato è stata pensata, ma il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende. Si tratta […] di una comprensione pragmatica, preconcettuale e prelinguistica, e tuttavia non meno importante, poiché su di essa poggiano molte delle nostre tanto celebrate capacità cognitive», Ib., p.3.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
1. Kim, J. (1993), Supervenience and Mind, Cambridge University Press, Cambridge, 1993.
2. Kim, J. ( 1996 ), Philosophy of Mind, Westview Press, Colorado, e Westview Press, Oxford.
3. Kim, J. (1998), Mind in a Physical World, MIT Press; tr. it., La mente e il mondo fisico, McGraw-Hill, Milano 2000.
4. Kim, J. (2005), Physicalism, or Something Near Enough, Princeton University Press, Princeton (NJ).
5. Libet, B. (2004), Mind Time.The Temporal Factor in Consciousness, Harvard College, tr. it. Mind Time. Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.
6. Nannini, S. (2007), Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente, Quodlibet, Macerata.
7. Rizzolatti, G. e Sinigaglia, C. (2006), So quel che fai. Il cervello che agisce e I neuroni specchio, Raffaello Cortina Editore, Milano.
8. Simonetti, N. (1999), “Sopravvenienza e riduzionismo” (pp.64-88), in G. Giorello e M. Di Francesco (a cura di), Epistemologia Applicata. Percorsi filosofici, Librerie CUEM, Milano.
9. Simonetti, N. (2003), “ ‘Levels’ and ‘Orders’: The Multi-Layered Metaphysical Model of J. Kim”, Book of Abstracts, Atti del Congresso della “European Society for Philosophy and Psychology” (ESPP), Torino, 09-12/07/2003, Fondazione Rosselli (www.fondazionerosselli.it; www.eurospp.org).
10. Simonetti, N., Zanardi, R. (2004), Filosofia e scienze della mente, Armando editore, Roma 2004.
KIM’S LAYERED MODEL OF REALITY
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-LEVEL HIERARCHY-
“ILLATA” HIERARCHY
-ORDER HIERARCHY-
“ABSTRACTA” HIERARCHY* DOWNWARD CAUSATION
MACRO-LEVEL (community, society, state)
MEREOLOGICAL SUPERVENIENCE
NTH ORDER PROPERTIES -(S)ocial
MACRO-LEVEL (systems, organisms
2ND ORDER PROPERTIES -(M)ental persons, social cognizers)
MEREOLOGICAL SUPERVENIENCE
MICRO-LEVEL (particles, particulars)
1ST ORDER PROPERTIES -(P)hysical
(inclusive of chemical, biological,
geophysical, astrophysical properties…:
what is a micro-based property)*
PHYSICAL CAUSATION
REDUCTIVE SUPERVENIENCE
* Seguendo la distinzione di Nannini (2007), che risale a Dennett (1998) e, ancor prima, a Reichenbach, la gerarchia degli ordini può essere intesa come una gerarchia di proprietà di “abstracta”, mentre la gerarchia dei livelli può essere intesa come una gerarchia delle proprietà di “illata”. Seguendo la definizione di Nannini, «I T-oggetti di una teoria scientifica T sono dei T-illata se e solo se essi sono considerati in T come esistenti indipendentemente dal loro essere oggetto di T stessa. […] Tutti i T-oggetti, la cui esistenza è considerata in T come dipendente dall’esistenza di T-illata, sono dei T-abstracta». (Nannini, 2007, pp. 169-170)
* Physical domain includes, according to Kim, «all micro-based properties whose constituents are physical properties and relations», (Kim, 1998)
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