🙂 v 🙁 ? C’è una normatività nel ridere e nel piangere?
Sembrerebbe proprio di sì. A sostenerlo è Maurizio Ferraris, autore di un grazioso feuilleton da pochi giorni nelle librerie: Piangere e ridere davvero (Il Melangolo, Genova 2009, 11 euro).
Attraverso 47 agilissime riflessioni, idealmente una per settimana, Ferraris si avventura in una vera e propria fenomenologia del pianto e del riso, e prova a fare di queste reazioni emotive, basilari quanto sembrano esserlo l’amore e l’odio in filosofia morale, una casistica ma anche un’etica.
Come mai piangono e ridono veramente, “per davvero”, persone a cui saremmo propensi a non riconoscere questo status di ilari o piangenti, e perché invece sorge spesso più di un dubbio sull’autenticità del pianto o del riso di persone (apparentemente) prostrate dal dolore o pervase da un irrefrenabile impulso alla risata?
La risposta non è semplice, tanto più che obiezioni e contro obiezioni alla teoria “classica”, secondo la quale il pianto e il riso richiederebbero un presupposto di sincerità, si moltiplicano a dismisura ed è d’obbligo prenderle seriamente in considerazione.
Facciamo quale esempio, dice Ferraris, e proviamo a capire, fatti alla mano, come le cose realmente stiano. Partiamo dal classico “pianto da cipolle”, quello, per intenderci, in cui ci capita di incorrere preparando un soffritto e che è lì, pronto al varco, per «trasformare Tropea in una valle di lacrime».
È forse un vero pianto? La risposta sembra essere di “no”: non siamo noi a voler piangere; questo pianto potrebbe benissimo accordarsi con una tonalità emotiva felice e pare tradursi in una questione meccanica.
Per Ferraris, insomma, piangere per un forte bruciore agli occhi assomiglierebbe terribilmente alle risate «da solletico» e sarebbe analogo (ma per niente identico) al pianto da vino, o al «pianto chimico» di chi avesse l’ubriacatura infelice.
Di tipologie del pianto e del riso ce ne sono molte, moltissime: dal pianto e dal riso «fenomenologici», che Maurizio Ferraris sceglie di chiamare così «perché hanno l’apparenza esterna del pianto (e del riso), ma non ne hanno alcuna controparte interna o fisica», al piangere e al ridere «chimici», quelli appunto frutto del vino. E qui ci si sente profondamente tristi e depressi anche se, in effetti, è proprio una sorta di reazione chimica a sprofondare nella depressione o nell’euforia.
Ma di forme di pianto e di riso ce ne sono tante altre, tutte interessate da una propria forma di normatività: il piangere (per semplificare mi accontenterò della versione “triste” del corrispettivo “lieto” espresso dalle risate) per un ricordo, ovvero il «piangere coscientemente ma senza un oggetto presente»; il piangere in sogno, ovvero il piangere inconsciamente ma senza un oggetto presente. Senza dimenticare due pianti “strani”, che qualche fenomenologo oserebbe definire pseudo-pianti, come il «piangere per errore, a causa di oggetti che in un secondo momento di rivelano fasi» e il «piangere di felicità» che è piangere sì, ma «senza tristezza».
C’è il pianto di chi è colpito da un dolore reale e il pianto di chi si commuove per il personaggio (fittizio) di un romanzo. C’è, dice Ferraris, chi non riesce a piangere per una moglie vera eppure singhiozza disperatamente per la fine della povera Anna Karenina. E c’è chi ha pianto a dirotto per la morte di Lady D annunciata in mondovisione ma, in compenso, non è stato capace di versare una sola lacrima nel compiere quell’omicidio che l’ha portato in uno dei “bracci della morte” americani.
Nell’uno o nell’altro caso, sostiene Maurizio Ferraris, «piangere veramente è difficile, sia perché gli altri sono impenetrabili, almeno se vogliamo dar retta agli esistenzialisti, sia perché, nel piangere e nel ridere, e nella legittimità di farlo o di non farlo, si nasconde un potente elemento normativo». Insomma, «si può piangere o si può ridere solo a certe condizioni, e se uno piange o ride senza rispettarle, allora si esclude che pianga o rida veramente».
di Lodovica Maria Zanet
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