Ma che sventura.
Ho scoperto ieri in un consiglio di facoltà di essere il “decano” della mia facoltà – cioè la più vecchia ancora in ruolo. Bene, la mia vita è stata splendidamente varia e interessante, nulla da obiettare. Ma che strano destino, fra molti privilegi, sembra delinearsi in questo crepuscolo della Repubblica per una vecchia prof. che – a parte le sue lezioni e i suoi libri – ha passato gli ultimi dieci anni a combattere il totalitarismo mentale – la sindrome della “mente prigioniera”, la chiamava il grande Czeslaw Milosz – che tutti ci minaccia, e che è socratica vocazione combattere.
Che sventura che la più vecchia, finita una stagione di battaglie e nel mezzo di una speranza (nel nostro piccolo) di rinnovamento, almeno di questa piccola accademia dove il meglio della vita umana potrebbe fiorire negli studi e nella ricerca – debba imbattersi con sconcerto e incredulità in questa pagina scritta dal più giovane, bel virgulto di speranze (anche per il mondo umiliato e sofferente dei suoi coetanei, dei nostri ragazzi, in questa agonizzante Repubblica):
http://eidoteca.net/2013/09/18/la-situazione-siriana-intervista-al-filosofo-diego-fusaro/
Per constatare che il totalitarismo mentale o la prigionia interiore cresce e si diffonde, più tenace che mai, affascinando probabilmente molti della sua generazione, altrimenti non si spiegherebbe il consenso di cui il giovane “filosofo” (perdonate, perdonami Diego le virgolette, ma non è possibile usare il nome della vocazione di Socrate per chi pensa in modo tanto contrario a Socrate!) gode in rete e nei media.
Oh caro Diego Fusaro, perché è a te che voglio parlare, e non è la prima volta che ci provo. Ti ho ascoltato oracoleggiare da economista sull’euro e l’Europa in uno spezzone di una trasmissione che davvero assomigliava a una gabbia – non di matti forse ma di cialtroni urlanti, e questo, poverino, non è colpa tua, il livello medio dei dibattiti televisivi è quello che è. Ne so qualcosa. E pazienza, ho spento l’occhio catodico demenziale, pregando l’anima di Altiero Spinelli di aver pazienza, in fondo c’è buona volontà oltre la catastrofe che tu suggerisci come buona via (uscire dall’euro), e certo che un’Europa politica, che finalmente riduca la sovranità degli stati membri anche nel resto della politica e non solo nell’economia, è infine la cosa per cui bisognerebbe combattere giorno e notte.
Già ero rimasta sorpresa di apprendere da una precedente pagina in rete che il tuo peggior nemico nel dibattito pubblico è chiunque si ostini ad essere antiberlusconiano – personalmente preferirei non dover dare un nome proprio alla mentalità viscidamente truffaldina, mafioseggiante e protervamente impunita dei palazzinari e puttanieri (mi scusino i miei studenti) che con l’aiuto di una classe politica senz’arte né parte da vent’anni a questa parte diffondono l’osceno e lo chiamano libertà o forza italia o qualsivoglia altra bestemmia garbi loro. Preferirei non dare un nome proprio a questa mentalità non maggioritaria certamente ma ben radicata, che con l’aiuto di leggi infami si è impadronita di quasi tutta la Cosa Pubblica, fino a ridurla all’agonia in cui versa. Ma infatti non è più un nome proprio quello, non più di quanto lo siano altre designazioni dei ricorrenti flagelli in cui si condensa per una o due generazioni la banalità del male. Anche se il nome di origine propria che meglio designa l’umanità che il berlusconismo lascia erede di se stesso è: la razza nana degli scilipotidi.
Ma aprire una qualunque pagina in rete, e trovarmi faccia a faccia con l’inconcepibile – Diego: la tua difesa di Assad e dello stato siriano dal vero Nemico : il capitalismo o l’imperialismo statunitense – no, a me questo sembra davvero troppo per cambiare pagina e tornare a cose più urgenti. Come dire, sentirti dire queste cose e star zitti, è quasi come sentir lodare Stalin o Hitler e far finta di niente. Non è che perché uno non ha tutto il potere che questi due scatenarono contro il mondo, che la sua efferatezza è meno grave, mi pare. E allora davvero fammi capire il tuo argomento, Diego. Sono dunque solo ideologia e menzogna quelle che descrivono Bashar Assad come un autocrate responsabile di alcuni eccidi fra quelli spaventosi nella storia dell’uomo? Non c’è alcun fatto nell’autocrazia siriana? Bada bene, riconoscere alcuni fatti non significa affatto rimuoverne altri: per esempio che in alcune provate occasioni Israele e gli stessi Stati Uniti hanno usato eccome i famigerati gas, i mezzi dello stragismo più vigliacco e disumano che ci sia. Non fraintendermi dunque – non ho alcuna difesa d’ufficio da fare. Ma – perché è questo il vero punto della mia incredulità, e, se vorrai, del contendere, anche nel caso delle cose patrie: è possibile che tu creda veramente, caro Diego, che sia il “capitalismo” l’autore di tutta a) la violenza politica e bellica (scenario internazionale) b) la corruzione del diritto, dell’etica, del linguaggio e della logica che stanno uccidendo questa nostra Repubblica (scenario nazionale)? Oh Diego, dunque questo tu insegni? Il “capitalismo”, questa prosopopea, decide dei gas e delle bombe, decide delle leggi elettorali e delle leggi ad personam, decide di sopprimere o stravolgere una Costituzione, decide di Guantanamo o di Abu Omar, decide magari anche di mettere in cattedra te o (frittata già fatta) me? E non fa proprio la minima differenza che a fare il presidente degli Stati Uniti sia un Bush o un Obama, e a fare – si parva licet – il nostro Presidente sia un uomo che ancora nel ’56 non ci vedeva giusto su carri armati e altre contingenze del Reale, che come si sa è Razionale, o (speranza che sfiorammo e che svanì) un grande costituzionalista che ha speso la vita a dare delicate articolazioni normative all’idea di giustizia? E non ti sfiora il dubbio che, comunque tu lo voglia chiamare, un modo di funzionamento della vita economica pur centrato sul mercato cambi come dal giorno alla notte a seconda delle regole e delle istituzioni in cui gli è concesso di funzionare, e che queste non sono leggi interne di un noumeno detto “capitalismo” ma norme che siamo noi a chiedere o a rifiutare? O che, se la repubblica mondiale del diritto auspicata da Kant ancora non esiste, l’antidoto al regime di una potenza unipolare non sia Carlo Marx – ma proprio un po’ più d’Europa?
Ma con domande così larghe e accorate un dibattito forse non può cominciare. E allora lancio il guanto e ti sfido a una replica semplice: come commenteresti tu la tesi di Sylos Labini (2002), citata da Barbara Spinelli (“la Repubblica”, 18/09/2013): che “lo sviluppo del capitalismo è sostenibile”, se lo è, “nel rispetto di regole severe”? Che è in mancanza, o nella violazione di queste, che una civiltà si ammala? E quello che tu chiami “il fanatismo dell’economia” non è forse un aspetto dell’abdicazione (tutta politica) della “politica” a governare le cose umane con ragione e giustizia, e non una “legge” inesorabile del “capitalismo”? Perché se tale fosse, a chi o a cosa si appella il tuo richiamo al “pathos anti-adattativo” e al gramsciano “spirito di scissione”, che crescono (speriamo) in noi?
Cara Roberta,
chiamato in causa dalla tua appassionata e appassionante riflessione, ti rispondo. Lo faccio in privato, per correttezza. Se poi tu riterrai opportuno, renderò pubblica la risposta. Mi sembra corretto fare così con una collega, per di più decano, che stimo e con cui sono seriamente felice e onorato – al di là di ogni retorica – di potermi confrontare su questi temi decisivi. Nel rispetto dell’interlocutore, credo sia più giusto fare così. Spero, naturalmente, in un’analoga amicizia e in un’analoga stima da parte tua, nonostante la differenza delle visioni (o proprio in forza di essa, se, come credo, è sempre bene valorizzare le differenze!).
Credo che, in fondo, combattiamo contro la stessa cosa, se – come tu dici – è contro la “mente prigioniera” che lotti. È ciò contro cui lotto anch’io. Certo, bisogna capire di che cosa è prigioniera oggi la mente: converrai con me che le ideologie cambiano e che di volta in volta è l’ideologia dominante a imprigionare le menti. Oggi credo sia difficile dimostrare che l’ideologia dominante non sia quella neoliberale, l’ideologia perfettamente compiuta che – ecco il punto – liquida come ideologia tutto ciò che esula dall’orizzonte neoliberale presentato come modo naturale di pensare, esistere e produrre. È questa, ahinoi, la prigione che tiene in cattività le menti oggi. Non era forse Socrate che si muoveva nello spazio pubblico dell’agorà per destrutturare le false opinioni – le ideologie, potremmo anche dire – radicate nella mente dei concittadini?
Mi sfugge dunque il senso del tuo richiamo a Socrate, che – se non ti conoscessi di persona e se non conoscessi la tua intelligenza – sembrerebbe solo un insulto degno di Sallusti e non di Roberta De Monticelli. Perché demonizzare a priori il proprio interlocutore (grande o piccolo che sia) presentandolo come la negazione vivente di Socrate? La filosofia si dice e si pratica in molti modi. Io ben capisco la tua visione della filosofia (pur non condividendola personalmente); tu escludi a priori la mia, negandole il titolo stesso di filosofia.
Sono anch’io un europeista convinto, come Erasmo e Spinelli, ma poi anche come Kant: ed è proprio per questo – sottolineo: per questo! – motivo che sono contro l’odierna eurocrazia, che dei sogni di Spinelli e di Kant è il pervertimento. Cosa c’entra l’odierna Europa del debito e dell’asservimento economico dei popoli con il nobile progetto di Spinelli e di Kant? Perché continuare a negarsi – a proposito di mente prigioniera! – che l’odierna Europa non è altro che un progetto criminale per portare a compimento quel processo – avviatosi nel 1989 – di privatizzazione integrale delle esistenze e di smantellamento coatto dei diritti sociali? Perché, in nome della passione della verità e della denuncia delle storture del mondo, ostinarsi a non vedere che la funzione della moneta unica non è servire i popoli, ma asservirli, rinsaldando il potere dell’aristocrazia finanziaria e del grande capitale europeo, cifra macabra di un’Europa finanziaria in cui i popoli e le nazioni non contano più nulla né come soggetto politico, né come soggetto sociale?
Per tornare, una volta di più, al tema del berlusconismo: non ho mai sostenuto ciò che tu continui ad attribuirmi, presentandomi come un berlusconiano larvato. Sono allievo di Hegel e di Marx, non di Pera o di Schifani! Come già dicevo, il punto del problema sta altrove, se solo si sappia guardare più in là dell’asfissiante teatrino dello scontro berlusconiani-antiberlusconiani. Il problema non è tanto la volgarità patetica del Cavaliere, ma la metamorfosi della sinistra. In che senso?
Come già scrivevo, l’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di occultare la propria adesione supina al capitale dietro l’opposizione alla contraddizione falsamente identificata nella figura di un’unica persona, secondo il tragicomico transito dal socialismo in un solo paese alla contraddizione in un solo uomo. Così facendo, la sinistra si è potuta volgarmente riciclare, aderendo al monoteismo del mercato e dirottando su un’unica persona la contraddizione contro cui combattere. Come l’odierno antifascismo in assenza integrale di fascismo, così l’antiberlusconismo ha svolto il ruolo di fondazione e di mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine neoliberale.
Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti dell’ordo capitalistico, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. La cessazione palese dell’ostilità verso il nomos dell’economia è stata riconvertita in conflitto moralistico-legalistico verso un unico individuo. È una tragedia sociale, politica e culturale. Forse la più grave degli ultimi trent’anni.
Anche sull’affaire Assad mi attribuisci parole e posizioni che non sono le mie e mi vedo pertanto costretto a rettificare. Capita che popoli e nazioni oppresse talvolta si ribellino, sia pure a modo loro e con i mezzi che sono loro a disposizione e che l’anima bella occidentale è subito pronta a bollare come “terrorismo”, “integralismo”, ecc. Non si tratta ovviamente di approvare tutti questi mezzi, né di giustificarli in ambito morale o politico. Si tratta, però, di capire il fatto – di per sé chiaro come il sole – che i mezzi estremi impiegati dall’imperialismo possono provocare reazioni estreme. Questo il punto. Non sto affatto con Assad, per il quale non nutro personalmente alcuna simpatia: ma non accetto neppure che si usi Assad – presentandolo ipocritamente come il nuovo Hitler – per aggressioni imperialistiche stabilite a priori (da quant’è che si doveva attaccare la Siria? A quando risale l’inserimento della Siria nelle liste di proscrizione globali?).
Non sono affatto un sostenitore della Siria in quanto tale, ma nel probabile nuovo conflitto tra gli aggressori USA e gli aggrediti siriani sto senza se e senza ma dalla parte di questi ultimi: o vogliamo negare la legittima difesa agli aggrediti? Non schierarsi non è degno di un intellettuale, ed è tipico solo dell’anima bella di cui diceva Hegel. Di più: non schierarsi significa legittimare ciò che è, i rapporti di forza quali sono.
Ripeto: non nego che Assad sia un personaggio poco raccomandabile (ho mai detto forse il contrario?), nego però il teorema – degno della mente prigioniera di cui sopra – per cui bisogna sempre da capo intervenire militarmente, usando i diritti umani come foglia di fico per coprire oscene aggressioni imperialistiche (Iraq, Libia, Siria, ecc.). Tutto qui: né più, né meno.
Non penso ovviamente che il capitalismo sia il nuovo Dio che tutto decide, ed è anzi ciò contro cui combatto: e, tuttavia, sì, lo ammetto senza remore, penso che la contraddizione primaria sia il nesso di forza capitalistico, con il classismo che genera a propria immagine e somiglianza e che – mi pare di capire – resta sempre ai margini della prospettiva della questione morale. Il fatto stesso che si citi la falsa alternativa tra Bush e Obama mi pare sintomatico: sono davvero così diversi? O non sono entrambi manifestazioni della stessa contraddizione che sfocia nel bombardamento etico?
Come già dicevo, il proceduralismo democratico e il formalismo delle norme attualmente non presentano il benché minimo interesse per i nove decimi dell’umanità sofferente: la quale lotta per sopravvivere e per poter accedere al benessere minimo, orientandosi secondo visioni non proceduralistiche, bensì contenutistiche. Esse presentano, quale contenuto, la legittima richiesta di riconoscimento e di uguaglianza, sia pure espressa in una maniera che il lessico proceduralista inquadra come fondamentalistica. Questo è il punto. Ciò non significa – si badi – che io neghi la responsabilità degli individui, ci mancherebbe altro! Significa solo che tengo – o, almeno, provo a tenere – in debita considerazione la storicità (che è esattamente ciò che manca nella prospettiva kantiana, come ben rilevò Croce); la quale – come sapeva Marx – è un nostro prodotto dal quale poi siamo tuttavia condizionati nel nostro agire. Per questo, nel mio piccolo, rigetto l’alienazione capitalistica e le patologie che le sono consustanziali. Se non credessi nella libertà degli individui di dire di no, non avrebbe senso pensare e agire, sperare e lottare: non trovi?
Vengo ora alla replica della domanda che tu mi poni: “lo sviluppo del capitalismo è sostenibile, nel rispetto di regole severe”?. Se si impongono regole severe, non è più capitalismo: il capitalismo ha come fondamento esattamente l’annullamento di ogni regola che non sia quella che il mercato si autoimpone (da cui i continui starnazzamenti dei neoliberali contro i lacci e i lacciuoli della politica sociale)! Quello che tu dici, è per me accettabilissimo! Viva le regole che limitano l’economia! Ben venga la gestione con norme rigide e severe della produzione! Ma questo non si chiama forse primato della politica sull’economia, id est egemonia del governo degli uomini sui meccanismi della produzione e dello scambio? Non è questo forse un tentativo di dare regole all’economia limitandola e riconducendola al servizio dell’uomo? Se questo è, siamo d’accordissimo, ed è peraltro quello che vado sostenendo da tempo. Il punto è che ciò significa uscire dal capitalismo, e mi fa davvero piacere che tu – che pure non parli, salvo errore, di uscita dal capitalismo – di fatto proponga quella tesi! Come si può gestire politicamente e con regole il mercato rimanendo in Europa, che è esattamente la neutralizzazione della possibilità politica dei popoli di decidere sovranamente sulla propria esistenza? Come puoi armonizzare la tua aspirazione a porre limiti e leggi all’economia e, insieme, approvare l’apparato burocratico che la rende irrealizzabile? Come non vedere che il solo modo per realizzare ciò che tu dici – regole per il mercato – ci vuole la politica, la quale a sua volta, per operare, dev’essere liberata dall’egemonia dell’economia sancita dalla moneta unica?
Ti ripropongo quel che ti dicevo qualche mese fa: saresti d’accordo a organizzare insieme un dibattito su questi temi al “Punto Rosso” o il qualche altro luogo pubblico di nostro gradimento? Che ne dici? A me farebbe molto piacere e ne sarei onorato. Ti ringrazio fin da ora per aver preso in considerazione le mie tesi con serietà e passione, un caro saluto,
Diego
Ringrazio Diego Fusaro e i molti che già hanno commentato su fb, dove il dibattito si è in parte svolto. Ma il dibattito sarebbe bello aprirlo a tutti gli studenti e i colleghi o comunque agli interessati a qualunque titolo. Come sempre quando si dibatte, anche duramente, le ragioni si chiariscono meglio e ci si trova forse meno lontani di quanto pareva all’inizio. Su una pagina come questa forse possiamo lasciar correre le coloriture retoriche che da sempre ravvivano la polemica, che secondo alcuni è vita – io comunque faccio ammenda delle mie, e vengo al dunque: l’oggetto del contendere pare a me quello fra:
Un modo di leggere quanto c’è di assiologicamente negativo nella situazione internazionale (crisi Siria ad esempio) e nazionale (che io descrivo come agonia apparente della Repubblica, ad esempio, ma credo Diego descriverebbe diversamente) centrato sulla categoria marxiana di capitalismo in quanto sistema di produzione che non può – tragicamente non può che – secernere da se stesso una coscienza e mentalità neoliberista, e inoltre al di là delle buone intenzioni dei singoli produce situazioni inaccettabili e tuttavia “necessarie”, o contrabbandate come tali (su questo punto esito: non mi è chiarissima la giusta lettura);
E
Un modo di leggere tutto questo (io però francamente in considerazioni di geopolitica non mi avventuro, infatti i miei interventi riportano essenzialmente a questioni legate al funzionamento o malfunzionamento delle democrazie, e in prospettiva al nostro operare perché si realizzi la repubblica mondiale del diritto auspicata da Kant) che pone la domanda (secondo me) cruciale: se un qualunque sistema economico sia sostenibile (o no) qualora ci siano, e siano comprese e condivise e applicate dalle persone a tutti i livelli della vita economica, civile e politica, le regole che le democrazie (ma non gli altri regimi, da cui la divergenza sulla crisi siriana) possono darsi per limitare la nostra libertà e i suoi effetti perversi e ingiusti.
Ma se il capitalismo con le regole giuste non sarebbe più il mostro che affama il mondo, allora perché imputare a “lui” e non alla politica e in ultima analisi dunque a noi, alle nostre azioni e coscienze la causa ultima di ogni male? Però se invece come Diego scrive è proprio lì il tragico, che non si possono affatto modificare le regole di questo molosso, almeno non le si possono modificare con i mezzi della politica, della legislazione, e in ultima analisi quindi delle nostre coscienze, e azioni, e responsabilità, se insomma c’è un tragico destino nelle cose – allora cosa può la nostra desta coscienza e la nostra viva responsabilità, cosa può il nostro volere e il nostro pensiero, cosa può Socrate?
Questo sembra a me il dilemma che la nostra discussione fa emergere…. Comments and criticisms welcome!
Per smontare le tesi anticapitaliste di Fusaro e capire cosa vuole dire Roberta De Monticelli, basterebbe ricordargli che la Germania o la Svezia con le loro regole e il loro welfare sono nazioni capitaliste…
Quanto poi alla riduzione dell’antiberlusconismo a puro esercizio di sopravvivenza della sinistra italiana, il ragazzo dimentica o finge di non sapere, che il Delinquente di Arcore è stato il referente dei poteri più sporchi e subdoli di questo disgraziato Paese. Mafia, Massoneria deviata, malaffare nazionale e internazionale, boiardi di Stato, parassiti, speculatori, costruttori abusivi, evasori fiscali… insomma, quei 5 o 6 milioni di italiani che hanno affossato questo paese, e che prima della sua ascesa dovevano almeno bussare alle porte dei politici per intercettarne i favori, con lui hanno potuto sedersi direttamente in Parlamento e in tutte le istituzioni, trasformando così la normale dialettica politica in una contrapposizione impropria tra ideologia politica e immoralità.
Intervengo per esprimere un’opinione diversa da quella di Diego, che apprezzo per le belle pagine di http://www.filosofico.net/. A mio avviso il ragionamento va rovesciato: la sinistra bicamerale da D’Alema a Bersani non si mai retta sull’antiberlusconismo, ma piuttosto ha sempre trovato un compromesso con Berlusconi: noi ti lasciamo alla guida del governo e tu ci aiuti a rimanere alla guida dei vari PD. Se si analizza seriamente quanto è accaduto emerge che logica da D’Alema fino a Bersani non era quella di vincere le elezioni politiche, ma di ottenere il maggior numero di delegati al congresso del partito. Il risultato delle elezioni politiche era secondario. D’Alema docet, quando qualche giorno fa diceva a Renzi: sta attento, non ho mai perso un congresso. Dov’è questo furore antiberlusconiano? Vi ricordate l’ultima campagna elettorale: a criticare Berlusconi era eventualmente Monti, non di certo Bersani. Fusaro mi pare l’unico ad aver visto comizi di un Bersani trascinato dall’ideologia antiberlusconiana. Parlare poi di cultura della sinistra che trova un collante nell’antiberlusconismo per nascondere la sua adesione al mercato, fa mettere le mani nei capelli, e quale sarebbe questa cultura? Camusso? Bertinotti? Fassina? In che modo avrebbe contestato o messo in crisi o contenuto il berlusconismo? Pensi veramente che a far cadere Berlusconi siano stati Camusso e Landini? Detto questo se è vero che è necessario uscire fuori dall’antiberlusconismo, ancora più importante è uscire fuori da questo odio talebano verso gli Stati Uniti, ideologia cieca, quando porta a non distinguere Obama dai vari Bush. Predicare il superamento dell’antiberlusconismo per praticare antiamericanismo? No, grazie!
Riporto, per spirito di completezza (come usa dire), il seguito del dibattito polifonico svoltosi su facebook:
Diego Fusaro: PS ovviamente, ho pubblicato questo testo DOPO aver avuto l’approvazione dell’amica e collega De Monticelli !
Roberta De Monticelli: Come ti ho scritto, caro Diego, ho mandato l’intervento anche al Phenomenologylab, in modo che con la tua replica si possa suscitare anche là un dibattito, magari anche con gli studenti e i colleghi di filosofia, e non solo da noi….. Sarebbe giusto se il moderatore mi chiedesse di eliminare quelle
virgolette che ho messo sul nome di “filosofo” – chiededendone al contempo perdono, però, cosa che Sallusti non fa di solito. Se ti ho ferito, ho sbagliato. Ma l’ho fatto precisamente per sottolineare il punto in questione: ci sono, mi chedo, in ultima analisi altri agenti causali che le persone nella storia? E non è il loro destituire in se stessi il soggetto reponsabile e disposto ad assumere questa sua responsabilità, dando anonimamente il loro consenso alle pratiche più ingiuste, quello che fa prevalere, nella storia appunto, i poteri “anonimi” del tipo “capitalismo senza regole” (ma non solo, oh, anche cose molto più piccole e altrettanto brutte)? E allora, mi sembra impossibile senza far totrto al vero negare che ci sia differenza fra un Bush e un Obama, fra un Giorgio Napolitano e uno Stefano Rodotà!Poi c’è anche chi è costretto a subire tutto e sempre, come chi viene bombardato o gasato. Ma questo toglie forse un’oncia di responsabilità personale di fronte alla storia a chi bombarda e gasa? A me è parsa questa, sempre, la lezione di Socrate, e questo volevo sottolineare. Per questo mi richiamavo a Milosz! La servitù interiore nasce nel pensiero di chi crea cose come la Repubblica Popolare Polacca da cui Milosz fuggì, perché negava il potere dirompente della coscienza personale, e così l’addormentava!
Diego Fusaro: Cara Roberta, non mi hai affatto ferito. Ho anzi molto apprezzato, come sempre, la tua schiettezza parresiastica. Non devi, dunque, affatto scusarti. “ci sono, mi chedo, in ultima analisi altri agenti causali che le persone nella storia?”: sì, i loro prodotti storici. Così risponderei. Gli uomini fanno certo la loro storia, ma le loro oggettivazioni – che pure sono sempre trasformabili, in quanto prodotti della libertà umana – condizionano poi gli uomini nel fare la loro storia. Il guaio, poi, è quando gli uomini non riconoscono più la natura soggettiva degli oggetti, obliando cioè il fatto che ciò che è è sempre il risultato del loro libero agire. Nasce così, ad esempio, la folle fede nelle leggi del mercato divinizzato, la teologia dello spread, e mille altre cose che Marx avrebbe detto sensibilmente sovrasensibili e piene di capricci teologici. L’odierna globocrazia finanziaria è esattamente questo, l’autonomizzarsi dei prodotti dell’umanità non più riconosciuti come tali, ciò che l’idealismo chiama – come tutti sanno – alienazione, il perdersi là dove ci si dovrebbe trovare, il non vedere più l’identità di soggetto e oggetto, di umanità e sue libere oggettivazioni. L’oggetto viene ipostatizzato in un nuovo Dio da venerare (in ciò la teologia e la scienza sono affini, come ben rilevò Gentile) e a cui prestare culti e sacrifici (il popolo greco ne sa oggi tragicamente qualcosa). Come spiegare altrimenti quell’immagine di Obama che, in riva al mare, di fronte al petrolio (qualche anno fa) scaglia una pietra, impotente (lui, il presidente americano!) al cospetto della tragedia prodotta dall’economia non più disciplinata? La differenza tra Bush e Obama eccome se c’è, ma non deve indurre a dimenticare la somiglianza, che è forse anche maggiore (in politica estera soprattutto). Sono d’accordissimo con te: viva sempre Socrate, il nostro padre nobile! Viva il dialogo e il rispetto dell’alterità, della libera discussione e – mi si permetta – della destrutturazione delle ideologie collaudate e inerzialmente accettate (anche questo faceva Socrate!). Abbasso la violenza e le dittature: ma la condanna del passato (che dev’essere ferma e decisa, dal nazismo al gulag!) non deve servire a dirottare la critica dal presente e dalle sue nuove dittature e violenze. Essere per la libertà, la democrazia e l’uguaglianza – come sia io sia tu siamo – significa essere contro quelle forze che OGGI la rendono impossibile, e quelle forze OGGI non sono Hitler e Stalin (fortunatamente estinti), ma l’eurocrazia e la violenza economica immanente dell’economia santificata dalla teologia neoliberale. Oggi Hitler e Stalin parlano inglese e si richiamano al mercato e alle sue leggi, non usano il carro armato ma lo spread, non usano il mitra ma il debito, condannano ogni violenza che non sia quella impersonale dell’economia: nel mio piccolo, essere allievo di Socrate significa rendere evidenti queste contraddizioni e provare – sempre nel mio piccolo – a opporre resistenza.
Guido Zanetti: Onorato dal poter leggere un dibattito tra due docenti che in questi anni ho considerato maestri, e non solo di filosofia. Persone che oltre le differenze apparenti ho trovato sostanzialmente molto simili. Spero un giorno di poter assistere di persona d un eventuale dibattito su temi che oggi sono fondamentali per rendere questo mondo un posto -anche solo di poco- migliore, anche se ciò probabilmente non avverrà più nell’ateneo in cui ho avuto il piacere e l’onore di conoscervi. Vi ringrazio quindi per aver pubblicato queste lettere che mi hanno dato modo di riscontrare come il mio sentimento nei vostri confronti non fosse errato. Con l’augurio di poter, un giorno spero non troppo lontano, assistere nuovamente alle vostre lezioni.
Diego Fusaro: Grazie a te, caro Guido! Sono anch’io felice e onorato di questo dialogo aperto e sincero, tra posizioni diverse ma che hanno voglia di discutere seriamente con passione argomentativa e spirito socratico! un caro saluto! Diego
Carlo Felici: Condivido l’impianto generale della nota ma non sono affatto d’accordo su questo passaggio: “Come l’odierno antifascismo in assenza integrale di fascismo, così l’antiberlusconismo ha svolto il ruolo di fondazione e di mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine neoliberale.” Sia perché il paragone tra Mussolini e Berlusconi è antistorico e fuorviante, sia perché il fascismo “storico” che si suicidò il 25 luglio del 1943, fu seguito (e per altro anche preceduto) da altre forme non meno subdole e dannose di fascismo, basti pensare ai precedenti “squadristi” e agli immediati successori “repubblichini”, fino alle forme odierne di manovalanza dichiaratamente neofascista asservite alle forze più demenziali del capitalismo. Paradossalmente il fascismo-stato-regime, è stata la forma meno deleteria tra quelle precedenti e successive, pertanto l’antifascismo non va relegato ad essa. Inoltre uno dei tratti con cui la sinistra capitalista si tiene in vita è non tanto l’antifascismo o l’antiberlusconismo, ma il suo spirito ” metereologico” il vedere cioè il capitale come un fenomeno della natura e interpretare, in tale orizzonte, il ruolo che un tempo fu quello del colonnello Bernacca, fare previsioni a breve termine per “limitare i danni” e stabilire un percorso possibile con eventuali “sacchetti di sabbia”, tale da sopravvivere agli tsunami economici, considerati come ineluttabili.
Roberta De Monticelli: Caro Diego, mentre riassumevo il dilemma che mi sembra finora risultare dalla nostra conversazione, e che volevo mettere sul alb rinviando a fb pèer le cose già detrte, è partito il mio intervento sul lab. A questo punto forse è meglio che tu risponda anche lì, e poi ripartiremo con la mia sintesi provvisoria….
Diego Fusaro: d’accordo, cara Roberta, molto volentieri!
Diego Fusaro: chi non ha letto l’intervento della Prof.ssa De Monticelli, lo trova direttamente nel PhenomenologyLab, il blog del centro di ricerca in Fenomenologia da lei fondato e diretto presso l’Università San Raffaele: https://www.phenomenologylab.eu/…/
Carlo Felici: L’indicazione del link con l’intervento della professoressa rende ancora più chiaro ed efficace l’intervento di replica di Diego. Francamente non credo che un “decano” debba usare un linguaggio come questo, riferendosi a Diego: “più giovane, bel virgulto di speranze” oppure attribuendogli “totalitarismo mentale o la prigionia interiore”. Il primo epiteto può essere forse scherzoso, ma il secondo mi risulta francamente offensivo. anche perché il totalitarismo mentale non prevede aperture al dialogo e il confronto continuo: ciò che Diego pratica da tempo con tutti, nelle piazze, in TV e nel web. E figuriamoci poi la prigionia interiore, che è la netta antitesi della sua “vocazione al coraggio”…quanto al resto, il capitalismo che accetta le regole ferree è un po’ come il lupo che va dal dentista a farsi molare i denti (con tutto il rispetto ovviamente per una specie a rischio estinzione in vari casi). Il capitalismo, come “sistema”, è ampiamente in crisi non solo perché non accetta regole, ma per di più perché contribuisce a distruggere quelle che già ci sono..ed è quindi hybris, rottura del mètron, come Diego ha bene illustrato nel suo Minima Mercatalia. La regola, il métron è innanzitutto la scoperta del limite, ma il sistema del capitalismo non è altro che misconoscimento del limite, in nome di una accumulazione di profitto che non ha fine, ed è per questo illimitata. Perché altrimenti si teorizzerebbe che lo stesso mercato, lasciato “fare” come vuole, di per sé, è destinato ad autoregolarsi? Evidentemente perché esso si autoregola secondo la sua unica regola originaria: il suo autopotenziamento, che comporta la riduzione dell’essere umano e della natura a merce per fini di profitto. E’ volontà di potenza allo stato puro, che però, in se stessa, porta alla sua autodistruzione e anche alla distruzione del suo fondamento come libero mercato, in quanto la conseguenza ultima del suo autopotenziarsi è, come rilevava Marx, la creazione di oligopoli e monopoli, e cioè la eliminazione della libera concorrenza. Per questo l’Europa ha bisogno di Marx, così come credo abbia bisogno anche di Nietzsche, ed, in definitiva, di essere costruita più sulla filosofia e sulla “sophia” che ne deriva, piuttosto che sul nòmos di una oikòs senza porte né finestre…più o meno come la casa di Paperon de’ Paperoni…
@ Cusinato: la ringrazio dell’intervento. Ben comprendo la sua argomentazione su berlusconismo-antiberlusconismo (che io estenderei a destra-sinistra), e posso anzi dire di condividerla in larga parte. E’ anche per questo che da tempo vado sostenendo l’estinzione ormai avvenuta della vecchia dicotomia destra-sinistra, la cui attualità è pari a quella tra guelfi e ghibellini. Contrapposti su punti secondari, i due schieramenti sono d’accordissimo su quelli decisivi e condividono la stessa visione del mondo (liberalizzazioni selvagge, privatizzazione delle esistenze, tagli alla spesa pubblica, ecc.). E’ lo stesso terreno a produrre Bersani e Berlusconi, Vendola e Schifani, Veltroni e Lupi, ecc.: il problema – quod erat demonstrandum – non è Berlusconi, ma il regno animale dello spirito che produce simili personaggi. Lottare contro Berlusconi per lasciare com’è il mondo che lo rende possibile è la colpa tragicomica di una sinistra antiberlusconiana e non anticapitalista, del tutto disinteressata alla questione sociale (che, per inciso, non credo sia scindibile dalla questione morale). Per questo, non sto né coi B, né con gli anti-B, né con la destra, né con la sinistra: resto fedele, nel mio piccolo, all’ideale dell’emancipazione universale disegnato da Marx e avente come condicio sine qua non il superamento dei rapporti classisti e dello sfruttamento alimentato dalla megamacchina del fanatismo economico. Ben venga la questione morale, a patto però che non si dimentichi che non può esserci moralità se il terreno sociale è distrutto dai rapporti di forza economici e dal loro produrre sempre nuove “tragedie nell’etico” (Hegel).
Sull’americanismo: io non sono affatto un “antiamericanista”. Ho anzi grandi stima della cultura e della letteratura americana, e riconosco la presenza di grandi spiriti liberi in quella terra (non solo Chomsky). Dire che sono antiamericanista perché mi oppongo all’imperialismo americano sarebbe come dire – mi si lasci passare il paragone – che era antitedesco chi si opponeva al nazismo. Si può benissimo essere contro il nazismo e amare la cultura tedesca, proprio come si può essere contro l’imperialismo americano e amare la cultura americana.
Se – come mi pare di capire -, tutti qui non abbiamo simpatie per dittature, violenze e coercizioni, e tutti siam pronti a condannarle (da Hitler a Stalin, ecc.), mi sembra una grave incoerenza legittimare la violenza del nostro tempo: che è quella di chi bombarda in nome dei diritti umani e di chi esercita la violenza economica in nome delle leggi del mercato e del teologumeno “ce lo chiede l’Europa”. E poi, domando: se, come mi pare di capire (cerco di valorizzare i punti di accordo tra noi), conveniamo sul fatto che ci vogliono regole e che la politica deve tornare a gestire le cose, come è possibile tenere insieme ciò con l’Europa, id est con la rinuncia alla sovranità in favore dei poteri finanziari e della potenza economica (a meno che non si dimostri – cosa non facile! – che l’Europa è attualmente altro rispetto a questo)? Perché non essere radicali nella critica e non dire apertamente che tutti i Paesi della “vecchia Europa” sono oggi a “sovranità controllata”, secondo il sintagma un tempo impiegato in riferimento ai satelliti dell’Unione Sovietica di Brežnev? Il rapporto di subordinazione di questi ultimi rispetto al Paese che aveva monopolizzato il materialismo storico è, del resto, lo stesso che lega gli sventurati Stati europei alla “monarchia universale” statunitense (come peraltro è provato dalla presenza delle basi americane sul territorio italiano ed europeo). Anch’io, come Roberta, sono un grande estimatore di Kant e sono del tutto a favore dell’avvento della “repubblica mondiale del diritto auspicata da Kant”: ma tale repubblica non può essere – citando ancora Kant – una “monarchia universale”. Così in “Per la pace perpetua”: “la separazione di molti stati vicini ed indipendenti fra loro è già di per sé uno stato di guerra (a meno che la loro unione in federazione non prevenga lo scoppio delle ostilità), ma esso val sempre meglio, secondo l’idea della ragione, che la fusione di tutti questi stati per l’opera di una potenza che si sovrapponga alle altre e si trasformi in monarchia universale”. Senza scomodare Carlo Marx, è sulla base del meno compromesso Kant che si può legittimare la resistenza alla folle tendenza a soggiogare il mondo intero alla monarchia universale.
Mi ha meravigliato che Roberta De Monticelli abbia interloquito con un ragazzo come Fusaro che mi sembra non abbia ancora capito bene come funziona il mondo. Parlare di Capitalismo come di una struttura monolitica ben definita, e non accorgersi che è semplicemente una delle forme di affermazione e di sopraffazione che sono state sempre perseguita da una piccola parte di uomini verso il resto dell’umanità, è semplicemente un pensiero adolescenziale. Il ragazzo non capisce che il Capitalismo nasce in seguito a conquiste tecnologiche, culturali e sociali alle quali si adegua per sfruttarle. Da quello MERCANTILE, con le conquiste dei grandi navigatori, a quello produttivo e INDUSTRIALE, nato con le macchine a vapore, per finire con quello FINANZIARIO consentito dalla globalizzazione dell’informazione. Ora, i “soliti noti”, consci che la formula del capitalismo volge al termine, si stanno preparando ad utilizzare le nuove tecnologie per i loro scopi di sempre, esattamente come fecero abbandonando l’assetto sociale fondato sul potere aristocratico-religioso, quando questo non poteva più reggere alla luce dell’avanzamento tecnologico e culturale che dette vita all’Illuminismo. Il rischio è grande ma, proprio per questo, la lotta dovrà essere orientata al controllo delle informazioni e dei Big Data, e non certamente nei termini marxisti e nazionalisti ottocenteschi che il ragazzo — già vecchio — propone…
L’altro giorno parlavo con un mio collega all’università sull’euro. Ad un certo punto mi ha interrotto perentorio dicendo: l’Europa sta facendo delle politiche economiche più fasciste dei fascisti, se continua così la prossima volta voto per chi, come il centrodestra, si oppone veramente all’Europa. Questo odio verso l’Europa e la credenza che l’uscita dall’euro possa risolvere i problemi dell’Italia mi ha sempre meravigliato: onestamente la considero una superstizione, ma so benissimo che è una mia opinione molto personale e di essere in netta minoranza.
L’altro grande nemico del mio collega era il Capitalismo. Ma quale capitalismo? Probabilmente si riferiva al capitalismo libidinale esaltato dal postmoderno Lyotard e impersonato dal broker Gordon Gekko nel film Wall Street (1987). Dal momento che Gordon Gekko oggi vive a Bruxelles, o si è travestito da Merkel, chi è contro la Merkel e l’Europa è contro il Capitalismo. Ergo alle prossime elezioni se voglio dimostrare la mia fede rivoluzionaria e anticapitalista devo votare per il centrodestra.
Non sono al San Raffaele, e in ogni caso il mio collega non era Diego Fusaro. La questione che pone è seria: come combattere il capitalismo e l’imperialismo? (ma sono i termini giusti?). Naturalmente non ho la soluzione in tasca. Ho solo qualche idea. Non possiamo combatterlo proponendo una società mafiosa, o uno stato assistenziale che paga pensioni d’oro a 900.000 pensionati (facendo vivere in miseria gran parte degli altri) o che utilizza buona parte delle risorse disponibili per finanziare i fasti della classe politica. Primo punto: andare contro il capitalismo non significa dissipare i soldi pubblici. Per superarlo occorre pensare a una società che funzioni anche da un punto di vista economico e industriale. Detto questo il problema è culturale. Per uscire fuori dalla bolla del “capitalismo” dobbiamo avere una cultura e un’etica che sappia dirci perché Gordon Gekko dovrebbe limitare la sua libidine speculativa e in nome di che cosa. Che sappia dirci perché dobbiamo consumare in modo diverso (meno e meglio?). La conclusione a cui sono arrivato è che questa cultura non può essere di certo la filosofia postmoderna italiana, quella che ha dominato gli ultimi decenni. E il motivo è semplice: questa è l’altra faccia di Gordon Gekko. Detto in termini terra terra: i partiti progressisti non hanno una cultura, la hanno sostituita con un vuoto tatticismo pragmatico, senza rendersi conto che in questo modo girano a vuoto. Onestamente non penso che Karl Marx (un filosofo che avevo comunque letto con passione nella mia adolescenza assieme a Gramsci ) possa essere la soluzione. Sicuramente però il suo concetto di alienazione va ripreso. Dobbiamo spostare lo sguardo verso la periferia, magari avere il coraggio di non considerare la Verità quello che è stato di moda nella filosofia italiana negli ultimi decenni. Senza una proposta culturale ed etica credibile Gekko risulterà sempre vincente. Lasciate perdere Tremonti: la cultura conta ragazzi, eccome! Non parliamo dell’etica: i problemi nascono proprio quando l’economia pensa di poter fare a meno dell’etica.
(Fra parentesi: avete visto Bersani come è preoccupato ora? Fateci caso, durante le elezioni era pacione e sorridente, in questi giorni è teso, forse anche dimagrito. Perché? Di perdere le elezioni politiche non gliene fregava nulla – glielo si leggeva in faccia ogni volta – ma di perdere il controllo dei delegati al prossimo congresso del PD, questo si che sarebbe un tragedia).
Non sono un filosofo, né per professione né per hobby. Forse, per questo molte tesi di questo confronto mi sconcertano. Articolo le mie riflessioni per punti.
1. Obsolescenza della dicotomia destra-sinistra. Oggi nelle chiese cattoliche di tutto il mondo si è letto il brano in cui Amos denuncia lo scandalo del povero che viene comprato al prezzo di un paio di sandali. La monolatria del denaro e del mercato è da sempre oscena. Ventotto secoli dopo viviamo ancora lo stesso scandalo, ingigantito, e quanto!. Norberto Bobbio, fra gli altri, lo disse con lucida concisione: lo scandalo della e l’indignazione per la disuguaglianza sono motivo di esistere della sinistra, che potrà poi essere chiamata con nomi diversi (che ne dite di chiamarla Puffa? 🙂 ), ma quello è.
2. Assad e Obama lo stesso sono, anzi no, meglio Assad, che almeno si oppone al capitalismo su scala planetaria; e poi laus temporis acti, quando almeno c’era l’impero sovietico, katechon del turbocapitalismo mondiale. Qui ci sono tre cose: a. la monolatria del mercato e la dottrina del turbocapitalismo sono assolutamente moniste, non vi è spazio per niente altro (questa è oggettivamente una tragedia storica); b. l’unico rapporto possibile fra capitalismo e “altro” dal capitalismo è una guerra di annientamento; c. gli Stati Uniti essendo il campione indiscusso del capitalismo, chiunque si opponga (oggi Assad, ieri sappiamo chi) è dalla nostra parte, di noi che rifiutiamo un mondo modellato dal Dio-Mercato.
In questa sequenza, vi è un passaggio fondamentale, che è quello – funzionale al capitalismo e imposto dallo stesso – che l’unico terreno di confronto sia guerra, e guerra di annientamento, o almeno di prostrazione, guerra che non necessariamente assume sembianze militari: i PIGS hanno subito e subiscono i danni di una guerra. Accettare questa visione significa perdere, de facto e de iure, anche qualora si “vincesse”, non foss’altro perché ci si allea (nel regno delle pure idee…) con regimi e individui impossibili da tollerare, e si accetta storicamente di far pagare un prezzo orrendamente alto ai popoli che di tali regimi sono sudditi e vittime: tutto per un “bene superiore”?
Anche ammettendo di “dover” scegliere – ma creare alternative concrete a questo “aut-aut” è esattamente la missione a cui dovrebbe dedicarsi il pensiero migliore…- c’è una differenza fondamentale che viene scotomizzata: il sistema politico statunitense, anche nelle sue peggiori espressioni, conosce e applica il principio dell’autocorrezione, i vari Iraq-Libia-Siria no. L’imperialismo americano domani potrebbe cambiare: George Bush jr non può durare più di otto anni; uno spazio per l’azione politica di uomini liberi e responsabili – per quanto misero, corrotto, inquinato – esiste. Negli altri casi, l’unico cambiamento è il rovesciamento (violento) del regime: altro non viene dato. Se sembra una differenza da poco…
3. In nome di che cosa dovrebbe essere limitata la libido del Mercato, dovrebbe essere messo un freno al suo motto che è riassumibile nella paroletta inglese “more “. Se c’è una Comunità nazionale in cui questa domanda dovrebbe suonare dissonante, è la nostra: l’art. 2 della nostra Costituzione, oltre ai diritti dell’uomo, pone a fondamento del nostro vivere insieme la solidarietà. Abbiamo dimenticato la nostra umanità e il nostro essere italiani. Questo è il nostro dramma di oggi.
4. L’avversario da affrontare non sono solo uomini; il Mercato è un sistema che ha una sua volontà e una sua potenza, entrambe trascendenti la pur immensa potenza degli uomini che si illudono di guidarlo. Verissimo, e proprio per questo la sfida al Mercato deve essere lanciata dalla Polis degli uomini. La politica, di destra e di sinistra, deve essere in grado di escogitare freni e protezioni a vantaggio delle persone, della loro vita, delle loro opportunità, del loro futuro, a sostegno della giustizia, a protezione della bellezza. Atto di fede laico: credo fermamente che il pensiero umano, anche qui e ora in Italia, possa e debba pensare le alternative, che la solidarietà possa e debba essere costruita prescindendo da assurdi (chiedo scusa) appoggi all’Assad di turno e rifiutando il campo di confronto scelto da questo capitalismo: la guerra. Credo che le prossime venture – ma, in parte, già in atto – forme di controllo e di dominio attraverso il monopolio di possesso e uso dei Big Data possano essere limitate, e ricondotte al servizio di noi uomini, se solo si abbia il coraggio di pensarne i modi.
5. Italia: basta con l’anti-berlusconianismo. Vero, se, di nuovo, il terreno di confronto debba essere guerra di annientamento, dittatura di maggioranza, corto-circuito fra i poteri dello Stato. Falso, se significa non avere il dovere morale di rifiutare e di destrutturare il corto-circuito realmente avvenuto, la confluenza, da vent’anni, di potere economico, potere mediatico, potere legislativo e (per la maggior parte di questi anni) anche potere esecutivo nelle mani della stessa persona e delle sue aziende, partito politico incluso. Inaccettabile, se significa non riconoscere e non impegnarsi a ricostruire, insieme, dalle fondamenta l’antropologia contemporanea del nostro popolo, degradata e bruttata in modi e misure che faticano a trovare parole adeguate di descrizione.
6. Papa Francesco ha promosso una iniziativa di tutt’altri tempi: una giornata di digiuno e preghiera, per tutti, non solo per i cattolici. Neanche il più prevenuto dei commentatori può negare che qualcosa si sia mosso anche nel concreto storico. E’ stato creato uno spazio altro da quello delimitato dall’Obama e dall’Assad di turno: lì si sono ritrovati gli uomini, credenti e non credenti, cristiani, musulmani, ebrei, buddisti, siriani e non siriani. Domanda di un credente: non pensate che sia questo il tipo di creatività di cui si ha bisogno, saper sfuggire all’aut-aut del Mercato e rilanciare la sfida su altro terreno, su un terreno veramente umano? Non pensate che al vostro pensiero, voi filosofi, dovreste chiedere di pensare la rinascita dello Spirito?
Gentile dottor Diego,non è più soltanto questione di Berlusconi contro tutti (o viceversa),su micromega,c’è un articolo di Domenico Gallo ( http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/09/20/domenico-gallo-le-verita-del-videomessaggio/ ) in cui assai sinteticamente si descrive che nell’ultimo videomessaggio di Berlusconi si evidenziano intenti autoritari più che mai preoccupanti come quello per esempio di eliminare la divisione dei poteri e tendere all’unità di potere (concezione tipica dei regimi totalitari).Personalmente,ritengo che il problema non sia soltanto il Berlusconi e la corte dei suoi sacerdoti,ma che il problema sia rappresentato anche da Napolitano,il quale,incredibilmente,secondo la sua ultima fuoriuscita,sembra quasi dare man forte alle invettive di Berlusconi.Sembra quasi che Napolitano,con la nomina di Amato a giudice della Corte Costituzionale,e con la sua ultima comunicazione,voglia quasi far credere di voler spegnere un incendio che non sarebbe stato scatenato tanto da Berlusconi ma bensì dalla magistratura.Se Berlusconi e la sua casta sacerdotale sono riusciti ad arrivare sino al punto di condizionare persino certe scelte di Napolitano,è naturale che bisogna essere più che mai contro Berlusconi.Insomma,quello che intendo dire,è che l’antiberlusconismo non ha solo un’aspetto strumentale (ossia,che la sinistra abbia cavalcato questo fenomeno per dissimulare i suoi difetti o le sue carenze) ma che trova appiglio in uno sfondo reale in cui si articolano motivazioni argomentazioni e preoccupazioni concrete,ricordando che in passato e ancor oggi magistrati e gran parte dei costituzionalisti hanno sempre ravvisato nel berlusconismo un rischio concreto e reale per la costituzione e la democrazia.
Qui bisogna sempre sperare che Berlusconi,come dice giustamente FLores D’Arcais,non venga di nuovo resuscitato dal Pd e da Napolitano,visto che a quanto pare,politicamente parlando,sembra che sia finito.
Concordo invece con lei sulle sue affermazioni in merito alle degenerazioni del neo-liberalismo che hanno condotto al predominio del paradigma neo-liberista in ambito non solo economico ma anche in ambito politico (famosa è l’affermazione di quelli della JP Morgan secondo cui l’Europa dovrebbe sbarazzarsi delle costituzioni nate sulla scorta dell’antifascismo).
Claudio
Credo che la professoressa De Monticelli, proponendo un capitalismo regolato dalla politica, non abbia chiara una cosa: l’attuale forma assunta dallo stesso capitalismo, ossia globale, senza regole, iperfinanziarizzato, in una parola: totalitario, è l’unica forma possibile perché il capitalismo continui a esistere, cioè a garantire profitti ai suoi agenti (la borghesia è morta e defunta). Il ritorno a una fase keinesiana significherebbe la fine del capitalismo. Perlomeno in buona parte del continente americano e in Europa occidentale.
Per il resto, sostegno totale ad Assad e disprezzo altrettanto totale nei confronti del ciarpame antiberlusconiano.
Desidero esprimere soltanto alcune considerazioni su antiberlusconismo con riferimento particolare a quanto già scritto da Fusaro nell’agosto scorso e qui in buona parte da lui riproposto.
Il termine antiberlusconismo mi riporta al concetto di antipolitica e a coloro che ne abusano.
Sono trascorsi poco più di cinque anni dalla pubblicazione sul periodico Controcorrente di un mio articolo dal titolo ANTIPOLITICA E PRIVATIZZAZIONE DELLA POLITICA, in cui scrivevo: – Se politica non è l’arte del buon governo di una polis – e, quindi, a favore degli appartenenti ad una comunità – ma è preoccuparsi soltanto dei … comodi propri, allora chi è contro la politica in tale ultimo senso intesa, sarebbe un antipolitico… Antipolitica, invece, altro non può essere che quel modo di servirsene anche e soprattutto per fini privati!
Accade perfino di leggere che risveglia il fascismo chi denuncia apertis verbis colui il quale, pro domo sua, della politica vuol profittarne: per cui sarebbe il primo il vero destinatario da tacciare quale “riesumatore” di tale ideologia…
Il paradosso sta nel fatto che quella democrazia – che Umberto Eco (il quale da sempre ci illumina d’immenso), giudica in pericolo allorquando “la maggioranza sostiene di aver sempre ragione e la minoranza non osa reagire” – ha consentito attraverso il voto popolare un esito che può compromettere la democrazia stessa! (Democrazia, di cui – come ci avverte Lucien Jaume – perfino Tocqueville, pur facendone lode, talvolta ne metteva in risalto gli aspetti più preoccupanti, quali “egoismo, mediocrità dei dirigenti, materialismo degli interessi particolari, tirannia delle maggioranze, Stato a un tempo assistenziale e oppressivo”: Giuseppe Bedeschi in Il Sole 24 Ore 11 maggio 2008).
Constatiamo che donne, ancor più combattive, quali Rossana Rossanda, Dacia Maraini, Ida Dominijanni (ma non solo) insorgono e fanno sentire la loro voce, alta, forte e chiara.
Ma perché si è giunti ad una siffatta situazione: colpa dei più? Colpa dei meno? Colpa di chi pur avendo governato non ha saputo o voluto marcare un solco risolutivo? (…) –
Quando qualcuno mi dice: ma tu sei contro Berlusconi, parli sempre contro di lui, gli rispondo: ma non sono io contro di lui, è lui che è contro di me, così come è contro tutti coloro che sono diversi da lui: è lui che evoca le parole: chi non è con me è contro di me! Se c’è un nato da donna che è anti… per antonomasia è proprio lui: Berlusconi.
Per il resto, cioè per il PD, già allora accennai preoccupazioni.
Elio Matteo Palumbo
Ecco la “prigionia della mente”. Analizzare sempre la situazione presente con gli occhi del passato: Kant ha detto, Socrate diceva, Quello ha scritto. E poi dilungarsi in fiumi di parole non fa altro che confondersi le idee, quando si è fondamentalmente d’accordo. Se hai la casa piena d’immondizia e ti sei accorto che è una situazione assai problematica, puoi cominciare a pulire casa o a morire di puzza, oppure a discutere su cosa diceva Socrate dell’immondizia di Atene.
Mentre ringrazio tutti i partecipanti al dibattito, e senza affatto intendere di chiuderlo, vorrei semplicemente replicare all’ultimo intervento: è vero che troppe parole rischiano di confondere le idee. Ma credo che il punto di divergenza fra Diego Fusaro e me sia chiarissimo. Provo a ridirlo in breve:
Diego ritiene che il male nel mondo, compresa la attuale situazione italiana, sia dovuta a ciò che egli chiama “capitalismo”, e alla logica non riformabile di questo.
Io ritengo a) che comunque si voglia definire il termine “capitalismo”, la presenza di economie di mercato in Cina, America e Svezia non toglie le immense differenze nella vita sociale, economica, politica e civile di questi tre paesi. Né toglie un’oncia della differenza fra la politica di Bush e quella di Obama.
b) Che per quanto riguarda la situazione italiana, invece, non solo il degrado politico, civile e morale, ma anche la deindustrializzazione in corso non sembrano affatto rispondere a una logica “capitalistica”, ma al contrario a logiche: consortili, mafiose, “politiche” nel senso più deteriore, e in ultima analisi – come l’Europa continua a farci rilevare per il caso inquinamento ex Italsider ora Ilva, o per le amministrazioni locali che divorano i loro territori – basate su un misto di parassitismo, mafiosità, malversazione, corruzione, conflitto di interessi e abitudine a truccare gli appalti e ad aggirare le leggi. Una “logica” che con la concorrenza, il capitalismo e financo il “neoliberismo” non ha assolutamente nulla da spartire.
Spero di non aver usato troppe parole.
Dibattito molto interessante quello scaturito tra De Monticelli e Fusaro che,visto in filigrana, è sempre il dibattito circa il ruolo dello Stato e quello dell’Economia, tema che lo stato delle cose degli ultimi anni di fatto sta rimettendo all’ordine del giorno ed è positivo che almeno la Cultura lo affronti, anche in termini crudi se è il caso,mentre quel circo dei pazzi che è la Politica italiana ” fa finta di nulla”.
Sono un militante della ormai morta nuova sinistra,sono un delegato sindacale della CGIL e, guarda il caso,lavoro al san raffaele, e anche io nel mio piccolo cerco di essere almeno un passabile allievo di Hegel e Marx.Venendo alle questioni; mi permetto di dire che in entrambi i contendenti è carente una considerazione storica delle questioni, quella che si chiama una analisi concreta della situazione concreta,avete un modo di confrontarvi in cui i fatti storici, i soli che possono fare da traccia, sembrano assenti, per esempio concordo con Fusaro circa la natura irremedibile del Capitalismo,ciò però non ha impedito di mettergli almeno qualche briglia con il Keynesismo ancorchè mutilato delle decisive misure sulla moneta che gli Stati Uniti impedirono,inoltre, a proposito di considerazioni storiche personalmente sono anche allievo del compianto Prof. Giovanni Arrighi che sulla scorta di Braudel ha scritto pagine di notevole portata conoscitiva circa le dinamiche storiche del Capitalismo, a mio avviso quindi per rispondere a ” cosa può il pensiero” va detto che il pensiero può tutto ma, per dirla col Moro, stiamo parlando del pensiero che pensa il Reale e questo tipo di pensiero non può che pensare la storia tenendosi ben lontano dal pensiero speculativo ” che approfondisce sè in sè stesso”.
A proposito di Assad; io non sto con lui,tanto più alla luce del fatto che la sua famiglia storicamente era filonazista,così come non stavo con Gheddafi,o Saddam, però non stavo con Saddam neanche quando era il cocco degli USA e faceva la guerra all’Iran per conto loro, deve ammettere Professoressa che è ormai un’arma spuntata quella di prendere il dittatorello di turno e solo per convenienze contingenti farne il diavolo incarnato,prendiamo l’Egitto dei mesi scorsi con chi si doveva stare? con Morsi “legittimamente” eletto e quindi con la democrazia proceduralista o con il colpo di stato dei militari?, è indubbio che visto da fuori è e rimane un dilemma, ma se poi informandosi più approfonditamente comincia ad emergere il fatto che forse in Egitto il vero obiettivo di forze esterne era lo smembramento del paese c’è forse ancora da chiedersi da che parte stare?, insomma vanno benissimo i dibattiti filosofici ci mancherebbe, però non si possono fare senza dati di realtà.
…Ma per fortuna c’è il Sig. Pelillo!,lui sì che ha capito il Capitalismo,lui che pensa che la Scienza della Natura si possa applicare sic et simpliciter agli uomini,d’altronde che ci vuole? prendi il microscopio togli i batteri ci metti gli uomini e….oplà il gioco è fatto!…e se i rapporti sociali in cui sono immersi gli uomini al microscopio non si vedono..beh…peggio per loro!
Vincenzo Galatiolo, mi sono riletto quanto ho scritto più su, ma non ho trovato nessun riferimento alla leggi della natura o a una qualche formula scientifica.
È sicuro di aver letto i miei due interventi?
Ho esitato a lungo prima di intervenire in questo dibattito aperto sul nostro blog da Roberta De Monticelli e proseguito con le repliche di Diego Fusaro e di tanti altri che ringrazio. La ragione, dopo averci riflettuto, è che la sua lettura m’ha suscitato, mi perdonino De Monticelli e Fusaro, una sensazione un poco sconfortante di déjà vu. Proverò a spiegare perché. (continua la lettura dell’articolo di Stefano Cardini Sul dibattito tra De Monticelli e Fusaro. Diamo a Marx quel che è di Marx. Ma riprendiamoci il resto)
Condivido parola per parola l’analisi di Stefano Cardini.
Cara Professoressa De Monticelli, la Filosofia ha per statuto ontologico e vocazionale il compito di interrogarsi, potenzialmente su tutto. Dunque produrre domande, prima che risposte. E tra le proprie domande, dovrebbe avere a cuore anche quella sui propri limiti. Non già per tacersi, ma per parlare con cognizione. Qualcuno ebbe a dire che se è vero che la scienza senza la filosofia è cieca, è anche vero che la filosofia senza la scienza è vuota. E allora perché su temi così rilevanti per le nostre vite – come la moneta unica e l’Unione Europea – non interrogare il diritto e l’economia? Forse non saranno scienze esatte, ma avranno pur qualcosa da dirci? Ad esempio sulle relazioni tra cambio fisso e svalutazione monetaria, tra area valutaria non ottimale, disoccupazione e deflazione salariale, sulle conseguenze della perdita di sovranità economica, monetaria e democratica di uno Stato, sul contenuto e le conseguenze del Trattato di Maastricht e del Trattato di Lisbona e soprattutto sulle condizioni della loro approvazione, sul contenuto e gli effetti del Fiscal Compact e del Meccanismo Europeo di Stabilità etc. Le nostre opinioni, per quanto informate a nobili principi, da sole non sono adeguato strumento di indagine per la comprensione di questi complessi problemi. Perché non cerchiamo di sottoporle a severi controlli critici? Per un contributo critico, segnalo un articolo tratto dal blog del Professor Bagnai. Di seguito il link: http://goofynomics.blogspot.it/2012/08/le-aporie-del-piu-europa.html
Ho trovato alquanto ridicolo (per non dire di peggio) e indegno di una laurea triennale in filosofia il riferimento a Hegel fatto dalla signora De Monticelli : il “Reale, che come si sa è Razionale” che continua la lettura manicomiale (Bodei) di un Hegel giustificazionista dei peggiori drammi della Storia, qui allineato sulle posizioni del partito stalinista italiano. Lei propone tale lettura ai suoi alunni? E poi, ancora con questa storia del riformismo per un capitalismo democratico e rispettoso delle regole. Signori, fatevene una ragione, il capitalismo è irriformabile, e se (esempio) la “luminosa Germania” prospera è solo grazie allo sfruttamento di numerose altre realtà, nel sud Europa come altrove.
Cari De Monticelli, Fusaro e Cardini
mi spiace aver scoperto in ritardo questa discussione molto interessante e che ho trovato estremamente feconda per ulteriori spunti di riflessione, anche se mi sembra che si sia purtroppo cristallizzata: spero di riuscire a ravvivarla.
Ciò detto, nei paragrafi seguenti tenterò di portare il mio contributo al “dialogo” interagendo con le tre “voci” (De Monticelli – Fusaro – Cardini) che hanno affrontato questioni che si intersecano con quelle che tematizzo nella mia ricerca filosofica e che spero di pubblicare in forma di saggio, entro breve tempo.
Ovviamente le questioni che si stanno affrontando qui sono di grande rilevanza e complessità e quindi mi limiterò a dare degli spunti, che tuttavia spero gli altri interlocutori troveranno fecondi ed interessanti.
Mi scuso se parto da una considerazione di carattere generale, ma che tuttavia ritengo imprescindibile per poter inquadrare il problema di fondo che emerge anche dal presente dibattito, oltreché da quasi tutti gli altri dibattiti a cui assistiamo molto spesso anche fra le voci più interessanti di estrazione accademica (non mi sto riferendo ai talk show ed alla chiacchiera mass-mediatica perché considero tale chiacchiera un puro “rumore di fondo” meramente funzionale a mantenere lo status quo).
Del resto la mia introduzione, seppure generale, mi pare più che mai adeguata in un blog intitolato alla fenomenologia.
Ora, dal mio punto di vista le tre voci che si sono qui intrecciate in contradditorio sono un esempio emblematico della situazione già magistralmente “fotografata” da Husserl nella sua “Krisis” allorché, evidenziando lo scenario di frammentazione della figura dello scienziato, e di conseguenza del sapere, denunciava, da un lato, la crisi di senso dei saperi scientifici che dal suo punto di vista corrispondeva ad una crisi dell’esistenza dell’uomo europeo e, dall’altro, attribuiva al Positivismo la responsabilità di aver ridotto la scienza a una mera scienza di fatti escludendo, in questo modo, dalle sue riflessioni un tema che è invece decisivo: quello del soggetto che indaga l’oggetto. Anzitutto in questo riferimento ad Husserl occorre rintracciare sia un richiamo al pensiero idealistico, ma soprattutto una metabolizzazione dell’eterodossia del Novecento che trovò, ad esempio in Werner Heisenberg uno dei suoi alfieri più rilevanti.
Di più, il riferimento a Husserl intende introdurre a un’idea di scienza che non è declinabile nelle tradizionali modalità tali per cui esisterebbero ambiti tra loro divisibili: le scienze cosiddette “umane” (lettere, filosofia, storia, sociologia, etc.), separate dalle le scienze cosiddette “dure” (fisica, matematica, chimica, biologia, informatica, etc.), le quali poi vengono specializzate in ulteriori “compartimenti stagni” come accade ad esempio per le declinazioni ingegneristiche (elettronica, civile, meccanica, informatica etc.). Tale sistema organizzato in ambiti separati e in specialismi tecnici è funzionale a logiche di potere da un lato e di riduzionismo deterministico e meccanicistico dall’altro.
Tale situazione conduce a ridurre notevolmente i gradi di libertà entro cui il ricercatore può seguire il proprio intuito in quanto egli deve comunque sottostare a logiche di tipo professionale, carrieristico, burocratico etc., che poco hanno a che fare con la ricerca del sapere e della verità, ed è quasi totalmente preclusa ogni possibilità di inter-fecondazione fra le discipline che si trovano tutte sospese nel “vuoto pneumatico”, dei propri compartimenti stagni.
La figura del pensatore, esistente in qualche misura fino a tutto il Settecento, che possiede la “visione di insieme” del sapere (pensiamo a figure come Talete, Democrito, Pitagora) scompare per lasciare spazio allo scienziato specialistico e come tale “frammentato” non più possessore di una visione di insieme, ma solo di una parte, sempre più polverizzata, del sapere.
Ora, se non si compie anzitutto un’ontologia della conoscenza, e dunque non si coglie la natura radicalmente riduzionistica-meccanicistica-deterministica che ha interamente informato di sé tutte le forme del sapere di quella fase storica che nel mio saggio chiamo “epoca prometeica” (identificandola nell’arco che va dalla modernità ai giorni nostri e riferendomi all’accezione etimologica del termine “prometeico” ovvero colui che “riflette prima”, che “è capace di pre-vedere”), non comprendiamo la ragione che più di ogni altra a mio avviso ha determinato la situazione che si è configurata anche nella presente discussione fra tre impostazioni di pensiero che, pur cercando di dialogare, di fatto, finiscono per non riuscirci perché la “colonizzazione prometeica” che ha agito sia a livello culturale che del nostro immaginario, non ha ancora permesso di metabolizzare nel profondo né la lezione husserliana, né quella della filosofia “aurorale”. Ciascuno degli interlocutori sta infatti parlando, ognuno all’interno di una prospettiva “chiusa” nel recinto del proprio riduzionismo.
Attenzione: non voglio essere frainteso. Questo non è un problema che riguarda in particolare i tre interlocutori della presente discussione, ma che riguarda nel suo complesso la forma mentis di tutto l’occidente e quindi l’intero orizzonte del pensiero occidentale, così come è andato declinandosi nel processo di specializzazione del sapere che già Husserl denunciava.
Se è vero, come io credo, che la declinazione riduzionista del pensiero dell’epoca prometeica è un fenomeno che non riguarda affatto la prospettiva dei “proto” filosofi (si noti l’uso delle virgolette) la quale, proprio in virtù di ciò, non è affatto suscettibile di essere interpretata, come ha fatto invece la storiografia filosofica ortodossa (a paritre da Aristotele), separando nettamente tra “fisici” (i cosiddetti presocratici) e “filosofi” (da Socrate in avanti), in quanto tale distinzione in realtà costituisce una “infelice” sistematizzazione di una fase germinale del pensiero greco che deve essere invece pensato e ri-pensato.
In questa direzione si è mosso in particolare Costanzo Preve che ha svolto un ripensamento profondo di tale fase del pensiero la quale pone l’accento non tanto sulla tematizzazione della physis (la natura), quanto su quella della polis (la comunità). La rielaborazione previana è a mio avviso imprescindibile se si vuole comprendere il reale valore filosofico della fase germinale del pensiero occidentale, ma non metterei in secondo piano come fa Preve la tematizzazione della natura, anzi le due “anime” che Preve distingue nettamente a mio avviso dovrebbero essere ripensate come un tutt’uno inscindibile, ovvero come il recto ed il verso del medesimo foglio.
Liberarsi della dicotomia fra physis e comunità è a mio avviso infatti un passaggio necessario (seppure non sufficiente) che conduce nella direzione più feconda per la decolonizzazione del nostro pensiero dalla metafisica moderna e post-moderna che non a caso si sono trovate perfettamente a loro agio nell’epoca prometeica.
Tuttavia il percorso che conduce oltre la situazione scarsamente feconda del “dialogo tra sordi”, per giungere al vero dialogare socratico, a cui la De Monticelli si riferisce, necessita di altri passaggi imprescindibili. Occorre a mio avviso anzitutto liberarsi delle “catene” del pensiero riduzionistico e recuperare quello sguardo filosofico autenticamente non-riduzionistico che tuttavia non può limitarsi a guardare con nostalgia al filosofare germinale, ma deve riattualizzarlo compiendo un superamento-conservazione (in senso hegeliano) dei limiti del pensiero riduzionistico, sapendo al contempo raccogliere la preziosissima eredità dell’eterodossia novecentesca, rimasta troppo a lungo sullo sfondo.
Porsi sulla via di tale aufhebung è in estrema sintesi il tentativo del mio progetto filosofico, che è sicuramente ambizioso, ma che tenta di imboccare quella via che personalmente ritengo l’unica possibile per dischiudere quello scenario “della possibilità” e della trasformazione di cui oggi abbiamo estrema necessità e che non afferisce la dimensione meramente filosofica, in quanto la “posta in gioco” è assai più alta, come proverò ad argomentare nelle poche righe seguenti, rinviando per ulteriori spunti al mio saggio ed eventualmente alle domande se ve ne saranno.
Per venire al merito della presente discussione, il “grumo” di questioni che essa solleva può essere considerato come un nodo gordiano per sciogliere il quale occorre compiere un “movimento” che si articola in due momenti necessari e successivi: il primo riguarda la comprensione delle dinamiche ontologiche del tempo presente ed il secondo riguarda la proposta di una prassi trasformatrice delle stesse, fondata su una serie di “strategie” concrete, argomentate, credibili e sostenibili, al fine di dischiudere quelle possibilità di cambiamento emancipativo che la nostra epoca di transizione richiede.
Ora, per quanto attiene al primo movimento, si tratta di elaborare un’ontologia delle dinamiche che hanno determinato costitutivamente l’attuale stato di cose: ciò significa elaborare tre ontolgie: ovvero quelle riguardanti la politica, la tecnica e il capitalismo.
Non vi è dubbio credo sul fatto che la tecnica ed il capitalismo, entrambi oggetto di dinamiche di eterogenesi dei fini e di naturalizzazione, ed al contempo soggetti imprescindibili della metafisica moderna e post-moderna, abbiano rappresentato le forze motrici che, come una inscindibile diade, ha determinato in modo decisivo la fisionomia assunta dall’intera epoca prometeica e, come tali, esse sono state oggetto di analisi di varia natura da parte del pensiero filosofico, che si è concentrato ampiamente nell’elaborazione di ontologie sia della tecnica, sia del capitalismo.
Anzitutto, occorre notare che tecnica e capitalismo di per sé non sono strumenti sufficienti a realizzare il percorso di emancipazione dell’umanità, poiché occorre aggiungere almeno un terzo strumento che peraltro dovrebbe essere il vertice decisivo di questo ideale “triangolo simbiotico”: ovvero, la politica.
Il fatto stesso che il pensiero filosofico consolidatosi nell’arco della fase prometeica abbia trovato, in un crescendo continuo, come propri temi attrattori la tecnica ed il mercato emarginando gradualmente dal proprio centro di interesse speculativo la politica è già di per sé un elemento chiave e riflettente dell’attuale stato di salute sia della politica, sia del pensiero filosofico.
Di più: le scienze “dure”, che sono divenute egemoni tanto da imporre le proprie metodologie anche alle scienze umane e “sociali”, si sono indebitamente appropriate del dominio di elaborazione contettuale che era proprio della filosofia. Laddove, ad esempio, la disciplina economica, che dovrebbe essere una forma di elaborazione concettuale e conseguenzialmente di tecniche operative entro un ambito ridotto ad una ben definita classe di fenomeni, esorbita da tale ambito occupandosi di aspetti che non riguardano le problematiche di sua competenza ecco che sta appropriandosi indebitamente di aree che dovrebbero più adeguatamente essere oggetto di indagine della filosofia.
Ne segue la necessità evidente per la filosofia di riappropriarsi di tutte le aree che le sono state sottratte per orientarsi anche alla rielaborazione di un’ontologia della politica che sia radicalmente ripensata nell’ambito dell’ideale triangolo simbiotico politica-tecnica-economia di cui si è appena accennato. Affinché ciò sia possibile occorre che la filosofia si riappropri pienamente del proprio originario ruolo di dominio elettivo per l’elaborazione ontologica ed assiologica, che nel corso dell’epoca prometeica ha progressivamente perso e conseguentemente essa è stata derubricata ad inutile chiacchiera da salotto colto e svuotata da qualunque funzione veritativa.
In ciò consiste l’imprescindibile passaggio che occorre per oltrepassare le varie declinazioni relativistiche e riuscire a dotarsi di un’ontologia della verità, che è condizione necessaria, seppure non sufficiente, a restituire alla filosofia la propria funzione veritativa e di conseguenza riassegnarle il ruolo che le compete per l’interpretazione del mondo e per le conseguenti possibili azioni di cambiamento dello stesso.
Il pensiero occidentale consolidatosi nell’arco della fase prometeica, per contro, non ha sviluppato alcuna ontologia della verità, ma si è piuttosto prodotto ed avviluppato su un’ontologia della certezza ed ha sviluppato sostanzialmente ontologie della tecnica e del capitalismo entro due alvei: uno dal timbro radicalmente ottimista ed entusiasta e l’altro dal timbro radicalmente pessimista e nichilista.
Ora, le “visioni del mondo” scaturenti da entrambi tali alvei non contribuiscono concretamente a dischiudere alcuno scenario di oltrepassamento né delle strutture, né delle logiche di potere attualmente in essere.
Sulla scorta infatti di un alveo di pensiero caratterizzato da un timbro di fondo radicalmente ottimista, la situazione in essere corrisponde al “migliore dei mondi possibili”, laddove sulla scorta di un pensiero caratterizzato da un timbro di fondo radicalmente nichilista, non vi è alcuna possibilità di fuoriuscita dalla situazione in essere in quanto tale pensiero può essere ben compendiato nella frase di Heidegger «ormai solo un dio ci può salvare».
In particolare , è possibile raggruppare le correnti filosofiche dal timbro ottimista differenziandole rispetto a ciò che ciascuna di esse ritiene essere la dinamica posta a fondamento ontologico dell’epoca prometeica nel suo complesso, come segue:
– il pensiero di matrice modernista e positivista, che sviluppa un’ontologia ottimistica della tecnica, e che trova i suoi principali esponenti in Cartesio, Galilei, Bacone, Leibnitz, Laplace,
– il pensiero di matrice utilitarista smithiana, humiana, lockiana, che, attorno agli anni in cui ebbe inizio la “Grande Depressione” subì una rivoluzione (nel senso di Kuhn), dando origine alla cosiddetta economia neoclassica o marginalista (a tutt’oggi dominante), di cui i principali esponenti furono Walras, Marshall, Edgeworth, Pareto, sino ad arrivare a von Hayek, ovvero il pensatore che maggiormente influenzò le politiche di stampo neo-liberista poste in essere sia da Margaret Thatcher sia da Ronald Reagan. Si tratta di un percorso di evoluzione del pensiero economico fondato su un’ontologia radicalmente ottimistica del mercato, e che può essere compendiato, in estrema sintesi, nelle sue due tesi fondazionali: la prima, cosiddetta della “mano invisibile”, di matrice smithiana, tale per cui gli agenti operanti nel sistema di libero mercato (siano essi individui o entità meta-individuali), pur perseguendo i propri interessi particolari, determinerebbero la realizzazione indiretta dell’interesse generale, in virtù della funzione, concretizzata nel sistema di mercato, di composizione e di mediazione indiretta (da cui la sua invisibilità). La seconda cosiddetta dell'”ordine spontaneo”, elaborata da von Hayek, in base alla quale esiste un “kosmos”, ovvero, un complesso di fenomeni fisici, sociali, economici che, pur non essendo stato in alcun modo progettato si auto-organizza, e si realizza concretamente in forma di ordine strutturato, e produce effetti involontari, prodotti da azioni spesso involontarie, e tuttavia descrivibili e razionali. Secondo von Hayek, tale ordine spontaneo non soltanto presenta un suo status ontologico, ma addirittura si manifesta con risultati nettamente migliori rispetto agli ordini deliberatamente costruiti e guidati da azioni poste in essere ad esempio mediante procedure di tipo politico o giuridico. In particolare il sistema di mercato, determinando la “spontanea” valorizzazione dei prezzi, rappresenta la concretizzazione, nell’ambito del dominio economico, dell’ordine spontaneo.
A tali correnti del pensiero, dal timbro radicalmente ottimista, fanno simmetricamente eco le correnti filosofiche dal timbro nichilista, e che si differenziano rispetto a ciò che ciascuna di esse ritiene essere la dinamica posta a fondamento ontologico dell’epoca prometeica nel suo complesso, ovvero:
– il pensiero di matrice heideggeriana, che sviluppa un’ontologia nichilistica della tecnica, e che trova i suoi principali esponenti in Gunther Anders, Emanuele Severino ed Umberto Galimberti;
– il pensiero di matrice marxiana, che sviluppa invece un’ontologia nichilistica del capitalismo e del mercato.
In particolare, occorre distinguere nettamente fra pensiero neo-marxista e neo-comunitarismo in quanto quest’ultimo orientamento non si richiama al pensiero di Marx secondo i “canoni” dell’ortodossia marxista, ma ne compie un riorientamento gestaltico con esiti estremamente fecondi: tale pensiero trova in Italia esponenti rilevanti fra cui Costanzo Preve ed il suo allievo Diego Fusaro.
Nonostante si debba operare tale netta distinzione, tuttavia, anche il pensiero di Preve e di Fusaro si fonda su un’ontologia nichilistica sia del capitalismo sia del mercato, da cui intendo prendere le distanze, in quanto ne rilevo il rischio di “scivolamento” verso una critica che, in ultima analisi, finisce per “diluire” quello spirito autenticamente critico che anima i percorsi di ricerca intrapresi da filosofi come Preve e Fusaro (e, seppure da prospettive completamente diverse anche da Severino e Galimberti).
Leggendo in particolare “Minima Mercatalia” di Fusaro, si perviene ad una critica che finisce per delegittimare l’economia politica tout court, non entrando nel merito del ricchissimo pensiero eterodosso dell’economia politica.
Credo che l’approccio di Fusaro, salvo errori di interpretazione del suo pensiero, dei quali mi scuso in anticipo e su cui lo invito a correggermi se lo riterrà opportuno, sia compendiabile nella tesi tale per cui non vi sia alcuna necessità di scendere nel dettaglio di una qualsivoglia teoria o sotto-teoria dell’economia politica in quanto essa può essere facilmente delegittimata mostrando l’infondatezza delle sue postulazioni metafisiche.
In particolare, Fusaro intende mostrare l’infondatezza della metafisica lockiana-smithiana-hobbesiana del soggetto da un lato e della metafisica dell’illimitatezza dall’altro.
Dal mio punto di vista sono in completa sintonia con la sua critica a tali due metafisiche, ed anche io nel mio saggio tematizzo tali questioni, pur sollevando alcuni rilievi al pensiero di Fusaro e di Preve, sui quali non mi soffermo qui per non allungare troppo il mio intervento, l’intento del quale è di mostrare come sia possibile un’interfecondazione fra le tre voci, se esse vengono ricollocate entro una prospettiva non-riduzionistica.
Il primo passo in questa direzione costituisce nell’integrare le argomentazioni filosofiche di Fusaro, mediante un linguaggio che può essere terreno di confronto più fecondo con chi ha maggiore familiarità con il “linguaggio” economico come mi pare sia ad esempio Cardini che, salvo errori di interpretazione del suo pensiero, dei quali mi scuso in anticipo e su cui lo invito a correggermi se lo riterrà opportuno, credo pensi che il “linguaggio” filosofico a cui Fusaro fa ricorso, sia eccessivamente generico e non adeguatamente circostanziato e dunque che in ultima istanza soffra di un timbro dal fondo “ideologico”.
Provo a dissipare tale dubbio che può sorgere se si è inseriti nelle “gabbie” della forma mentis riduzionistica di cui ho anticipato inizialmente. Il fatto che Fusaro, ad esempio, non distingua tra indagine macro-economica e micro-economica, ma consideri l’economia politica come un unico pensiero monolitico, schiacciato sulla figura di Adam Smith, costituisce un elemento che certo non agevola il confronto dialettico in quanto appare come un’eccessiva “riduzione mutilante” che non tiene conto della ricchezza dialettica esistente nelle varie anime del pensiero economico. In particolare il pensiero economico eterodosso di matrice marxiana, non viene considerato da Fusaro in quanto il richiamo a Marx si risolve solo nella sua pars destruens, oltre a ciò, non viene considerato minimamente il fecondissimo riorientamento gestaltico del pensiero di Smith compiuto, ad esempio, da Amartya Sen, oppure la miriade di orientamenti eterodossi del pensiero economico, tra cui la scuola cosiddetta dell'”economia della felicità”, o la bioeconomia di Georgescu-Roegen.
Tale florilegio di contributi non può essere semplicemente ignorato, tanto più se l’atto di rimozione viene compiuto da coloro che, come Preve e Fusaro, intendono, peraltro a ragione, rivendicare alla filosofia il proprio ruolo veritativo. Se si vuole, infatti, essere fedeli sino in fondo al principio socratico del filosofare che si concretizza nel dialogo e non nel monologo, occorre necessariamente dialogare con le altre forme del pensiero. In particolare occorre dialogare con le scienze cosiddette “dure” e con l’economia, poiché sono i domini del pensiero con i quali è possibile entrare nel merito della tematizzazione razionale delle questioni rilevanti per poter delineare una pars construens necessaria a rendere concreta quella prassi trasformatrice che costituisce il nocciolo di ogni filosofia idealistica di matrice fichtiana ed hegeliana a cui Preve e Fusaro esplicitamente si richiamano.
Per chiarire meglio ciò che intendo dire, fornisco nel seguito un esempio a mio avviso paradigmatico di critica radicale all’economia politica che riesca però a “dialogare” con il linguaggio degli economisti, e che consiste nello sferrare un “attacco” al cuore del filone teorico il quale si è affermato nel pensiero economico, a partire dagli anni settanta ed in seguito è divenuto predominante negli ambienti accademici, fino a costituire l’architrave su cui sono state edificate tutte le politiche economiche orientate alla deregulation dei mercati e quindi allo smantellamento dei sistemi di controllo necessari per tenere i mercati entro limiti ben definiti.
Si tratta del filone teorico fondato sull’ipotesi cosiddetta delle “aspettative razionali”, in base alla quale l’economia nel suo complesso, essendo costituita da agenti (entità individuali e meta-individuali) caratterizzati da comportamenti razionali, tesi a massimizzare i propri profitti e le proprie utilità, si comportano in modo consapevole ed efficiente: tale “comportamento” determina modalità di evoluzione dell’economia di natura deterministica e quindi prevedibile.
Richiamo l’attenzione sull’imprescindibile centralità della parola “prevedibile” in questo contesto, poiché se non si rileva la profonda natura “prometeica” a fondamento dell’intera postulazione metafisica dell’economia delle “aspettative razionali”, come di tutto il pensiero soprattutto micro-economico e in parte anche macro-economico post-smithiano, non si comprende nulla della declinazione del pensiero che ci ha portato a dove siamo oggi.
Di fatto, con l’affermarsi delle aspettative razionali, l’economia politica ha raggiunto l’apice di quel riduzionismo meccanicistico-determinista tipico del dogmatismo scientista che ha caratterizzato il progetto positivista orientato ad applicare le metodologie proprie della fisica newtoniana alle scienze umane.
Sebbene tale progetto potesse avere un qualche senso nell’epoca del positivismo, che poi fu la stessa in cui Marx pose a critica serrata l’economia politica classica, con il senno di poi (la nottola di Minerva si alza soltanto al crepuscolo), negli anni settanta i tempi erano più che maturi, dal punto di vista teorico, per rifiutare in modo categorico quel tipo di progetto in quanto erano già emersi tutti gli elementi necessari e sufficienti a comprendere quanto esso fosse “delirante”, nel suo intento di organizzare la società umana come isomorfismo del mondo fisico, laddove era già stato assodato, in virtù soprattutto alle acquisizioni della meccanica quantistica degli anni trenta (con l’inaugurazione di un pensiero rivoluzionario, fondato su una metafisica basata sul determinismo probabilistico di Heisenberg), che neppure il mondo della fisica, seppure assai meno complesso di quello della realtà economico-sociale, è perfettamente prevedibile.
Se dunque la politica non avesse dato seguito al delirio delle aspettative razionali, le devastazioni derivanti dalle ipertrofie della finanza globalizzata non si sarebbero verificate. Ciò è un ulteriore esempio del fatto che il problema non è né il mercato, né il capitalismo, ma l’esistenza di classi dirigenti che o per malafede o per incapacità manifesta non hanno svolto il proprio ruolo istituzionale.
La crisi dei subprime del 2006 non è stato affatto un evento imprevedibile, ma era invece lo scenario più prevedibile in presenza di un’economia basata sui modelli teorici delle aspettative razionali (i cui nomi di riferimento sono Scholes e Merton). A riprova di ciò, basta pensare che il drammatico crack della finanziaria Long Term Capital Management verificatosi nel 1998, sarebbe stato più che sufficiente a dimostrare l’assoluta infondatezza della teoria delle aspettative razionali, in quanto gli agenti economici non si comportano né come dei calcolatori, né come entità astrattamente razionali, ma siano esse individui o entità meta-individuali, non avendo alcuna conoscenza perfetta, non sono in grado di comportarsi come massimizzatori di profitto e di utilità, nemmeno se lo volessero, anche ammesso che ciò possa avere una valenza concretamente realistica.
Già all’indomani di tale crack si sarebbe dovuto prendere atto del fallimento clamoroso dei modelli teorici della teoria delle aspettative razionali, sulla base dei quali il mondo economico nel suo complesso sarebbe stato deterministicamente prevedibile.
Il caso del fallimento dei modelli teorici delle aspettative razionali è paradigmatico.
Anzitutto, alla luce di tale esempio, anche l’economista più ortodosso può comprendere agevolmente l’imprescindibilità della lezione di Fichte e di Hegel secondo la quale le idee plasmano il mondo in quanto esso non è mai un insieme di enti ontologicamente dati come oggetti e che il soggetto può solo limitarsi a rispecchiare. Per mostrare ciò, basta pensare che i modelli teorici (nel nostro esempio, delle aspettative razionali), una volta transitati dal puro stato di consistenza logica, sono divenuti patrimonio condiviso nell’immaginario degli operatori individuali e meta-individuali, e si sono “insediati” nel contesto economico, di fatto, acquistando piena consistenza ontologica. Nel caso dell’affermazione delle prescrizioni derivanti dalla teoria delle aspettative razionali è bastato che gli operatori istituzioniali cominciassero ad operare comportandosi in base a certi modelli teorici e che il sistema politico e giuridico creasse le regole e le condizioni per incentivare certi comportamenti da parte degli operatori, affiché si determinassero tutte le condizioni necessarie e sufficienti perché le economie capitalistiche fossero travolte dagli effetti delle cosiddette bolle speculative.
Sulla base delle prescrizioni derivanti dall’utilizzo dei modelli matematici elaborati nel quadro teorico delle aspettative razioniali infatti, gli operatori istituzionali (grandi banche, stati, fondi speculativi etc.), posero in essere operazioni finanziarie che generarono le enormi “bolle speculative” e i crack finanziari che furono le principali determinanti delle crisi economiche almeno a partire dalla fine degli anni 90.
Ne segue che sono sufficienti banali considerazioni razionali in termini di rapporto costi/benefici per screditare in modo radicale tali teorie, ma dato che tale presa di coscienza da parte delle classi dirigenti non è avvenuta come sperimentiamo quotidianamente sulla nostra pelle, e dato che la finanza ha continuato ad incrementare le proprie dimensioni ipertrofiche, occorre rilevare (in sintonia del resto con quanto sosteneva De Monticelli, salvo errori di interpretazione del suo pensiero, dei quali mi scuso in anticipo e su cui la invito a correggermi se lo riterrà opportuno), che i problemi dell’attuale fase del capitalismo non siano da imputare a caratteristiche ontologiche del mercato o del capitalismo, ma piuttosto a errori di strategie politiche e giuridiche.
Seguendo tale argomentazione mi pare si possa affermare che, proprio accogliendo la lezione di Fichte e di Hegel, la realtà si plasma nelle idee e contestualmente nei comportamenti individuali e meta-individuali e le entità astratte come il capitalismo o il mercato di per sé non hanno alcuna consistenza ontologica, se le si separano dalle circostanze e dalle contingenze che le hanno “plasmate” in un dato modo specifico piuttosto che in altri.
Alla luce di tali considerazioni, credo di aver mostrato, seppure in modo incompleto e sintetico, come, assumendo una nuova prospettiva inter-disciplinare e non-riduzionistica, sia possibile rintracciare un’area di intersezione fra tre voci che sembravano prive di una sintesi feconda.
Con ciò si è definita, seppure solo nei suoi contorni, un’ontologia del capitalismo a declinazione non-riduzionista, che rappresenta il punto di partenza per argomentare poi una pars construens, ma questo richiederebbe una trattazione ben più ampia per la quale rinvio al mio saggio per chi fosse interessato. Tuttavia, per adesso spero di aver dato un contributo utile a ravvivare la discussione.
Ermanno Vergani
La discussione purtroppo si è interrotta. Chi fosse interessato a proseguirla può trovare alcuni spunti, proposte ed aperture ai seguenti links
Il canale YouTube di Ermanno Vergani
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Il Blog di Ermanno Vergani
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