Il problema sollevato dal Pontefice, e ripreso con opposte posizioni da Adriano Sofri e Vito Mancuso (Repubblica, 13 e 14/8) è cruciale: non solo in metafisica e morale, ma nella coscienza contemporanea e segnatamente in quella italiana, nel momento attuale, divisa com’è fra la constatazione che non ci sono limiti all’arbitrio e all’impunità dove il potere non osserva regole, e la speranza di un rinnovamento morale e civile di cui si percepisce un bisogno profondo e diffuso – che passerà però in primo luogo nella mente e nel cuore degli individui, o non verrà mai più. Per questo mi permetto di esporre nel modo più conciso e chiaro che mi sia possibile le ragioni per cui credo si debba dissentire questa volta dalla tesi di Vito Mancuso, il teologo che di questa speranza di rinnovamento è, per chi scrive, parte viva e grande.
Il problema cruciale è se un umanesimo ateo possa non essere nichilista da un punto di vista etico. Vale a dire, in sostanza, se un’etica laica sia o non sia possibile. Definisco i termini. Per etica intendo la consapevolezza di ciò che è dovuto da ciascuno a tutti, in ciascuna data circostanza. Per etica laica intendo l’etica in quanto vale indipendentemente dall’ipotesi che un Dio ci sia, e in quanto è accessibile e praticabile indipendentemente da ogni credenza relativa a Dio. La tesi fondamentale di un’etica laica dice dunque che la consapevolezza del mio dovere in ogni circostanza data è accessibile (con la stessa fatica, tormento o certezza) a chiunque, credente, diversamente credente, indifferente, non indifferente o ateo. Vito Mancuso ritiene che questa tesi sia falsa – che cioè l’indubbia esistenza di atei di altissima sensibilità morale (o viceversa di uomini di religione che ne sono apparentemente privi) dimostra soltanto che quei supposti atei tali non sono (e sbagliano a credersi tali), e quei supposti religiosi neppure. Questa volta a me pare che Vito Mancuso abbia torto. Ma si trova, questa volta a differenza di altre, in buona compagnia, non solo con il magistero romano (attuale: è ben noto che invece Tommaso D’Aquino argomenta in difesa dell’autonomia della conoscenza morale (principi della natura) rispetto alla rivelazione (principi della grazia), e che la tarda scolastica ha seguito Ugo Grozio nello svincolare il nucleo minimo della legge naturale dall’ipotesi stessa di esistenza di Dio (etsi deus non daretur)); ma anche con la quasi totalità dei filosofi continentali, che lo seguirebbero senza esitazione nella critica dell’ “antropocentrismo” o umanesimo moderno, per una volta in compagnia del Papa nell’attingere alla grande fonte novecentesca della critica alla modernità: Martin Hedegger. Anche per questo mi permetto di dissentire radicalmente – e, direi accoratamente: perché la tesi che l’ateismo è infine nichilismo morale non solo è, io credo, falsa, ma è anche una ferita profonda inferta a tutti gli uomini di buona volontà che hanno dedicato la vita intera alla ricerca del vero – nelle scienze o nelle cose umane – e non hanno trovato nulla degno del nome di Dio. Vito, non puoi esigere che chiamiamo Dio la dimensione “spirituale” della vita, l’amore o la relazione ordinata da cui veniamo. Nulla è più segreto, gratuito e geloso del nome di Dio sulle labbra di un uomo, nulla è più sacro della libertà di rifiutare al bene della vita questo nome, così come di pronunciarlo. L’assoluto rispetto intellettuale, oltre che morale, della libertà di fede è dovuto a ciascuno. Questa è, io credo, una proposizione dell’etica. E dico libertà di fede includendovi l’ateismo, dato che per le posizioni metafisiche ultime (se cioè il mondo naturale necessiti di un fondamento ulteriore a se stesso, o no) non esiste dimostrazione.
Ed ecco il mio argomento a difesa della laicità dell’etica, cioè della tesi che l’umanesimo ateo non implica necessariamente il nichilismo morale. L’argomento risale a Platone, a quel suo dialogo che libera l’etica dalla fede. Sostenere che ateismo implica nichilismo è sostenere che se Dio non c’è tutto è permesso. Ma questa tesi è vera solo se, nel dilemma di Eutifrone, è vero uno dei due corni dell’alternativa: il bene è bene perché Dio lo vuole. Solo in questo caso, evidentemente, se Dio non c’è, “tutto è permesso”. Non c’è una differenza fra il bene e il male. Allora, “bene” è ciò che di volta in volta gli uomini decidono che sia – e chi ha il potere lo decide per gli altri, e a chi vi si oppone non resta che appellarsi a se stesso. Questo è il volontarismo, la tesi cioè che non c’è verità e falsità nelle questioni di valore, ma solo le volontà (e il loro conflitto). Ma naturalmente può invece essere vera la tesi alternativa del dilemma di Eutifrone: che, semmai, Dio vuole il bene perché è bene. In questo caso, anche se Dio non c’è, il bene resta bene, il male male. E’ nelle cose stesse che ci sono qualità positive e negative. Ripagare con cariche pubbliche favori privati è male. Ogni forma di mafiosità dei comportamenti è un male. Ogni volta che ce ne sdegniamo, facciamo esperienza del bene e del male. Norberto Bobbio, citato da Mancuso, ha molti meriti, ma non è certo l’ultima autorità in tema di ragione pratica. Che “ogni tentativo di dare un fondamento razionale ai principi morali sia destinato al fallimento” è sostenibile solo in quella concezione della ragione che assurdamente la oppone alla sensibilità, la quale invece ne è parte essenziale. Come se volessimo opporre la vista al giudizio di fatto, invece di riconoscervi una base di verifica del giudizio stesso.
C’è però un’interpretazione dell’umanesimo ateo che indubbiamente implica il nichilismo, ed è precisamente quella volontaristica. Fu quella, ad esempio, di Sartre – ed è oggi la tragedia di quella cultura anche progressista e liberale che non riesce a liberarsi dal volontarismo, cioè dalla tesi che non ci sia, in materia di valori, verità accessibile, conoscibile. “Addio alla verità” è il titolo dell’ultimo libro di un influente filosofo postmoderno, e mi pare si commenti da sé. Ma dovremmo forse decretare che non può esistere un ateismo compatibile con l’etica, cioè con il dovuto da ciascuno a tutti? Questo sarebbe confondere l’ethos – che è lo stile di vita e la scala di valori, la vocazione e la fede, l’identità personale o morale di ciascuno – con l’etica, che è il dovuto da ciascuno a tutti. E il primo dovere etico qual è, se non quello di accordare all’ethos del mio simile ateo, purché nei fatti si dimostri compatibile con l’etica, lo stesso rispetto che esigo per il mio – purché a sua volta eticamente compatibile? Non è questa una versione della regola aurea?
In conclusione, caro Vito, delle due l’una. O è solo una questione di parole, quella che con chiarezza sollevi, e basta chiamare “Dio” una relazione fra persone – ma allora il povero ateo moralmente cristallino dubiterà se deve considerarsi soltanto incoerente o anche sciocco, visto che non si era accorto che il divino fosse “tutto lì”; oppure, come io credo, non è affatto una questione di parole, perché ad essere in questione è la libertà e la gratuità (o la grazia) dell’atto con cui l’uomo di fede dona il suo assenso e la sua vita a ciò che né la scienza chiede né l’etica comanda. In questione è la libertà con cui il perplesso sospende questo assenso, e l’ateo lo rifiuta: la sacrosanta libertà di ciò che ognuno è o diviene – oltre e al di là di ciò che deve agli altri. L’etica viene prima: perché di questo è condizione. Di questa libertà di fronte alle cose ultime, nella quale sta in definiva tutta la profondità e la serietà della nostra breve vita. Una società civile e giusta non è che la condizione perché questo umano lusso sia reso accessibile a ciascuno. Ma come costruirla se si mette l’etica dopo la fede, e quindi a questa libertà di ognuno, per cui l’etica è fatta, si tronca una delle vie possibili, senza la quale anche le altre perdono il loro senso?
Articolo uscito su Repubblica il 22 agosto 2009.
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