Esce il 23 aprile anche in Italia Agora di Alejandro Amenábar, il film presentato nel 2009 a Cannes (leggi la recensione de Il Sole 24 ore) che racconta la morte di Ipazia, filosofa, matematica e astronoma alessandrina, uccisa da fondamentalisti cristiani agli inizi del V secolo.
L’antefatto, gli appuntamenti, un’intervista di El Mundo, un’intervista (video) di Toutlecine.com ad Alejandro Amenábar. E qualche parere a margine di studiosi.
«Ho attraversato con disagio, lo confesso, i due giorni – a ruota – “della memoria” il 27 gennaio e “del ricordo” il 10 febbraio. E spiego il perché. Anzitutto, perché ho constatato quanto diffusa sia l’idea bécera e volgare che si sia trattato d’un’applicazione del vecchio principio di un colpo al cerchio e uno alla botte: celebriamo la shoah per far piacere alla “sinistra” che notoriamente è antifascista, poi anche le foibe per accarezzare un pochino la destra e far dispetto ai comunisti (continua)».
Leggi l’articolo su Ipazia d’Alessandria di Franco Cardini pubblicato su www.francocardini.net, il 2 febbraio 2010: Ipazia
« “Lo so,/per noi tutti che vi fummo insieme in quei tempi/ Alessandria vibra ancora della sua febbre fina/ e anche del suo un po’ frenetico deliquio…”. Così Sinesio di Cirene, dotto poeta e ragionatore alessandrino, ricorda la città della sua giovinezza. La città dove si era consumata, fra la fine del IV secolo e l’ inizio del V, nell’ incendio della più grande biblioteca dell’ Antichità, l’ ultimo “sogno della ragione greca”: simbolicamente massacrata nel marzo del 414 nel corpo di Ipazia. Essa fu matematica e filosofa neoplatonica, commentatrice di Platone e Plotino, Euclide, Archimede e Diofanto, inventrice del planisfero e dell’ astrolabio – secondo quanto ci riportano le poche testimonianze giunte fino a noi. Perché della sua opera, come di quella del padre Teone, anche lui grande matematico, non c’ è rimasto nulla. Eppure quei frammenti bastano a testimoniare la fama e l’ ammirazione di cui godeva questa donna, che in Alessandria teneva scuola di filosofia. La sua uccisione, scrisse Gibbon in Declino e caduta dell’ impero romano, resta “una macchia indelebile” sul cristianesimo (continua)».
Leggi l’articolo di Roberta De Monticelli uscito su Repubblica, 9 aprile 2010: Ipazia, la donna che sfidò la Chiesa
«Avvolta nel suo mantello Ipazia percorreva, libera e armata dalla ragione, le strade di Alessandria d’Egitto nel V secolo, parlando dell’Essere e del Bene, della inessenzialità delle cose materiali, della fragilità della vita, della bellezza della meditazione ai molti che la riconoscevano maestra di pensiero e di vita. «Atena in un corpo di Afrodite». Era naturale che qualcuno si innamorasse di lei e Ipazia con un gesto da filosofa «cinica» per disilludere l’innamorato mostrava le sue vesti intime macchiate del sangue mestruale a indicare lo «squallore della vita» e la verità dell’amore che deve superare il corpo (continua)».
Leggi l’articolo di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, docente di Storia della Filosofia medievale all’Università degli Studi di Milano, pubblicato su L’Unità, il 13 aprile 2010: Ipazia, la donna che osò sfidare la Chiesa in difesa della scienza
«Fa sempre piacere dibattere del IV secolo. Significa che ci si trova in compagnia di persone istruite, capaci di distinguere il IV secolo dal III, o dal V. Il XXI, poi, risulta immediatamente fuori discussione, anche se questo comporta un indubbio sacrificio, perché sì, ammettiamolo: quell’epoca remota assomiglia al tempo in cui viviamo. Un’epoca di transizione, incerta e a tratti confusa, esposta al rischio della violenza, alla tentazione dello scontro frontale. Impossibile da iscrivere in un cerchio, la figura geometrica che, nella finzione cinematografica, risulta l’emblema ossessivo di Ipazia, la grande pensatrice neoplatonica protagonista di Agora, il film di Alejandro Amenábar in arrivo nelle sale italiane il 23 aprile. Programmazione tormentata, questa della nuova pellicola del regista di The Others e Mare dentro, tanto da suscitare una petizione online alla quale hanno aderito intellettuali di grido, tutti egualmente preoccupati dal fatto che l’uscita di Agora in Italia fosse ostacolata dal suo contenuto potenzialmente anticristiano (continua)».
Leggi l’articolo di Alessandro Zaccuri uscito su Avvenire, 14 aprile 2010, Una strana Ipazia illuminista
A confronto sul tema anche Luciano Canfora (sul Corriere della sera) e Davide Rondoni (su Avvenire). Leggi gli articoli Ipazia, il coraggio della filosofia di Luciano Canfora, e L’Ipazia di Luzi e quella dell’ideologia di Davide Rondoni. Di Luciano Canfora, si può vedere anche il video girato durante l’incontro-dibattito su Ipazia – Una donna per la libertà, la scienza, contro ogni fanatismo tenutesi alla sede della Treccani di Roma in occasione della presentazione dell’uscita in Italia del film Agora di Alejandro Amenabar (14 aprile 2010). Altri video dei relatori intervenuti: Giulio Giorello, Silvia Ronchey, Carlo Ossola, Gabriella Caramore.
* Sulla figura storica di Ipazia d’Alessandria e sulla sua ricezione dall’epoca tardoantica a oggi, un accurato contributo di Silvia Ronchey, docente di Civiltà bizantina all’Università di Siena, è scaricabile in formato Pdf da www.imperobizantino.it. Di Silvia Ronchey, si può leggere anche Ipazia: quando Talebani erano i cristiani, pubblicato il 14 aprile su La Stampa.
* Una rassegna stampa aggiornata è disponibile anche a cura del sito La voce di fiore.
Tra gli articoli:
«Stizza e silenzio. Questa la reazione della Commissione della Cei, preposta alla valutazione dei film da destinare alle sale del circuito cattolico, di fronte ad Agorà, la pellicola di Alejandro Amenábar sulla vita di Ipazia, filosofa greca uccisa dagli integralisti cattolici nel 391 dopo Cristo (…) » di Gabriella Gallozzi (l’Unità, 20.04.2010)
«Uscito sei mesi fa in Spagna, Agora, il film di Alejandro Amenábar sulla filosofa Ipazia (l’attrice Rachel Weisz), vissuta ad Alessandria alla fine del 300 dopo Cristo, sarà nelle sale italiane venerdì con oltre 200 copie. Ipazia fu uccisa con orribile crudeltà dai parabolani, fanatici cristiani che dopo aver distrutto la Biblioteca Alessandrina infierirono contro pagani ed ebrei, per ordine del vescovo Cirillo, oggi onorato come santo e padre della Chiesa. È la ragione per cui quando il film fu presentato a Cannes, l’anno scorso, si diffuse il timore di pressioni da parte del Vaticano per impedirne l’uscita, tanto che su Facebook intellettuali e filosofi aprirono una campagna di sensibilizzazione. Dice oggi Andrea Cirla, responsabile marketing della Mikado che distribuisce Agora, «quando lo abbiamo comprato, prima del doppiaggio, lo abbiamo mostrato a una commissione di giornalisti e prelati del Vaticano, c’è stata una reazione stizzita, poi è scesa una coltre di silenzio. Pensiamo che sia un silenzio studiato (…) » di Maria Pia Fusco (la Repubblica, 20.04.2010)
«È inevitabile affermare che l’omicidio di Ipazia rimarrà sempre una macchia indelebile sul cristianesimo e la sua storia. Ma il cristianesimo non è riducibile agli assassini di Ipazia e al loro violento fanatismo. L’assassinio di Ipazia si affianca a quelli già riconosciuti come tali da Giovanni Paolo II (in particolare il caso Galileo, la tratta degli schiavi, i crimini dell’Inquisizione) e a quelli non ancora riconosciuti pubblicamente, tra cui lo sterminio dei catari, l’assassinio di Ian Hus (6 luglio 1415) e di Giordano Bruno (17 febbraio 1600), esempi eclatanti di una generale persecuzione violenta dei dissidenti bollati come eretici o scismatici (…) » di Vito Mancuso (la Repubblica, 20.04.2010)
* Scarica e leggi in formato Pdf il resoconto del Giorno sull’incontro che si è tenuto a Milano il 22 aprile sulla figura di Ipazia, al quale hanno partecipato Vito Mancuso, Umberto Eco, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Eva Cantarella, Giancarlo Bosetti.
Scarica l’articolo in formato Pdf: Ipazia martire pagana e forse escort del sapere.
* Altri spunti di riflessione sollecitati dal film sul Phenomenology Lab:
Tempo di libertà. Note sul film Agora di Amenàbar e sul libero volere di Carlo Conni, con i commenti.
Il dono della vergine giusta di Gemma Beretta, autrice di Ipazia d’Alessandria, Editori Riuniti 1993; scarica il cap. VI
Su Ipazia e la sua gemella cristiana di Giacomo Costa, con i commenti
Cristiana coscienza infelice di Stefano Cardini
Nel ringraziare di cuore il nostro Web Master per aver riunito tanti contributi sulla figura di Ipazia, di cui si discute in questi giorni in occasione dell’uscita del film di Amenàbar, vorrei lasciare un breve commento, che spero possa aprire un dibattito, fatto essenzialmente di due questioni.
Una è per Franco Cardini. Che ammmiro profondamente, tanto come storico e intellettuale, quanto come uomo coerentemente e pubblicamente disposto a sostenere la sua fede cristiana, anzi cattolica, mostrando come questa possa convivere e forse addirittura – nel suo caso – nutrirsi di amore per la verità, volontà di evidenza, perfetta parresia, limpida prontezza nell’additare la trave nel proprio occhio prima che la pagliuzza nell’altrui (vorrei segnalare a questo proposito le splendide prefazioni ai libri sulla cultura islamica classica di Massimo Jevolella, solo un caso fra molti). E per lui la domanda è: eppure, di fronte alla reiterata evidenza di questa specie di forza inevitabile con cui l’abitare il potere e il doverlo conservare si risolve in perpetuo tradimento del Vangelo (pensa all’orrore del Segreto Pontificio praticato e non ammesso fino ad oggi sui più orrendi reati): di fronte a tutto questo, non ti è nato il dubbio che Cristo e il divino non abitino più lì, se mai ci hanno abitato? Pongo la domanda con la stessa accorata speranza di una risposta sincera con cui l’ho attesa quando, nella mia lettera ai Cristiani, ho chiesto a tanti amici che molto mi avevano insegnato: credete veramente, che al divino sia possibile abitare una tale istutzione terrena (o forse, ogni istituzione terrena che voglia occuparsi di governare le coscienze negli affari umani) SENZA PERDERSI NEL SUO CONTRARIO? E se credete questo, come mostrarlo a chi non lo vede, giorno dopo giorno? Ma soprattutto, perché accettare e obbedire a un papa come questo? E’ dunque intrinseco alla fede cattolica obbedire al papa chiunque egli sia? E se questo fosse vero, come si può essere intellettualmente e moralmente onesti ed essere cattolici?
Ho una questione molto più breve per Davide Rondoni: accusa di aver taciuto su Luzi i laici (o laicisti) che hanno scritto di Ipazia. A parte che invece alcuni ne hanno scritto, ma se ha letto quello splendido dramma non può non aver apprezzato la profonda e tragica ammissione che la poesia fa del vero – il divino di Ipazia è irriducibile, perfino a quel divino che Luzi evoca, e che chiede a Ipazia di morire, in fondo, come lo stesso Cristo, per conoscere nella sua carne il diverso, l’orrendo, ciò che non sta nella logica e nella morale. La poesia ammette che Ipazia lo fa: non però per salvare l’umanità in se stessa o nel prossimo, ma per pura devozione al CONOSCERE – questa è l’unica parola che le fa consentire a quel dio che la manda al sacrificio. E ricordo che Luzi provava molto fastidio quando si sentiva “ridotto” a “poeta cattolico”. Mi perdoni se non è una domanda, ma una replica.
Firenze, 24 aprile 2010, festa di san Giorgio, martire e cavaliere, che magari non è mai esistito ma io spero di sì perché altrimenti sarebbe un peccato, a parte che mi sta simpatico anche il drago.
Cara Roberta, non avevo seguito il bel dibattito su Spazia e Amenabar perché, come ti ho già scritto in un precedente messaggio, sono un semianalfabeta informatico. Ma una tua e-mail successiva si esprime in modi che mi obbligano a prendere posizione esplicita. E credo proprio che metterò queste due righe anche sul mio sito http://www.francocardini.net, non perché lo meritino, ma perché lo meritate tu, i problemi che sollevi e la figura di Ipazia: alla quale di recente don Gallo, un uomo che ammiro, ha detto durante un dibattito genovese cui anch’io partecipavo che si dovrebbe pensare come a “santa Ipazia”. (fai clic qui per continuare a leggere la lettera di risposta di Franco Cardini a Roberta De Monticelli su Ipazia e dintorni)
Dopo tanto leggere e tanto ascoltare ho finalmente visto Agora. Personalmente, consiglierei di non perderlo. Lascio da parte i meriti della pellicola in quanto tale. Viviamo in un’epoca in cui quando dico a mio figlio che vado al cinema, la prima cosa che mi chiede è se il film fa ridere, la seconda è se è in 3D: i due requisiti che per lui distinguono qualcosa da vedere da una “palla micidiale” del papà. Grazie quindi ad Amenábar, se non altro per averci restituito, in un linguaggio contemporaneo, una storia che altrimenti sarebbe rimasta tra le pieghe di qualche saggio per specialisti del mondo antico, concedendo all’inventiva poetica soltanto lo stretto necessario per trarne il senso più profondo nel rispetto delle cronache. Quanto al resto, suggerisco, se possibile, di liberarsi gli occhi e le orecchie dalla disputa a tratti risibile che ha imperversato sui giornali, tutta orientata a stabilire se e in che misura il film possa essere considerato più o meno anticristiano, più o meno antireligioso. Amenábar è più sensibile e profondo. E dispiace constatare ancora una volta quanto angusti e automatici, semmai, siano diventati i nostri pensieri. Agora ci racconta di un trapasso, del tramonto di un mondo che si pensava incorruttibile come le leggi geometriche che dovevano – e sottolineo dovevano – governare i suoi cieli. Un mondo nato piccolo e divenuto smisurato e quindi poroso, soggetto a innumerevoli infiltrazioni di antiche e nuove divinità, che ne infradiciano le fondamenta e ne mutano decennio dopo decennio il paesaggio spirituale e materiale secondo una cadenza lenta ed estenuante, per lo più inavvertita, anche nella crisi economica e militare degli ultimi secoli. Si rileggano le Enneadi di Plotino, allievo accanto al cristiano Origene di Ammonio Sacca nell’Alessandria del III secolo, e si rifletta su quel suo immane esorcismo intellettuale nei confronti del tempo e della storia, teatri di apparenze, simulacri della realtà; non nulla, certo, come spiegava distinguendo il suo dall’insegnamento delle scuole gnostiche, ma mai essere in senso pieno, compiuto, definitivo. E si comprenderà lo stupore attonito di Teone, il padre di Ipazia, di fronte al dilagare dell’incredulità, dell’empietà (già: empietà!) nella città di Alessandro, l’allievo di Aristotele che ai Greci aveva dato un impero. Il tempo e la storia lavorano per i Cristiani: non possono lavorare per lui, invece, che è anzi sgomento di fronte a una catastrofe che le sue categorie non gli consentono neppure di pensare. Ma si rilegga anche Filone d’Alessandria, ebreo mite di lingua greca, che già nel I secolo, tuttavia, dedicava al germe della vanità coltivato in città, fonte di ogni iniquità e conflitto fra gli uomini, parole inequivoche. E si comprenderà – un poco almeno, fin dove un temperamento filosofico può – il torbido e ferino ardore con cui il monaco Ammonio e il vescovo Cirillo, dal loro esilio volontario nel deserto, partono alla sua conquista, impastando del sangue d’innocenti la loro cura per gli ultimi, gli schiavi, i reietti dal firmamento ellenistico. Nella loro paradossalità, ci fanno orrore, come mezze bestie, come demoni. Ed è giusto sia così. Eppure anche in quell’orrore si scorge un seme di sotterranea familiarità, una sete morbosa di giustizia che quel simulacro di realtà che ormai era il mondo romano-ellenistico non poteva colmare, come altri mondi dopo di esso; un orrore contro il quale non basta scagliare anatemi, perché esso è dentro di noi, verme nascosto dai nostri vessilli, delle nostre bandiere, dei nostri idoli (quante ne sarebbero seguiti, e certo non soltanto religiosi!). E di Ipazia che resta, invece? Non molto, forse. Una frase soltanto, magari, tanto anacronistica quanto pregnante dal punto di vista del senso più profondo della storia: la pronuncia vicina al culmine del suo sforzo intellettuale, quando ormai è a un passo dallo scoprire la conica che meglio del cerchio poteva descrivere il moto eliocentrico degli astri. Lì, la filosofa invoca un modo nuovo di pensare, un nuovo sguardo da gettare su quella volta celeste che lei, insieme a tutta la sua cultura, fino ad allora aveva voluto perfetta, in cui il cerchio fosse ora visto solo come caso particolare dell’ellisse, curva più imperfetta, certo, ma proprio per questo più comprensiva. A questo servono, quando servono, i filosofi.
Gentilissima Signora,
nel Film “AGORA'” su IPAZIA – JOHN TOLAND, Ipazia, Editrice Clinamen, Firenze, 2010 – mancano assolutamente i riferimenti ASTROLOGICI: ed è gravissimo!!! Le scuole neoplatoniche dei primi secoli non erano guidate in tale modo. Il film è stato comunque culturalmente molto utile, se pur, da un punto di vista artistico, criticabile. Comunque ne andrebbero messi in scena altri riguardanti argomenti simili. L’ utilità del film avrebbe potuto essere evidenziata anche da MARINO discepolo di PROCLO, poiché egli racconta che Proclo stesso (Vita Procli, 30: cfr. PROCLUS, Théologie platonicienne, livre I, par H.D. Saffrey et L.G. Westerink, Paris, Les Belles Lettres, 1968, pp. XXII – XXIII), per aver custodito in casa sua la dea Atena, avrebbe poi rischiato di fare la stessa fine di Ipazia. Così erano diventate molte sette cristiane una volta finite le prime comunità apostoliche, cioè della DIDACHE’. Alcuni interventi all’epoca del Concilio VATICANO II sembrarono indicare di dover tornare a queste primissime comunità.
Fino a Dante, e perciò anche nelle antiche scuole neoplatoniche di Atene e di Alessandria, non esistevano comunque semplici lezioni astronomiche senza riferimenti all’astrologia tolemaica e, conseguentemente, senza l’identificazione, quanto meno, dei quattro umori, UMIDO, CALDO – fecondi e attivi e perciò nobili e montanti- , e SECCO e FREDDO – distruttivi e passivi e perciò volgari e volgenti – (Tetrabiblos, I, V, 1-2; I, VIII, 1-2). Anche Dante incentra, sia il viaggio della Commedia, che gli altri episodi simbolici della Vita Nuova e del Convivio sui quattro umori esercitati dagli astri durante il loro moto (rivoluzioni sinodiche, o aspetti dei pianeti in rapporto col Sole) e peculiarmente sugli umori umido e caldo in quanto, appunto, nobili e montanti (Convivio, IV, XXIII). Vedere il Link: http://www.youtube.com/watch?v=wV4vEG15yjA). Che gli storici e i letterati non ne parlino, e non vogliano prenderne atto, non significa affatto che la realtà non fosse allora immaginata nel modo da me evidenziato, cioè tutta sussumibile sotto questi quattro umori che, per questo, erano ritenuti universali (Cfr. Par., XXXIII, 7-9).
Il problema della teorizzazione del movimento ELLITTICO dei pianeti messo in evidenza da Ipazia, a migliore giustificazione delle loro apparenze in cielo, è importante, ricorda la passione per la ricerca dei neoplatonici, ma la loro passione per la ricerca stessa andava ben oltre questo semplice aspetto astronomico-gravitazionale a noi tanto caro. Essi erano ancor più impegnati nel problema della spiritualizzazione dell’anima: problema i cui tentativi di risoluzione venivano ugualmente sottoposti ad osservazione scientifica, empirica, sia pure sotto il profilo della soggettività, cioè, diremmo noi, di una “scienza universale dell’anima in generale” (E. HUSSERL, La Crisi delle scienze europee, § 69).
I pianeti ontologicamente influenti erano inoltre i primi cinque in base a CLAUDIO TOLOMEO, ma anche a Dante, e andavano gerarchicamente dalla Luna a Marte (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte). La Luna si immaginava, non a caso, assai vicino alla Terra e alla sua fertilità e l’angelo signore di questo primo e più basso cielo, o pianeta, non per caso è GABRIELE. Le gerarchie angeliche della cultura cristiana sono ovviamente parto della mentalità di rimonta verso l’Uno, verso il Bene, del mondo platonico e neoplatonico. Non per caso furono meglio messe a fuoco da DIONIGI L’AREOPAGITA (Atene, I secolo d.C.), come testimonia anche Dante (Par., XXVIII, 130-132) e perciò tali gerarchie già indicando l’angelo Gabriele quale signore del cielo della Luna la quale, per la maggior parte della gente, così scrive Tolomeo, attraverso il suo novilunio (umido) e plenilunio (caldo), influenza positivamente la fecondazione degli animali e la semina delle piante (Tetrabiblos, I, III, 14). Questo, per senso, era il mondo neoplatonico.
Ritornando alla neoplatonica Ipazia, sulla Terra esisterebbe, per la Tradizione esoterica, un problema riguardante SATANA: cioè la non volontà di resurrezione quale conseguenza indiretta degli influssi di incarnazione esercitati dalla Luna sulla Terra.
Al contrario Marte, essendo assai più vicino al più alto dei cieli, ed essendo lontanissimo dalla Terra, darebbe luogo al problema riguardante LUCIFERO: cioè la non volontà di incarnazione.
Il cielo della Luna già presiede alla GRAMMATICA che permette all’essere umano di iniziare ad incarnarsi nella cultura. Il cielo di Marte presiede invece alla MUSICA che permette all’essere umano di affrontare la morte con convinzione, cioè col superamento di essa stessa: Marte-Musica-Martirio-Morte. Nella sua piena completezza Marte inclina dunque al versamento del sangue per la verità, mentre la Luna inclina al poter fare incarnare Colui che sarà all’altezza di questo compito, di questa verità-realtà ontologico-vissuta (Convivio, II, XIII, 8; Commedia, Par., XIV, 103-108). Lo ripeto, questo, per senso, era il mondo neoplatonico da cui Dante fu fortemente influenzato, forse seguendo anche l’arabo Avicenna, o l’ebreo Abramo Ibn Ezra (Avenare).
Ontologicamente, per arrivare a tanto, bisognerà però che prima l’anima discenda dagli influssi dei cieli superiori alla Luna e che si estendono fino al cielo di Marte, per così incarnarsi sulla Terra. Le aspirazioni dell’anima dovranno vincere la luciferina e simbolica non volontà di incarnazione presente nei cieli superiori: ed è qui che essa può essere aiutata dagli influssi della Luna andando però incontro poi, una volta incarnatasi sulla Terra, alla satanica non volontà di resurrezione. Ma a risolvere questo ulteriore problema interverrà la potenza di Cristo.
LUCIFERO e SATANA appaiono dunque anche come due campi di forza opposti e necessari, quindi scientificamente utili, alla maturazione dell’uomo completo qualora riescano cristicamente a crocifiggersi l’uno sull’altro.
Quando allora il nostro allievo dedica ad Ipazia, nell’agorà, la sua musica è simigliante al cielo di Marte e sottostà perciò al problema della non volontà di incarnazione, ovviamente. Ipazia l’ha capito, e se l’ha capito, quale docente della Scuola, cosa vorrà ancora insegnargli? Potremmo anche ipotizzare che Ipazia non sia mai esistita, però, essendo stata costruita la sua storia, essa stessa dimostrerebbe, a più forte ragione, che il problema di questi delitti, o assassini, o martirizzazioni, esisteva.
Quando dunque Ipazia contraccambia, nella storia, didatticamente l’omaggio fattole dal suo allievo, regalandogli il suo fazzoletto macchiato del suo mestruo, intanto il simbolo è ovviamente quello del cielo della Luna, mentre il consiglio non potrà essere che quello di doversi anche lui meglio incarnare. Dunque Ipazia, seguendo i significati astrologici, per il suo regalo legato alla Luna, consiglierebbe all’allievo di incarnarsi meglio, più completamente, oltre che di continuare, ovviamente, a dedicarsi alla musica. E siamo qui all’inizio e alla fine (Luna-Marte) del tragitto ontologico dell’essere umano in base agli influssi dei pianeti.
Anche Gesù Cristo si incarnò attraverso gli Uffici del signore del cielo della Luna: l’ANGELO Gabriele, che sarebbe perciò un grave errore chiamare ARCANGELO, come invece si legge anche in alcuni testi promossi dalla Conferenza Episcopale Italiana.
I due campi di forza della NON VOLONTA’ (non volontà di incarnazione per chi si trova in cielo, e a più forte ragione in quello della musica; e non volontà di resurrezione per chi si trova sulla Terra in conseguenza degli influssi della Luna), per tentazione reciproca danno luogo, ontologicamente, alla Croce di Cristo che, se intesa come simbolo di scienza, diventa e simboleggia la contemporanea volontà di incarnazione e di resurrezione. Questa è la Croce di Cristo. Cristo, ovvero l’Uomo che insegna la strada della deità, deve diventare infatti potente di incarnazione e di resurrezione: da qui, appunto, la CROCE DI CRISTO come simbolo, ormai trascurato, di una scienza della soggettività in generale e dell’evoluzione della persona. Questa traiettoria esistenziale risulta anche dagli insegnamenti, ancorati alla Tradizione, del Filosofo e romanziere francese RAYMOND ABELLIO (cfr. R. ABELLIO, LA STRUCTURE ABSOLUE, Essai de phénoménologie génétique, coll. Bibliothèque des Idées, Gallimard, Paris, 1965, pp. 23, 244, 333-353, 358, 440, 450-462, 469-475, 519. A pagina 349 egli così scrive, p.e., : “Il cielo è il germe di una terra ideale, ma esso, in quanto luciferino, dovrà incarnarsi sulla Terra. Non può restare germe. Il campo simbolico di forza luciferino che sta in cielo e quello satanico che viviamo qui sulla terra rendendola un’Inferno, non si conoscono però come tali e, da qui, l’impotenza a crocifiggersi l’uno sull’altro mancando loro, momentaneamente, una sufficiente reciproca tentazione”, p.349).
Il contraccambio del regalo, MUSICA CONTRO MESTRUO, fatto da IPAZIA punterebbe dunque, considerandolo sotto questo profilo esoterico-scientifico, alla maturazione del suo allievo e, più in generale, alla realizzazione futura di una terra ideale: la pagana NOVELLA TROIA promessa da Giove a sua figlia Venere mattutina e perciò UMIDA E CALDA (VIRGILIO, Eneide, libro primo, 254-260; Annibal Caro, 416-421) e, ugualmente, alla realizzazione della cristiana NUOVA GERUSALEMME TERRESTRE.
Ipazia, sotto il profilo scientifico-spirituale, cioè della ricerca della verità è, paradossalmente, già più cristiana dei cristiani e del suo allievo, e dunque non per caso è lei a versare il sangue per la verità, ad essere martire: Marte-Musica-Martirio-Morte e quindi assai vicina a Cristo crocifisso. Scrive Dante: “In forma dunque di candida rosa / mi si mostrava la milizia santa / che nel suo sangue Cristo fece sposa;” (Par., XXXI, 1-3).
IPAZIA “ESCORT”.
Ipazia per alcuni sarebbe stata una “ESCORT”? In altre parole una donna pronta a ripetere quasi a memoria le lezioni di importanti docenti di Teologia neoplatonica?
In questo nostro frangente cattolico-culturale italiano apparentare Ipazia ad una “escort” potrebbe confondere però le idee, il senso che effettivamente ebbe la sua vita, che poi è quello che dovrebbe contare. Essa fu sacra.
Essere un docente universitario di alto lignaggio, oppure famoso, indubbiamente è una cosa commendevole, però essere una martire è cosa ben diversa, assai più difficile e moralmente ben più impegnativa, per cui sarebbe d’obbligo per tutti dire: “GIÙ IL CAPPELLO!” Il sangue versato, è sangue versato, e in ogni circostanza. I discorsi ben altra cosa e assai più facile e debole. Il fatto che un debole possa criticare, o fare impallidire, un forte a me intimamente dispiace.
Ipazia non fu disposta a farsi adescare da credenze maggiormente di moda, o meglio remunerate, e quindi Essa fu, ontologicamente (ontologia vissuta) una vera donna di Filosofia, cioè all’altezza di dare buoni consigli ad una Civiltà in fieri. Per me il cristianesimo è superiore al paganesimo classico, però bisogna vedere di quale cristianesimo parliamo. A qualificare l’essere umano non valgono solo i discorsi e i libri pubblicati con successo quanto, soprattutto, il comportamento. Il letterato mai potrà essere esistenzialmente superiore al martire. All’ intellettuale, a volte, piacerebbe, ma non è così, non è giusto. L’intellettuale appartiene al cielo di Mercurio (dialettica) e, semmai, a quello del Sole (ampliamento di coscienza), il martire, invece, al superiore Marte. Inoltre i martiri, anche se pagani, per me cristiano, seguace di Dante, hanno gli stessi poteri dei nostri santi martiri, per cui, dilà, potrebbero anche offendersene: e, nel mondo-dilà, pagano e cristiano, la stima nostra di viventi verso di loro sembra contare, avere un peso.
E’ interessante ricordare come Dante MALEDICA nel Convivio quei cristiani che non vedono nella paganità classica la spinta necessaria per diventare autentici cristiani. Egli sta dunque dalla parte di Ipazia mentre così scrive: “Maledetti siate voi (cristiani traviati), e la vostra presunzione, e chi a voi crede” (Convivio, IV, V, 9).
Non si può studiare il medioevo e la classicità, come anche gli egizi e i caldei (Tetrabiblos, I, XXI, 1; I, XXI, 8; I, II, 15; I, III, 18; II, XI, 3), solo riempiendosi la mente di avvenimenti, di episodi storici e di cronaca e di date poiché tale indirizzo è parziale, intimamente deludente, e infine finisce per impoverire lo studente e la cultura. Per studiare con autentico profitto culturale le epoche passate bisognerà invece cercare prima di tutto di impadronirsi delle scienze di allora, delle epoche di cui intendiamo riferire poiché è di esse stesse che ha vissuto l’umanità di cui vogliamo riferire. Per il progresso esistenziale della nostra civiltà è interessante il vissuto di queste epoche a noi lontane e non l’esibizione mnemonica di dati spesso manualistici. Il compito è difficile, faticosissimo e rischioso ma possibile, comunque ineludibile.
Scriveva EUGENIO GARIN che l’università delle Scienze Umane, sotto questo profilo, fa pena. Io ho condiviso il suo sentimento e ho cercato di porre alcuni qualificanti rimedi con lunghi, continuativi e faticosissimi studi. Il risultato didattico è però rimasto inascoltato. Oggi mi domando: Perché?
Con un saluto.
Firenze, 30 giugno 2010,
Giovangualberto Ceri
Tel. 055 – 650.55.37 –
cell. 333.396.1191
Cara RDM
io non ho nessuna intenzione di ridurre Luzi con nessuna etochetta non non solo perchè lo conoscevo bene, ma so pure per esperienza sulla mia pelle quanto siano sempre riduttive e fastidiose. Anche se come sa il termine cattolico è etimologicamente il contrario di una possibile etichetta. Il mio appunto valeva per coloro che (quasi tutti) reclamavano una sorta di sordità (o addirittura censura) della cultura italiana alla vicenda di Ipazia che invece Luzi aveva portato al centro della scena. E certo in quel dramma si dice – come ogni cattolico pensa – che il divino soffi dove vuole, specie là dove ogni tipo di intolleranza interviene a colpire. Sul resto concordo con Cardini e la sua lettura più avvertita della faccenda di Ipazia, piegata dal dibattito a arma un poco di propaganda. Un caro saluto
Non si può commentare senza prima avere visto, e solo ieri sera ho avuto modo di vedere Agorà, a lungo inseguito perché anch’io affascinato dalla figura di Ipazia. Tutto iniziò con un articolo della letteratura medica (lo segnalo perché probabilmente sfuggito a molti: Vinicor F. “Hypatia: change, limits, and interconnectedness.” Diabetes 1997; 46(12): pag. 1923-1927), in cui veniva tratteggiata la vicenda umana, professionale e intellettuale di Ipazia. Per me, colpo di fulmine. Ignorante, non sapevo allora che un volto Ipazia ce l’ha, anche prima di questo film: gliel’ha donato Raffaello nella sua “Scuola di Atene”, dove Ipazia è l’unica, oltre allo stesso Raffaello, a guardare dritto negli occhi noi che contempliamo l’affresco.
Il film mi è piaciuto (bravissima Rachel Weisz), forse anche più di quello che esteticamente vale (non sono in grado di giudicare).
Due passaggi, fra gli altri che hanno suscitato risonanze dentro di me, vorrei citare.
Il primo, quando Ipazia afferma che morirebbe in pace se sapesse di aver potuto spostare anche solo di pochissimo il confine della conoscenza. (E’ così: chi fa ricerca, è spinto da un “daimon”; dentro di sé “sente” che la conoscenza in sé è già premio e giustificazione per la ricerca. Solo dopo arrivano le altre motivazioni, e anche le limitazioni etiche e non, legate alla fin fine sempre a una concezione del bene).
Il secondo, quando Ipazia, davanti a Sinesio e Oreste, afferma di non poter rinunciare al dovere di dubitare, di porre domande.
Su queste due cose, io, cristiano cattolico, sento esattamente come la Ipazia (quanto simile all’originale?) del film.
E c’è un terzo momento che vorrei richiamare, il momento di coraggio del pragmatico, navigato Oreste: il rifiuto di inginocchiarsi di fronte alla Parola strumentalizzata per colpire (e come!) una persona (e non apro l’argomento che, per i cristiani, la Parola non è di Dio, ma ispirata da Dio; non esiste un rigo vergato da Gesù…). Quello è il momento in cui Oreste appartiene veramente a Gesù Cristo, ed è quindi “cristiano”. Vorrei, se e quando mi capitasse qualcosa di analogo, essere capace di essere altrettanto cristiano, appartenente a Gesù.
Perché è il punto dell’appartenenza che vorrei sollevare.
Non ha molto senso discutere se Ipazia sia stata o no “naturaliter christiana” e pertanto, come dire?, della chiesa cattolica (e le altre?) o no. Ipazia non appartiene a nessuno di noi, e a nessuna istituzione. Piuttosto, chiunque fra noi sia affascinato e ispirato dalla sua figura esemplare, appartiene, in modo misterioso, un po’ a lei. Esistono persone che sono ispirate dalla figura di San Francesco, e non si definirebbero mai cristiane: gli diremo, no, voi no?
Ancora più bruciante diventa questo punto, se ci spostiamo su Gesù e le comunità dei cristiani, Alessandra 415 o Roma 2010. Chi appartiene a Gesù è cristiano, e verrà riconosciuto come tale da Gesù stesso, anche se lui/lei non siano mai stati consapevoli di essere “cristiani”. Tutto trae legittimità, se e quando ce l’ha, Chiesa cattolica inclusa, da Gesù. Ma attenzione: la Parola ispirata da Dio riconosce la presenza perenne e potente dell’Anticristo nella storia. Fuori di visione mistica e metafora, non è solo chi/cosa si oppone a Cristo, ma anche chi nella storia diventa scimmia di Cristo. Per questa seconda forma di Anticristo, Chiese e cristiani sono, e saranno sempre, i primi sospetti, e mi pare che la storia lo dimostri, in abbondanza. Questa parte specifica della storia dei cristiani e della Chiesa ispirò l’invito di Giovanni Paolo II alla “purificazione della memoria”, che giustissimamente Franco Cardini rispolvera. Richiamo epocale per i cristiani, ma forse anche per i non cristiani.
Ma, se Cristo e Anticristo, per un cristiano, sono sempre presenti nella storia, come orientarsi? Franco Cardini (o lo fraintendo?): l’obbedienza. Esatto, obbedienza come forma più alta e più pura di ascolto della voce di Gesù, che per prima cosa ci restituisce la libertà e la piena responsabilità, sempre. L’ascolto non è ascolto, se non usa la ragione e il cuore, se non interroga e pone continuamente e incessantemente domande. Come dice Cardini, Gesù è anche incomprensibile. Disciplina è quella applicata dal discepolo, che è un discente, e deve incessantemente porre domande, della ragione e del cuore, e sfidare le risposte. Altrimenti, non ama abbastanza il suo Maestro, non Gli appartiene.
Obbedienza e disciplina cristiane sono quelle di Oreste, che nel film non si inginocchia davanti al libro della Parola di Dio (men che meno davanti a chi artiglia quel libro nelle mani: eppure, noli me tangere!).
Obbedienza e disciplina cristiane sono quelle di Davo, che, soffocandola a morte, sottrae lo spirito di Ipazia alla tortura, allo scempio e alla profanazione del corpo di Ipazia.
(Davo si presenterà davanti a Cristo e si accuserà dell’omicidio di Ipazia; Ipazia, se ve ne fosse bisogno, sarà il suo difensore.)
A chi non è cristiano, non è cattolico: non mi sfugge l’enorme importanza della Chiesa cattolica nella storia umana, ma neanche la Chiesa cattolica, come istituzione mondana, ha alcuna garanzia di essere la comunità di tutti quelli, e solo di quelli, che Gesù riconoscerà come Suoi. La voce di chi, presentandosi come cristiano, non suoni alla Chiesa-istituzione e/o a voi sufficientemente ortodossa, non necessariamente dovrebbe essere incasellata come non-cattolica o non-cristiana, non prima almeno del vero ascolto, della vera ricerca di una consonanza con l’unica Voce cristiana: lo Spirito di Gesù.