Claudio Baglietto e la questione morale

giovedì, 2 Giugno, 2011
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Scopo di questo testo, di natura essenzialmente compilativa, è raccontare la storia dell’antifascista Claudio Baglietto (1908-1940) e offrire a un pubblico di non specialisti una selezione significativa dei suoi scritti, in cui mi sono imbattuto per puro caso e che ho poi esplorato con entusiasmo dilettantesco, estorcendo al professor Adriano Fabris preziose indicazioni bibliografiche. A mio parere, la figura e il pensiero di Baglietto meritano senza dubbio di essere divulgati, sottraendoli alle cure premurose ma potenzialmente soffocanti di una ristretta cerchia di eruditi, a motivo della loro straordinaria attualità e freschezza, come il lettore curioso potrà giudicare da sé.

Per tratteggiare un essenziale profilo biografico lascio subito la parola ad Aldo Capitini e alle pagine 20-34 del suo mirabile affresco Antifascismo tra i giovani (Trapani, 1966):

Baglietto era nato a Varazze nel 1908, figlio di persone del popolo: era una mente limpida e forte, un carattere disciplinato, uno studioso di prima qualità, una coscienza sobria, pronta ad impegnarsi, con una forza razionale rara, con un’evidentissima sanità spirituale. Cominciai a scambiare con lui idee di riforma religiosa, egli era già staccato dal cattolicesimo, né era fascista. Su due punti convenivamo facilmente perché ci eravamo diretti ad essi già in un lavoro personale da anni: un teismo razionale di tipo spiccatamente etico e kantiano; il metodo gandhiano della noncollaborazione col male. Si aggiungeva, strettamente conseguente, la posizione di antifascismo, che Baglietto venne concretando meglio. Non tenemmo per noi queste idee, le scrivemmo facendo circolare i dattiloscritti, cominciando quell’uso di diffondere pagine dattilografate con idee di etica di politica, che continuò per tutto il periodo clandestino, spesso unendo elenchi di libri da leggere, che fossero accessibili e implicitamente antifascisti. Invitammo gli amici più vicini a conversazioni periodiche in una camera della stessa Normale dove io abitavo come segretario e Baglietto era perfezionando e poi assistente di filosofìa di Armando Carlini. (…) Armando Carlini diceva al Gentile, nelle visite che questi faceva alla Normale, un gran bene del valore filosofico di Baglietto, e Gentile procurò al mio amico una borsa di studio per recarsi a Friburgo di Germania dove insegnava Heidegger. Cosi nel 1932 accompagnammo Baglietto alla stazione, e restammo in corrispondenza. All’Estero egli continuò le riflessioni sulla nonviolenza, giunse alla persuasione dell’obbiezione di coscienza nei riguardi del servizio militare, e scrisse che non sarebbe più tornato in Italia, e si trasferì a Basilea come esule, per non usufruire più della borsa. Gentile ne fu indignatissimo, non tanto per l’opinione mostrata dal Baglietto, quanto per la seccatura che aveva dall’aver garantito per lui presso le autorità militari che avevano dovuto concedere il nulla osta per il passaporto. Ricordo che il Gentile, sapendomi scrupoloso moralista, voleva convincermi che quello era un atto scorretto, ma non ebbe da me alcun consenso. Il Gentile non sentiva il valore del farsi «esule», e di perdere tante cose. (…) Baglietto dalla Germania era passato in Svizzera a Basilea, e li viveva studiando e dando lezioni. Si occupò della «Giovane Europa» e di teorie economiche, fu visitato da Bruno Buozzi. Era molto stimato, un esule italiano così preciso, colto, rigoroso. Morì nel 1940 (…) Egli è sepolto nel cimitero di Basilea.

Al fine di mettere in risalto la penetrante profondità del pensiero politico di Claudio Baglietto, mi pare opportuno ricordare anche questa eloquente dichiarazione del suo fascistissimo maestro Armando Carlini, che alle pagine 95-96 del suo saggio retrospettivo Alla ricerca di me stesso (Firenze 1951) ancora pontifica con superficiale leggerezza:

Non dovrebb’essere necessario, ma è bene dichiararlo: io sono stato fascista come tanti e tanti, persuaso che esserlo fosse semplicemente un dovere per ogni buon italiano (chi non lo era, se era uomo degno di stima, era vittima di un malinteso, secondo noi). Non posso, quindi, pentirmene, così come non posso pentirmi di essere stato mazziniano. Quando, fatto più maturo, mi accorsi che nel partito repubblicano, a cui ero iscritto, si faceva troppa retorica, pian piano me ne ritrassi (…) Oggi mi trovo in posizione simile riguardo al fascismo: per me, oggi, è stato anch’esso una retorica, l’ultimo sogno risorgimentale di un’Italia che si illudeva di potersi porre, con le sue sole forze, alla pari delle grandi potenze che reggono il corso della storia mondiale. Eppure parevano così giuste le aspirazioni a tale mèta! Storia passata in ogni modo.

Sullo sfondo di questo atteggiamento miope ed ottuso si staglia il pensiero lucido ed acutissimo di Claudio Baglietto, come emerge da una selezione di alcuni passaggi significativi di un suo scritto risalente al 1931, ma pubblicato postumo nel 1950 a cura di Aldo Capitini. Si tratta de Il cammino della filosofia tedesca dell’Ottocento, “Annali della Scuola Normale di Pisa” XIX, 1950, pp. 113-142:

(…) il Kant, nonostante quel tantino di pedanteria senile e quegli schematismi scolastici che saltano all’occhio, ha un rispetto insuperabile per l’esperienza nella sua forma genuina, e segue con una meravigliosa larghezza di comprensione tutti i problemi, anche quelli che sembrerebbero più lontani dalla sua mentalità, e sono realmente i più estranei alla sfera dei suoi interessi spirituali più immediati. Meravigliosa è appunto l’intensità di vita propria che egli riesce a mantenere alle più varie esperienze spirituali, pur traducendole tutte nelle formulazioni più strettamente razionali, nella medesima lingua dell’intelletto. Perché uno degli elementi essenziali della grandezza del suo pensiero e della forza sicura e conscia di sé che in esso si esprime è quella rigorosa serietà di lavoro scientifico che era stato il portato migliore dell’Illuminismo tedesco, quel bisogno di chiarezza mentale e di precisione razionale a cui i pensatori più vivi dell’età moderna sono stati educati anche, in gran parte, dalle scienze matematiche, e soprattutto quel senso acuto della realtà dell’esperienza e quell’abito di onestà e integrità intellettuale che si è formato sulle scienze naturali e in generale sulla ricerca positiva. (…) Egli sente sempre vivissimo il bisogno di rendersi conto di tutto ciò che dice, di darsi ben ragione di ogni passo che fa, e, pur avendo un senso largo del valore di tutte le esigenze, anche opposte, e cercando di soddisfarle, cerca quanto può di non fare compromessi momentanei, di non lasciare possibilità di equivoci: dove gli pare di veder chiaro, taglia netto. (p. 115)

(…) in questo spirito intimo, che è nel modo di sentire la vita e tutti i valori spirituali, nella finezza e profondità e solidità del modo di filosofare e quindi di vedere la realtà, noi sentiamo la maggiore perdita e la maggiore angustia degli idealisti rispetto al Kant, nonostante tutta la grandiosità e lo splendore esterno dei loro sistemi: essi hanno guadagnato molto, ma hanno perduto tutti, come si vedrà, ciò che più importa ed è insostituibile, la purezza della spiritualità. (p. 119)

(…) molti temperamenti contemplativi, anche grandi letterati o filosofi o storici o studiosi d’altro genere, ma senza un senso morale molto saldo, non avendo ragioni personali si lasciano a volte dominare più o meno ingenuamente dall’ammirazione per un personaggio politico che almeno esteriormente faccia azioni rumorose, e sono spesso più o meno consciamente come ogni filisteo grandi ammiratori di chi onestamente o disonestamente vince. Essi non si chiedono poi, giacchè non interessa al loro atteggiamento contemplativo, se con tutto questo e nonostante quella superiorità che certamente in qualche senso più o meno grosso c’è sempre in chi vince, non possa essere molto superiore e la sola degna di essere sostenuta la parte di chi esteriormente e per allora ha perduto. Da questo atteggiamento spirituale è nata in parte anche la famosa satira hegeliana del dover essere fichtiano e kantiano. (…) Con lo stesso errore della mentalità che egli combatte, e portato dall’equivoco insito nella parola stessa, egli vede la realtà dell’idea sullo stesso piano della realtà dell’empirico, e interessandogli di più questo, finisce per negare l’altra. Così restava incompresa la dignità propria dell’ideale, diversa da quella della realtà ma non già per questo inferiore, e con essa restava incompresa in gran parte o non aveva il posto che le spettava la sostanza migliore dell’età moderna e anche dell’illuminismo, quel senso non solo sempre più forte ma anche sempre più puro dell’ideale che si esprime in tante forme diverse e apparentemente indipendenti, tanti modi diversi in cui si è affermato in età moderna lo spirito cristiano: la subordinazione dell’individuo, di ogni individuo, alla legge universale, l’uguaglianza di ogni individuo come persona, quel rispetto infinito della persona che è d’altra parte umiltà e abnegazione dinanzi all’opera da compiere, sacrificio di sé all’idea. Tutto questo lo storicista Hegel, pur vivendone e pur celebrandolo in parte teoricamente, non l’ha sentito così profondamente che non gli prendesse la mano il gusto un po’ torbido del reale, e quindi la soddisfazione intellettuale di fare quasi lo smaliziato, l’uomo positivo, che bada alla realtà effettuale, e guarda un po’ dall’alto quegli ingenui che si perdevano dietro alle nuvole del dover essere. (pp. 127-128)

(…) quando venga poi la necessità di agire, viene pure in luce la sterilità di quel modo di sentire la vita, la mancanza di fede nell’ideale che in esso a poco a poco si matura, e che abitua a seguire non l’idea ma la realtà, cioè il novanta per cento, semplicemente la via più comoda a noi stessi. E così, lasciando da parte le generazioni formatesi all’idealismo, si può vedere già negl’idealisti stessi, specialmente in quelli più romantici ed umanisti, come di fronte alla realtà pratica dimostrassero spesso tutt’altro che fede pura nell’idea, ma invece fiacchezza di carattere, e strappi e incoerenze forti, e per lo meno mancanza di elevatezza morale. E’, in generale, l’inferiorità morale dello spirito goethiano allo spirito kantiano. Dietro agli uomini Goethe e Hegel, noi vediamo sopravanzare, tanto più alti, il Kant e se mai il Beethoven: ma questi, proprio perché tanto più alti, rimanevano rispetto a quelli moralmente senza seguito. E quel che è peggio, e che forse avrà più conseguenze nello svolgimento posteriore della cultura nazionale, non è il fatto di per sé che agli idealistici romantici l’elevatezza morale mancasse nella pratica della vita, ma il fatto che anche nella loro filosofia mancasse un punto d’attacco a ciò: con quelle celebrazioni del trionfo dell’Idea manca poi il senso della necessità di tenerle fede ferma nell’umile realtà quotidiana. (p. 131)

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