Se l’impostazione e i modelli delle neuroscienze cognitive guidano oggi la maggior parte delle ricerche sulla natura e il funzionamento della mente, la psicopatologia, occupandosi della sofferenza psichica, non può certamente sottrarsi a questa forte influenza.
Così, può sembrare ormai pratica diffusa la riduzione di uno stato depressivo o ansioso all’attività di neurotrasmettitori come serotonina e noradrenalina, ma è in un’analisi dettagliata della struttura cerebrale, perfezionata soltanto recentemente, che l’intervento farmacologico comincia a trovare il proprio indispensabile punto di riferimento. Lo straordinario progresso che la ricerca neuroscientifica, in particolare neurobiologica, ha realizzato negli ultimi decenni ha infatti reso possibile la costruzione di fondamenti empirici (che in passato erano per lo più assenti) per l’orientamento biologico in psichiatria e psicopatologia.
Secondo questo tipo di orientamento le malattie mentali non vanno distinte da altri tipi di malattia su base somatica, avendo quindi origine in una disfunzione biologica localizzabile, ad esempio, nell’attività dei sistemi neurotrasmettitoriali. La sintomatologia e le sue infinite articolazioni, lungi dal costituire un orizzonte di significato utile anche in prospettiva terapeutica, non rappresenterebbe altro che l’espressione diretta di un’alterazione fisica che viene assunta a causa principale del disturbo (anche ammettendo aspetti psicosociali ed ambientali come possibili fattori scatenanti).
Una delle conseguenze principali di questo genere di assunzioni è il radicale ridimensionamento dell’analisi del vissuto soggettivo ai fini della teoria psicopatologica e della pratica psichiatrica. La lettura dell’esperienza diretta del paziente e del linguaggio con il quale esprime il suo personale allontanamento dalla dimensione della normalità e del senso comune assume un ruolo decisamente marginale rispetto alle metodiche oggettive dell’apparato scientifico, considerato spesso l’unico strumento affidabile per la comprensione dei meccanismi psicologici. Il dibattito sulla legittimità di questo approccio tende molto spesso a concentrarsi intorno alla possibilità che gli psicofarmaci non agiscano sulla malattia psichica intaccandone le cause, come sostenuto dalla psichiatria biologica, ma piuttosto si limitino a ridurre o eliminare temporaneamente la sintomatologia senza realizzare un autentico e stabile effetto curativo.
Questo modo di impostare la questione sembra ancora attuale in ambito clinico, ma per tentare di risolvere le problematiche di un approccio riduzionista alla vita mentale e personale è necessario spostarsi sul piano della riflessione filosofica. Non è difficile rintracciare nel tentativo di elaborare strategie terapeutiche concentrate unicamente sulla psicofarmacologia le conseguenze di un ben preciso atteggiamento teorico che all’interno del dibattito neuroscientifico e filosofico contemporaneo è ancora lontano dall’avere l’ultima parola. Le critiche mosse ai paradigmi riduzionisti, in tutte le loro forme, sono infatti molte e si basano, in genere, sulle difficoltà concettuali che sono implicate dal tentativo di inserire in un paradigma di tipo naturalistico l’ “effetto che fa” essere in un determinato stato mentale di consapevolezza.
Tuttavia, se l’irriducibilità della mente al cervello viene affrontata unicamente da questa prospettiva, impostando gli argomenti intorno ad una qualità esperienziale astrattamente considerata, le possibilità di integrare la descrizione scientifica della persona attraverso altri metodi di indagine non sono certo molte e il gap esplicativo resta, effettivamente, insuperabile. Interpretando l’esperienza altrui secondo questo senso “logico”, il contatto con coscienze oltre la mia non può che essere sbarrato. Non solo: indicando con l’idea di qualia l’essenza di ciò che appartiene al mio orizzonte personale e non incluso da una descrizione naturalistica, anche il contatto con la mia stessa coscienza risulta sfuggente. Da questo punto di vista, l’approccio fenomenologico può rappresentare un autentico “rimedio metodologico” al problema difficile: secondo la fenomenologia, infatti, il vissuto personale, pur essendo irriducibile ad una descrizione naturalistica, non per questo è inconoscibile e può essere, invece, avvicinato e compreso nelle sue strutture fondamentali.
L’applicazione del metodo fenomenologico nel campo della psicopatologia non rappresenta certamente una novità e nella scienza psichiatrica hanno spesso convissuto linguaggi differenti; ma nel panorama attuale, in cui lo studio e la comprensione del funzionamento mentale non possono mai prescindere completamente dai modelli neuro-cognitivi, sembra necessario giustificare e rifondare la coesistenza di più linguaggi descrittivi, in particolare in psicopatologia, dove rendere conto dell’esperienza umana appare, se possibile, ancora più importante.
Naturalmente, proporre un approccio fenomenologico non significa dimenticarsi del ruolo fondamentale che svolgono oggi le neuroscienze nella comprensione del pensiero umano, ma proprio perché non si discute questo ruolo, acquista ancora più significato la considerazione di alcuni possibili limiti dei modelli cognitivi e neurobiologici del mentale; in psicopatologia, questi limiti si riflettono nella differenza che intercorre tra lo studio attraverso metodi empirici di aspetti specifici della psicosi e la considerazione della persona in quanto dimensione globale e irriducibile. Se l’insistenza sul carattere incomprensibile di alcune manifestazioni della follia (tuttora presente nell’ambito della ricerca) può aver contribuito in misura non indifferente all’isolamento del malato dalla dimensione della normalità, la psichiatria fenomenologica, ricercando zone di comprensibilità nei vissuti apparentemente così distanti dal senso comune, come nel caso della schizofrenia, restituisce umanità alla dimensione della presunta “alienazione”. Inoltre, una delle caratteristiche che la fenomenologia cerca di mettere in luce è la normatività dei fenomeni di coscienza (adeguatezza delle percezioni, correttezza dei ragionamenti, appropriatezza delle emozioni), e potrebbe così completare le riduzioni naturalistiche che non hanno autentiche risorse per distinguere normalità e anormalità.
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