«Una singolare analogia, se non una vera e propria convergenza nello stile e nell’ordine dell’argomentazione, salta agli occhi di chi si ponga ad osservare il modo in cui si concludono i due principali cicli di lezioni che Edmund Husserl ha dedicato all’etica, quello del 1914 e quello, più volte ripetuto, del 1920-24. Nell’analisi che intendiamo svolgere dell’ultimo capitolo dell’Introduzione all’etica, fin dal titolo (La prospettiva di un’etica della miglior vita possibile fondata sulla volontà) programmaticamente diverso da quello del capitolo iniziale dedicato alla messa a punto teoretica della specificità di una filosofia morale distinguibile da una semplice Kunstlehre, così come da quelli dei capitoli storici che costituiscono il corpo centrale delle lezioni, è opportuno prendere lo mosse da questa osservazione che sembra segnalare che nel procedimento fenomenologico-etico di Husserl viene introdotta una sorta di scarto. Si tratta di una svolta non casuale ma strutturale, di un mutamento appunto di “prospettiva” che non spezza la continuità del corpo principale del testo, ma serve piuttosto a mostrare nei pressi della conclusione che quel che è stato quasi fino alla fine detto non è tutto, se non addirittura che le osservazioni più rilevanti posseggono la fisionomia di una indagine ancora da svolgere, in certo senso interminabile» (continua…)
Leggi o scarica in formato Word, con le note, l’intero intervento di Francesco Saverio Trincia al Seminario dell’Università di Roma Tor Vergata del 26-27 novembre 2009:
Un’etica della miglior vita possibile, intervento al Seminario L’etica come scienza rigorosa (leggi la news).
L’intervento è scaricabile anche da Ph.lab Media Library/Interventi.
Vorrei commentare un passo di questo interessantissimo contributo sull’etica husserliana, che ci viene dal curatore dell’edizione italiana delle Lezioni del 1920-24, cioè la parte principale di Hua XXXVII. Ecco il passo:
“Che si dia il valore evidente di un volere che perciò corrisponde al dovere, questo è il punto profondo dell’etica vivente husserliana che travalica i confini della trattazione obiettivamente teoretica , pur senza smentirla o revocarla in dubbio, naturalmente, ma rimodellandone il senso in una direzione che accentua il significato che si vorrebbe definire esistenziale o concreto , comunque vissuto, del nesso tra volontà, dovere e possibilità di attingere l’ottimo vitale, di questo superlativo che è assoluto solo perché è al tempo stesso relativo.”
Verissimo che il dovere (e in effetti il dovere in senso assoluto) si fonda sul valore evidente di un volere, cioè di una determinata (a seconda della modalità di volere di cui si tratta) disposizione, aspirazione o progettualità, o di una determinata decisione della persona in questione. Verissimo anche che questo è il punto profondo dell’etica husserliana. Ma non sono certissima che si possa dire che questo “travalica i confini della trattazione obiettivamente teoretica…. in una direzione che accentua il significato che si vorrebbe definire esistenziale o concreto , comunque vissuto, del nesso tra volontà, dovere e possibilità di attingere l’ottimo vitale, di questo superlativo che è assoluto solo perché è al tempo stesso relativo.”
Un dettaglio minore dapprima: più che dell’ottimo vitale parlerei dell’ottimo personale. A Husserl è ben nota infatti – e io credo, qui, totalmente condivisa – la gerarchizzazione scheleriana delle sfere di valore. Il valore del volere (ciò che rende “buona” la volontà, quindi il valore propriamente morale, che è la qualità assiologica della volontà di una persona) è il valore positivo che spetta al volere della persona che intende (decide di, opera per) realizzare il valore relativamente o assolutamente superiore nella situazione data (questo criterio di bontà del volere risale a Brentano). Ora, può ben darsi che in una data situazione il valore relativamente superiore sia un valore della sfera vitale, di per sé inferiore a quelli delle sfere che, discostandomi un poco dalla terminologia scheleriana, chiamerei delle sfere di civiltà (giustizia, bellezza, conoscenza) e spirituale; ad esempio se nella situazione data il meglio che si può fare è contribuire alla guarigione di un malato. Ma il valore morale dell’azione (che è il valore che inerisce non all’azione stessa, ma all’intenzione con cui è compiuta, cioè al volere dell’agente) è appunto una qualità assiologica positiva di livello personale per eccellenza (inerisce alla principale disposizione di una persona, il volere appunto).
Ma questo è forse un problema minore, o terminologico. Invece l’elemento più decisamente personalistico, per cui il dovere, che è assoluto, è tuttavia il mio dovere, e non necessariamente il tuo, potrebbe essere quello che vuoi sottolineare con l’accenno al senso esistenziale e concreto. Ecco: ma è assunto – filosofico, teorico, si potrebbe addirittura dire “metafisico” – di questa parte della riflessione etica che è la teoria degli ethos (anche qui Husserl conosce molto bene Scheler) precisamente la dottrina del “bene in sé per me”: vale a dire: c’è un tipo o una modalità di bene che io, e solo io, ho la possibilità di portare al mondo, e questo è certamente bene “in sé”, vale a dire realizzazione di valori (dunque di qualità assiologiche positive, che sono tali e dovrebbero essere riconosciute tali da ognuno, anche se la fallibilità assiologica è ancora maggiore di quella epistemica, e di natura diversa); e tuttavia è un “bene per me”, cioè non “per me” nel senso di “opinato tale da me”, ma “per me” nel senso appunto che nessun altro potrebbe realizzarlo.
Una “radikale Besinnung” come quella alla quale, dagli anni ‘20 in poi, Husserl affida il “rinnovamento” etico delle persone (e solo per loro mezzo delle civiltà) ha precisamente questa natura: la vita migliore possibile è quella che al mondo può portare maggior bene (e questo criterio è universalistico) nei limiti e nelle chances concessi alla vita (alle capacità, alla situazione, ecc.) di ciascuno. Quella percezione che abbiamo della nostra possibile “vocazione”, dunque, è portatrice fallibile di evidenza o evidence per un giudizio pratico (devo fare questo), e come tale “sempre di nuovo” da riportare a evidenza attuale, da vagliare criticamente eccetera (Besinnung): in questo senso l’impresa di Husserl contiunua ad essere quella di una fondazione razionale (NON kantiana) del pensiero pratico. Ma in quanto accetta l’idea “monadologica” delle differenti prospettive valoriali delle persone, corrispondenti (nel migliore dei casi, cioè quando non siano errori o perversioni degli ordinamenti valoriali) a diverse – diciamo così – capacità di realizzazione assiologica, questa fondazione razionale del pensiero pratico è specificamente una fondazione personalistica del pensiero etico.
Ma forse era questo che intendevi parlando “di questo superlativo che è assoluto solo perché è al tempo stesso relativo.”
Condivido la proposta contenuta nel commento di Roberta de Monticelli di tradurre i termini “esistenziale” e “concreta”, riferiti all’etica matura (1920-24) di Edmund Husserl con il termine “personale”. Può darsi infatti che i termini da me usati accentuino in una direzione lontana dalla mia intenzione il senso ‘esistenziale’ di quella proposta etica.
Desidero inoltre chiarire che non penso che l’etica husserliana si sottragga alla teorizzazione che si deve comunque fare e che Husserl ne fa (non dimentico la Allwirksamkeit della ragione logica), ma intendo sottolineare la essenziale praticita della ragione pratica husserliana. Credo che vada enfatizzato il rilievo della natura non metaetica di tale etica. Il parallelismo formale tra logica ed etica, teorizzato nelle lezioni del 1914, ha l’obiettivo di porre le precondizioni strutturali della irriducibilità reciproca della ragione giudicante e della ragione valutante pur nell’ambito della loro connessione razionale.