Il neurobiologo Derek Denton indaga i meccanismi che ci inducono a pensare
La visione del mondo, le emozioni, gli stimoli primari, la percezione del proprio corpo
La «mente» è ciò che il cervello fa, afferma candidamente Derek Denton nel suo Le emozioni primordiali. Gli albori della coscienza appena uscito da Bollati Boringhieri. Ci sono persone per le quali tale affermazione suona assurda e inaccettabile e altre, compreso me, per le quali non fa una grinza ed è, anzi, perfino ovvia. Temo che questi due gruppi di persone non potranno mai capirsi.
A volere essere precisi la mente è in effetti solo parte di ciò che il cervello fa: quest’ultimo infatti respira e metabolizza zuccheri, ma noi non definiamo mente tali attività. Né definiamo mente molte altre funzioni complicatissime del nostro cervello come quelle di seguire con lo sguardo un uccello in volo o di portarsi un cucchiaio alla bocca. Noi chiamiamo mente ciò che di più alto, cioè a noi più gradito, il cervello fa. Un capitolo particolare, e particolarmente gradito, delle estrinsecazioni della mente è poi rappresentato dalla coscienza, ciò che ci permette (ad esempio) di sapere dove siamo in questo momento e di sapere che lo sappiamo. Quello della natura, delle proprietà e dell’origine della coscienza è uno degli argomenti più affascinanti dello studio degli animali superiori e dell’uomo, che è stato oggetto di molti libri (ma di pochissimi articoli scientifici) negli ultimi venti o trenta anni. Ci si sono misurati filosofi, psicologi e qualche scienziato, ciascuno con una sua visione e una sua proposta. Si tratta di definire che cosa è la coscienza, di illustrare come agisce e di quale utilità può essere per chi la possiede, di individuarne l’origine evolutiva e magari di indicare quando, approssimativamente, è comparsa nel corso dell’evoluzione degli animali superiori.
Qualcuno infatti la considera appannaggio esclusivo della nostra specie, mentre altri ne vedono una certa continuità nelle specie animali diverse dalla nostra. Derek Denton, neurobiologo di grande esperienza, studia da sempre i meccanismi fisiologici che sottendono la percezione e il soddisfacimento dei bisogni biologici essenziali come la fame, la sete, il sonno, il bisogno d’aria, l’appetito per i diversi sali minerali, nonché la percezione del dolore e il desiderio sessuale. Pensa, giustamente, che questi bisogni abbiano preceduto di gran lunga la comparsa della coscienza e che, forse, possano dirci qualcosa di molto interessante anche su di essa. Per quanto riguarda l’origine del fenomeno «coscienza» o, per lo meno, del suo primo nucleo costitutivo, la cosiddetta coscienza primaria, c’è chi, come Gerald Edelman, chiama in causa la percezione del mondo esterno e la sua rappresentazione. Su questa base la coscienza primaria sarebbe capace di «creare una scena», cioè una mappa interiore degli eventi, sulla quale poi lavorare per impostare un ragionamento o un’azione. C’è invece chi, come Antonio Damasio, chiama più direttamente in causa il mondo emotivo, per quanto ridotto all’essenziale, e vede la coscienza primaria come un nodo di sensazioni e risonanze emotive sulle quali si può poi costruire tutto il resto.
Denton propone un terzo possibile elemento costitutivo della coscienza primaria, l’enterocezione, cioè la percezione non degli eventi esterni, ma di quelli interni al nostro corpo, come appunto gli stimoli primari della fame e della sete, che non ci abbandonano mai e che accompagnano come un leitmotiv di fondo tutti gli attimi della nostra vita. Il contatto continuo con questa nostra interiorità «corporea» starebbe quindi alla base dell’emergere di una coscienza di sé che dovrebbe poi arricchirsi di tutti gli altri elementi che conosciamo. Il libro ci conduce attraverso i dettagli teorici e sperimentali di questa coinvolgente proposta, che ha anche il merito di tracciare un’affascinante linea di continuità fra le diverse specie animali, che sfocerebbe poi nel nostro complesso, intellettualizzato e autoconversante modo di vivere la coscienza in ogni frangente della quotidianità. Personalmente, trovo del buono in ciascuna di queste proposte e penso che la coscienza primaria sia un po’ tutto questo. Con l’aggiunta della propriocezione, la percezione che ognuno di noi ha dello stato di tensione dei muscoli del proprio corpo e che mi permette di rendermi conto di stare in posizione eretta oppure di stare seduto, comodo o scomodo, oppure sdraiato o in bicicletta o in macchina, in procinto di compiere questa o quella azione. La coscienza è quindi il modo nel quale la percezione del mondo esterno, ma anche delle condizioni momentanee del mio proprio corpo, diviene una cosa «mia», interiore, omogenea a tutto ciò che già vi si trova, e «utilizzabile». Per cosa? Per poter «agire», materialmente, mentalmente o anche solo attraverso un’espressione verbale. Può darsi che tutta la magia del fenomeno coscienza si risolva nel portare alla ribalta del mio Io certi contenuti della percezione che siano «pronti per l’azione» o addirittura già azione: cose che stanno a mezza via fra la constatazione e la progettazione, come dire «il progetto».
Edoardo Boncinelli, articolo pubblicato dal Corriere della sera, 26 giugno 2009
Del 2009 la traduzione italiana per Bollati.
Su emozioni primordiali, coscienza, corpo: interessante per la parte su prorpiocezione ed interocezione
Interessante per la parte su propriocezione e enterocezione, certo, come dice Emilia Barile. Magari anche per il resto: interessare non è una capacità che manchi a Boncinelli. Ma posso concedermi un forse troppo facile esercizio di rigore termnologico, che poi vuol dire concettuale? (Dato che, infine, le parole sono un po’ la nostra cartamoneta, non si può essere troppo imprecisi senza rischiare di imbrogliarci a vicenda).
“A volere essere precisi la mente è in effetti solo parte di ciò che il cervello fa: quest’ultimo infatti respira e metabolizza zuccheri, ma noi non definiamo mente tali attività. Né definiamo mente molte altre funzioni complicatissime del nostro cervello come quelle di seguire con lo sguardo un uccello in volo o di portarsi un cucchiaio alla bocca.”
Ecco: personalmente ho sempre fatto fatica a credere che si potesse usare la parola “mente” come un nome di sostanza, perché poi le si attribuivano un sacco di attività per le quali, poveretta, non sembra avere il physique du role. Ad esempio offrire un mazzo di fiori a una signora non deve essere facile, per una mente. E neppure tanto far di conto col pallottolliere, o meglio insegnarlo a un bambino. O scrivere un pensiero intelligente con la mia stilografica Waterman. Mi è sempre parso che a far tutte queste cose una persona fosse decisamente più adatta di una mente, e allora già che c’era mi pareva bastasse anche a tutto il resto. Che poi una persona umana certamente non possa fare nessuna di queste cose senza il suo cervello, credo che non sia in questione.
Solo che un cervello, poveretto, non ha neppure lui il physique du role per far le cose che Edoardo gli attribuisce, al punto che se ci pensate vi sentite subito in un penoso imbarazzo per lui (il malcapitato cervello). Almeno: io non avevo mai sentito dire che un cervello avesse occhi e bocca! Cervelli in provetta, passi: ma cervelli a caccia o a tavola – è un esperimento mentale decisamente più ardito.
Questioni di parole, mi dite; sottigliezze inutili? Ma non mi sembra. Una funzione complicatissima come quella di portarsi un cucchiaio alla bocca: a quale bocca porterà il cucchiaio un cervello?
Ma alla sua, naturalmente!
Perfetto. Il mio cervello porta il cucchiaio alla sua bocca. Io avrei giurato che fosse la mia, ma pazienza, lasciamogliela pure. A questo punto però cosa vuol dire “il mio cervello”? Il cervello di chi?
Ho sentito spesso Edoardo affermare: “Io sono le mie sinapsi”. Semplifichiamo così: “Io sono il mio cervello” (in azione). A questo punto Boncinelli una risposta alla domanda ce l’ha. Per sostitutizione degli identici, semplice semplice. Ecco:
“Io sono il mio cervello”
Il cervello di chi?
“Mio”. Cioè “di me”.
Dunque: per sostituzione, “il cervello del mio cervello”
Caro Edoardo, in una mente che è quello che fa il cervello, cioè l’insieme delle sue funzioni, io non ci trovo niente di assurdo. Ma in un cervello che è del suo cervello, il quale (suo di chi?) sarà ptresumibilmente del suo cervello, io comincio a sentire un po’ di vertigine…. Mi spieghi meglio?
Non ho nessuna difficoltà ad ammettere i problemi connessi con la parola “mente”, ma non mi dirai che “persona” è meglio. Almeno sulla mente, a gruppi, ci si intende; sulla persona credo che non si intenda nessuno. L’ho sempre considerato un concetto da preti….
Avrei molte altre domande da farti, ma non credo che per iscritto arriviamo a niente. Tanto nessuno cambia mai assolutamente idea. Questo è il bello, per me il disastro, della filosofia! Hanno ragione tutti, quindi nessuno, almeno che non facciamo una guerra, come fanno le religioni.
Una breve citazione: «[Dell’inizio della vita umana] esiste poi una visione per così dire “naturale”, la quale sostiene che un feto può essere considerato un essere umano quando comincia a sopravvivere autonomamente al di fuori del corpo materno. È chiaro che questa posizione ha un indubbio vantaggio rispetto alle altre, che chiamano necessariamente in causa competenze scientifiche anche piuttosto raffinate [concepimento, gastrulazione, comparsa primo tracciato Eeg cerebrale]: la nascita è un evento determinato, concreto e in un certo senso pubblico al quale si può direttamente assistere. Per questo è piuttosto largo il consenso di cui gode questa teoria». Queste parole sono tratte dal bel libro L’etica della vita di Edoardo Boncinelli, sottotitolo Siamo uomini o embrioni? (Rizzoli, 2008). Uomini, appunto, non persone: nozione troppo equivoca per poter usata in modo rigoroso, dice l’autore. Eppure, proprio Boncinelli sembra essere costretto ad evocarla quando, nel passo sopra citato, parla dell’idea comune e “naturale” di inizio della vita umana, della nascita come pubblico ingresso di un individuo in una comunità che lo riconosca e accolga nel solco della propria storia.
Non sono bravo nelle etimologie. E non ho mai amato chi, filosofo o meno, vi ricorra con la pretesa di aver trovato chissà quale argomento decisivo a sostegno della propria tesi. A scuola, però, c’insegnavano che, in origine, “persona” stava per maschera dell’attore, grazie alla quale, oltre a mettere in scena il proprio personaggio, l’interprete riusciva a raggiungere con la propria voce gli spettatori: indispensabile stratagemma per raccontare una storia, o meglio, quella particolare storia. Non c’è nulla di decisivo in questa notazione né di particolarmente erudito. Eppure anch’essa ci rivela qualcosa del modo in cui ancora oggi usiamo la parola “persona”, l’avverbio “personalmente”, l’aggettivo “personale”. Sostituirle con “individuo”, “individualmente”, “individuale”, come anche Boncinelli tende a fare, quasi a ribadire che, con esse, non vogliamo in realtà riferirci a null’altro che alle naturali circostanze di vita di esemplari della specie homo sapiens sapiens, non aggiunge chiarezza alle nostre idee. Al contrario. Non è soltanto in quanto esemplari della nostra specie animale che Boncinelli stesso, al termine di quell’esame scientifico sull’origine della vita umana, suggerisce a ciascuno di assumersi la responsabilità di «trovare la [propria] risposta personale, sulla base delle [proprie] conoscenze, delle [proprie] convinzioni, della [propria] esperienza e dei [propri] sentimenti». Propri, appunto. E di nessun altro. Perché nessun altro, e questo anche Boncinelli lo riconosce senza esitazioni, potrà mai avere esattamente quella conoscenza, convinzione, esperienza, sensibilità e, in definitiva, storia. La storia che fin dai primi mesi di vita impariamo a leggere sul volto degli altri. La loro maschera.
Su una cosa, comunque, Boncinelli ha certamente ragione. Dall’osservatorio delle hard science certa terminologia non può che apparire mal definita, sfumata, ambigua. E il proposito della filosofia di darle una giustificazione, disperante. Eppure se, guardando il mare, diciamo che le onde “corrono verso riva”, non è perché in noi alligni l’odioso pregiudizio pre- o antiscientifico che le molecole d’acqua, sospinte dal vento, si stiano davvero precipitando verso la battigia. Semplicemente, e anche questo Boncinelli non farà fatica ad ammetterlo, esprimiamo in un modo perfettamente adeguato ai nostri scopi quel che abbiamo davanti agli occhi; certi di non voler smentire per questo le leggi di una qualunque delle teorie scientifiche che potrebbero descriverlo altrimenti; ma non meno sicuri del fatto che, sì, a guardarle, le onde paiono proprio correre a riva. Non c’è dubbio.
Non diversamente stanno le cose, penso, quando, ogni giorno, noi tutti usiamo le parole “persona”, “personalmente”, “personale”. Perché, allora, ci ritroviamo così spesso a discutere della loro legittimità e pregnanza? Quell’uso, limitatamente agli scopi per cui è sorto e si è modificato, e che la filosofia può chiarire, non smentisce né può essere smentito o messo in questione da alcuna teoria scientifica. Può soltanto, come ogni uso linguistico, mostrarsi non adeguato a nuovi e diversi scopi che possiamo esserci prefissi, e per i quali concetti come mente o cervello o sistema di mappe neuronali si sono rivelati più adatti. Ma sono propenso a credere che tali scopi, benché di per sé certo legittimi, abbiano poco a che fare, per limitarci a un esempio, con le prassi che costituiscono quel che chiamiamo etica.
P.S. Dimenticavo: personalmente di preti m’intendo ancor meno che di etimologia.
Simone Weil dice che “… i greci erano troppo intelligenti per far uso del termine persona” (cfr. “La persona e l’impersonale” in S. W., “Scritti londinesi e ultime lettere”), ma come termine di paragone aveva soprattutto, ai suoi tempi, il “personalismo” à la Mounier, che era confusionario assai.
In ogni caso, ben prima dei preti il termine persona era in uso in ambito teatrale (“Vulpes et persona tragica”) e, soprattutto, in ambito giuridico, dove indicava e indica tutt’oggi – differenziando tra persona fisica e persona giuridica – qualcosa di preciso e inequivoco: individuo potenzialmente o attualmente capace di atti liberi.
I preti, semmai, se ne sono appropriati (ut saepe solet).